giovedì 31 maggio 2007

Harvey

Harvey di Henry Koster (1950) Commedia di Mary Chase, Sceneggiatura di Mary Chase, Oscar Brodney, Myles Connolly Con James Stewart, Josephine Hull, Peggy Dow, Charles Drake, Cecil Kellaway, Victoria Horne, Jesse White Musica: Frank Skinner Fotografia: William H.Daniels (104 minuti) Rating IMDb: 8.1
Giuliano
« Vedete, dottore, mia madre mi diceva sempre: “In questo mondo, Elwood (...) devi essere o molto astuto o molto amabile”. Io preferivo l’astuzia, ma consiglio l’amabilità. Vi autorizzo a citarmi.»
Harvey è sparito. Che tristezza: quand’ero bambino l’avevo visto, e mi era piaciuto molto anche se l’esistenza di un coniglio gigante, grande come un uomo adulto e per di più invisibile, mi aveva inquietato parecchio. Ma il coniglio era amico di James Stewart, e quindi non poteva essere cattivo...
Mi dispiace molto che i bambini di oggi siano privati di Harvey, e siano costretti ad accontentarsi di Sponge Bob o dei Simpsons. Harvey non si vede mai, nel film, ma è come se ci fosse: era un “mostro” (un mostro gentile e simpatico, un “pookah”, stretto parente degli animali incontrati da Alice nel paese delle meraviglie) creato su misura per tutte quelle generazioni che erano cresciute sui libri, e quindi avevano abbastanza immaginazione per vedere un coniglio anche dove non c’era. Oggi i bambini non leggono più, gli adulti men che meno; e si tende a far vedere tutto, anche i fantasmi e i mostri dell’ID, e questo secondo me è un grave difetto – però mi si dice che piacciono, questi orchi e diavoli e vampiri tutti uguali e indistinguibili gli uni dagli altri, che vagano dall’uno all’altro film senza nemmeno lavarsi o cambiarsi l’abito di scena. Ma io ho nostalgia per quella paura che sapevano mettere i vecchi film, anche non facendo vedere nulla: la fantasia può ben riempire questi spazi, e le creature fantastiche che sappiamo inventarci saranno sempre superiori a quello che gli esperti di trucchi cinematografici potranno mettere in immagine. In questo caso poi non c’è proprio da aver paura: sì, forse il protagonista del film (che fu prima recitato anche in teatro proprio da Jimmy Stewart, con grande successo) è davvero matto, ma forse sono più matti gli altri, quelli che non vedono il Grande Coniglio e cercano di normalizzare anche la fantasia più innocua.
Comunque sia, so per certo che il mio Harvey (quello che ho visto in questo film) non è uguale al vostro: caso mai, è assolutamente identico a quello che vede James Stewart, e scusate se è poco.

mercoledì 30 maggio 2007

Van Gogh

Van Gogh di Maurice Pialat (1991) Sceneggiatura di Maurice Pialat Con Jacques Dutronc, Alexandra London, Bernard Le Coq, Gérard Séty, Corinne Bourdon, Elsa Zylberstein Musica: Léo Delibes, Philippe Reverdy, Jean-Marc Bouget, André Bernot, Arthur Honegger Fotografia: Gilles Henry, Emmanuel Machuel (158 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
Il Van Gogh di Pialat è stato per me un prodigio inatteso. Ero molto diffidente, prima. Mi aspettavo un film sul contrasto arte-vita o sulla tragedia del non essere riconosciuto o sulla follia dell’artista o un film pieno di acribìa citazionista: i luoghi, i quadri, non solo quelli di Van Gogh, ma quelli di Cézanne, di Renoir, di Degas, di Toulouse-Lautrec. Pialat fa una cosa del tutto diversa: non mostra le opere di Van Gogh, quelle che si vedono sono dei volonterosi falsi di qualche ammiratore invido o reverente. Il regista si rende benissimo conto della impossibilità di tradurre la pittura in cinema e decide di essere lui il pittore, e ci riesce in modo splendido. Gli ultimi 67 giorni della vita di Vincent Van Gogh non saranno nella realtà stati così, ma così divengono, nelle mani di Pialat. Se comincia una scena en plein air non succede allo spettatore, appena comincia la scena, di dirsi: "Sì, Cézanne!", succede dopo. Significa che prevale la visione dall’interno, siamo talmente presi da non aver tempo per il museo interiore - rispettabile, ma sempre museo - ci sentiamo parte di quel mondo, con le sue sconcezze, i suoi vizi inevitabili, la sua esplosività e la condanna a morte quotidiana. Ci sono tre donne attorno a Van Gogh (Jacques Dutronc, poco somigliante ma verissimo): Marguerite, la giovanissima figlia di Gachet (Alexandra London), Joanne, la moglie di Theo (Corinne Bourdon), Cathy, l’amica prostituta (Elsa Zylberstein), ma anche altre, come la ragazzina che serve nella locanda.

Queste donne, accanto a Dutronc, costituiscono il cuore del film, anche se Theo e Gachet sono importanti. Non so come fosse da questo punto di vista Van Gogh, poteva anche essere un mistico folle ed asessuato, ma l’artista che abbiamo di fronte in questo film è Pialat, siccome è artista grande, dobbiamo fidarci della scelta dei suoi modelli. Parrà strano, ma era ed è l’unico modo a disposizione per evitare l'operazione calligrafica o commerciale o troppo saputa. Ma c’è una sorpresa, nel modo coraggioso di Pialat di essere lui al centro (altrimenti, che artista sarebbe?): che finito il film, dentro di noi veramente siamo in grado di capire di più quel tempo, gli uomini, le donne, persino un artista che c’è stato allora: Vincent Van Gogh. La naturalezza di Pialat nel procedere per la sua strada diventa la chiave perché noi (chi se no, al posto nostro?) ci apriamo una strada solo nostra - non c’è remissione – in cui scatta l’Ah! senza forzature: abbiamo capito Pialat, Van Gogh attraverso Pialat, soprattutto abbiamo capito meglio noi stessi, dobbiamo farlo ogni giorno, il "noi stessi" non è surgelabile né liofilizzabile. Guardando il film, sappiamo benissimo che cosa succederà a Vincent alla fine di quei 67 giorni, sappiamo anche che Theo morrà poco dopo, sappiamo tutti la fine terribile che ha fatto il nipote di Theo, sappiamo che tutta quella compagnia di svitati, scemi, poveracci, viziosi e prostitute è destinata ad afflosciarsi in pochi mesi, fra assenzio e sifilide, ospedali, contagio e prigione. Eppure nel film non c’è malinconia, non c’è tristezza, c’è magari un senso di morte, quello che si può provare solo finché si è vivi. Faccio fatica a esprimerlo, ma l’impressione grande di questo film è un abbraccio lucido e appassionato fra vita e morte, tanto più c'è dell’una tanto più c’è dell’altra. Inserisco nei commenti parte di una recensione del film che ho trovato in un sito francese. Non sono riuscito a trovare il nome dell'autore ma la recensione, molto ben scritta, mostra una amorosa attenzione al film ed una lodevole comprensione degli intenti del regista.

Nuovo, nuovissimo, anzi archeologico (2)

Roby
L'opinione di Quinto Orazio Flacco sulla contesa fra vecchio e nuovo:
"Qualche volta il pubblico vede giusto; ma può anche sbagliare. Quando ammira ed esalta gli antichi poeti sino a preferirli, escludendo ogni confronto, a chiunque altro, ha torto. Quando invece riconosce che in loro si trovano espressioni troppo arcaiche, spessissimo dure, e ammette che molte sono fiacche, mostra buon gusto, s'intende con me e giudica in grazia di Dio. Non che io denigri l'opera di Livio e ritenga che si debba distruggerla (ricordo come, da ragazzo, Orbilio me la dettasse a suon di frusta), ma che la si consideri per la purezza dello stile bella poesia e vicinissima alla perfezione, questo, confesso, mi stupisce. Certo, spiccano momenti di grazia, qualche verso piú armonioso degli altri, ma non si può prendere e spacciare l'insieme per opera di poesia. Io m'indigno che qualcosa si critichi non perché la si ritenga composta in modo rozzo e senza gusto, ma solo perché di tempi recenti, e che per gli antichi, piuttosto che indulgenza, si pretendano onori e premi."
Lo stesso Orazio a proposito della commedia:
"(...) Di norma si ritiene che, per il fatto d'ispirarsi alla vita quotidiana, la commedia costi pochissima fatica; per la verità ne richiede tanta, quanto minore è l'indulgenza che le diamo. Osserva come Plauto sostiene i suoi personaggi, l'efebo innamorato, il padre avaro, il ruffiano insidioso, e che istrione è nei suoi ingordi parassiti... (...)"
Ed infine, sulla superficialità di certi spettatori e di certi spettacoli:
"(...) C'è mai voce che possa vincere il frastuono che sale dai nostri teatri? Sembra l'urlo dei boschi del Gargano o del mare Tirreno, tanto è lo strepito con cui si assiste agli spettacoli, alla loro scenografia, allo sfarzo esotico dei costumi, di cui l'attore è paludato quando appare in scena: e scrosciano gli applausi. 'Ha cominciato?' 'Non ancora.''E che cosa si applaude?''Ma la lana, che con la tintura di Taranto ti rammenta il colore delle viole.... (...)"
Il tutto tratto dall' Epistola a Cesare Augusto, riletta un po' per noia, un po' per divertimento, in un uggioso pomeriggio di pioggia.

Il diavolo veste Prada

The Devil Wears Prada di David Frankel (2006) Sceneggiatura di Aline Brosh McKenna, Lauren Weisberger Con Meryl Streep, Anne Hathaway, Emily Blunt, Stanley Tucci, Simon Baker, Adrian Grenier, Tracie Thoms Musica: Theodore Shapiro Fotografia: Florian Ballhaus (109 minuti) Rating IMDb: 6.8
Manuela
Dopo una notevole serie di film di guerra e western, ho chiesto una tregua e mi sono fatta suggerire da mia figlia un film rilassante e, soprattutto, da donna. Così, finalmente, ho potuto rilassarmi davanti a “Il diavolo veste Prada”. Questo film dimostra, innanzi tutto, che gli americani non hanno perso il tocco con le commedie; infatti è una godibilissima “commedia americana”, facile da seguire, divertente, perfettamente ambientata, e recitata magistralmente. E non è stupida, perché questo tipo di commedie non lo è mai; al contrario, buttano lì, senza parere, e con ironica leggerezza, spunti per riflessioni che potrebbero protrarsi molto a lungo, situazioni e problemi che attengono alle numerose contraddizioni del mondo di oggi.
Avevo letto che era un film sulla moda, ma non è proprio così. E’ bensì ambientato nel mondo della moda, ma a me sembra che il tema di fondo sia quello del lavoro: di che posto debba avere nella nostra vita, fino a che punto sia giusto sacrificarvi la vita privata, fino a punto si possa giungere senza vendersi l’anima al diavolo (appunto). Se vi sembrano temi di poco conto! Senza parlare del tema del merito, che forse è quello centrale. Perché questo diavolo (una Meryl Streep straordinaria) fa sputar l’anima alle sue assistenti, le mette in situazioni intollerabili, pretende una dedizione assoluta; fino ad indurre la giovane Andy (Anne Hathaway, di fresca e intelligente bellezza) a ribellarsi a questa vita e ai compromessi con la propria etica che inevitabilmente comporta. Ma in fondo Andy , che recupererà la sua vita privata e i suoi ideali professionali, ha in sé la grinta e la volizione che le permetteranno di sfondare, e sa bene che il diavolo non è poi così cattivo, e un pochino le assomiglia. E c’è, naturalmente, l’antico sempre attuale tema, riassunto in una sola illuminante frase del film: “Se Miranda fosse un uomo tutti direste solo che sa far bene il suo lavoro”: essere una donna in carriera non è poi tanto facile, nemmeno in America.
Devo confessare che questo mondo aggressivo, competitivo e stressante, ma in cui ci si fa strada col merito e non con le raccomandazioni, mi solletica: ma deve essere solo l’effetto di una troppo lunga permanenza nella pubblica amministrazione italiana in cui merito, obiettivi e risultati sono termini del tutto sconosciuti.
E la moda? (I dotti amici maschi possono anche smettere di leggere adesso). E’ alta moda americana, e si vede. Il solo momento in cui si vedono bei vestiti – santo cielo, veramente belli!!! – è la sequenza della sfilata di Valentino. In compenso, Valentino, in persona, recita malissimo anche interpretando se stesso.

martedì 29 maggio 2007

Pulp Fiction (1)

Pulp Fiction di Quentin Tarantino (1994) Sceneggiatura di Quentin Tarantino, Roger Avary Con Tim Roth, John Travolta, Amanda Plummer, Eric Stoltz, Bruce Willis, Ving Rhames, Maria de Medeiros, Rosanna Arquette, Peter Greene, Uma Thurman, Duane Whitaker, Steve Buscemi, Quentin Tarantino, Harvey Keitel Musica: un elenco di canzoni che non finisce più, guardatele sotto soundtrack in IMDb Fotografia: Andrzej Sekula (154 minuti) Rating IMDb: 8.8
Solimano
Su Pulp Fiction ce n'è da dire, per me e per altri, quindi segno fin da ora che è la prima puntata.
Ho tanti motivi per amare questo film, quello in me prevalente lo espressi a suo tempo in un post che sembrava parlare di tutt'altro, ma addussi Pulp Fiction come esempio positivo dei miei convincimenti. Fra le reazioni ce ne furono due notevoli. Uno con cui ero in corrispondenza, dedusse dal post che stavo diventando matto e mi scongiurò di curarmi fin che ero in tempo, un altro mi fece lodi forse eccessive, e giunse ad una conclusione tutta sua: Pulp Fiction bandiera dei cattivi apparenti (in realtà buoni) e La vita è bella di Benigni all'opposto, bandiera dei buoni apparenti (in realtà cattivi). Un discorso piuttosto intrigante, ma non banale. Ecco il mio post, scritto volutamente con fastidiosa aulicità:
"Questo porta l'attuale stagione, prima in cultura che in politica, prima in morale che in cultura. Gli è che il corpaccione comatoso del Romanticismo (maiuscolo, prego!), in tale stato almanco dal 1897, anno della dipartita di Johannes Brahms, grande sibbene ultimo, gli è che tale corpaccione continua ad ammorbare l'aria co' suoi pestilenziali effluvii. I lodevoli sforzi di tanti medici pietosi rivolti ad una rapida e dolce fine non sono bastati. Proust, Stravinsky ed Einstein, Wittgenstein e Bartok, Musil e Russell (da giovane) e Joyce fra i tanti. Ma stregoni e sciamani invigilano al perdurare del corpaccione, pronti, in caso di decesso, ad imbalsamazioni o modernizzanti clonazioni (pecora Dolly, pure lei maiuscola!): Freud e Jung (almanco sublimi ciarlatani), Heidegger, Mann giù giù insino a' nostri Croce, D'Annunzio, Pirandello, Pavese, Pasolini e ancora più giù Malaparte, Milani il Don, Fallaci. Pochi e non amati i medici italici: Gadda, Montale, Svevo, Calvino su tutti. Attrezzi de' medici: telescopio, microscopio, lente e tant'altri disegnati su misura delli obietti osservati. Attrezzi degli stregoni: uno solo, lo specchio in cui si rimirano in millanta pose convenevoli e non. Continueranno a vincere gli stregoni, armati di Sindone e di Amelie, di TV deficiente e, soprattutto, di Amore (maiuscolo, prego!), specie verso sé stessi ed i lontani: i vicini sono invece contemnendi. L'altra sera ho rivisto, per l'ennesima volta, Pulp Fiction, recente e maravigliosa bandiera de' medici pietosi. Un mondo in cui, per chiamare le cose con verità ingenua, non si affonda nel limo puteolente de' menzogneri sentimenti, menzogneri anzitutto con sé stessi. Puteolente, il limo, sibbene cosparso di tonnellate di profumi forniti dalle più riputate ditte, che in ciò trovano una qualche convenienza. Una domanda, infine: ma il Giovanni Sebastiano, le ragioni, le passioni, i sentimenti, li sapeva esprimere? Lasciò questo pianeta nel 1750, ben prima che Jean-Jacques Rousseau principiasse la plurisecolare frescaccia degli odiatori delle matematiche, che hanno trasformato i lumi in candele, e relativo waltzer".

Poveri ma belli

Poveri ma belli di Dino Risi (1957) Soggetto e sceneggiatura di Dino Risi, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa Con Marisa Allasio, Maurizio Arena, Renato Salvatori, Lorella De Luca, Alessandra Panaro Musica: Piero Piccioni (alias Piero Morgan) Fotografia: Tonino Delli Colli (101 minuti) Rating IMDb: 6,8
Roby
Ecco un'altra delle mie grandi passioni "all'italiana": amori, equivoci, gelosie e smargiassate in riva al Tevere, poco prima che la Dolce Vita esplodesse a Via Veneto con i suoi caffè, con le dive e gli attori americani che si baciavano, si ubriacavano e poi spaccavano le macchine fotografiche in testa ai paparazzi. Romolo (Maurizio Arena) e Salvatore (Renato Salvatori, il mio preferito) si contendono i favori della bella Giovanna (una prorompente Marisa Allasio), senza accorgersi che le loro sorelle (la De Luca e la Panaro) spasimano l'una per il fratello dell'altra. Alla fine, però, Giovanna li lascerà entrambi con un palmo di naso, tornando dal vecchio fidanzato, e a quel punto, finalmente, i due bulletti cominceranno a guardare le rispettive sorelline con occhi diversi, vedendole quali realmente sono: cioè due belle, sane e simpatiche ragazze pronte ad amarli per tutta la vita. Ed in effetti -lo ricordava di recente Solimano in un suo post sulle bellone "siliconate"- le cognatine Panaro-De Luca, rigorosamente "fatte in casa", sono veramente deliziose. Così come brilla di genuino splendore Marisa Allasio, le cui forme generose sono tutte opera di mammà. Verso di lei, più che invidia per l' innegabile bellezza, non posso non provare simpatia e solidarietà femminile: se li meritano, i suoi scherzi, quei due bambocci scansafatiche, tanto tronfi e sicuri del loro fascino quanto facili a cadere nella rete! Il bianco e nero di Tonino Delli Colli (e scusate se è poco!) ci riporta ad una Roma che non esiste più, nella quale il barcone con lo stabilimento balneare sul Tevere è un vero reperto archeologico, e che mi dispiace da morire di non aver fatto in tempo a conoscere. Sotto lo pseudonimo di Piero Morgan si celano le musiche di Piero Piccioni (càspita!), e nell'intreccio della storia ha messo le mani anche Pasquale Festa Campanile. Risultato: una specie di novella del Boccaccio ambientata negli anni '50, con il gusto frizzante di una gazosa e l'allegria inebriante del vino de li castelli. Facendo finta che quella fosse l'Italia vera dell'epoca, che i problemi della ricostruzione fossero barzellette e che il boom economico -ormai imminente- sarebbe durato per sempre.

Umberto Eco al cinema (1)

L’effetto Kulesov e l'orso che ride
(La Bustina di Minerva su L'espresso, 19 febbraio 1989)
Alberto Moravia, nella sua rubrica di cinema {"L'Espresso" n.4) ha scritto che "L'orso" di Jean Jacques Annaud «oscilla tra il film d’autore e il prodotto di successo», mentre tutti ne avevano parlato solo come di un film che cerca di far leva sui buoni sentimenti, e sulla nostra ingenua propensione a vedere gli animali come esseri umani, capaci di fare ciao ciao con la manina.
La settimana scorsa, sempre sull' "Espresso", Giorgio Celli argomentava che forse gli orsi si comportano anche così, ma che non è la realtà etologica che conta, bensì l'intento ecologico.
In ogni caso nessuno può mettere in dubbio che il film giochi su uno straordinario effetto di realtà. Vi ho ceduto anch'io: mi sono goduto il film di Annaud intenerendomi nei momenti giusti. E tuttavia seguivo la vicenda preso da un sospetto crescente: che il film non mi parlasse affatto di orsi. Avrebbe potuto ottenere lo stesso effetto se avesse raccontato una storia di lucertole.
Infatti "L'orso" non ha per protagonista un orso, bensì il cinema in persona. E' un esercizio, una scommessa, una dimostrazione teorica - ma anche una dichiarazione d'amore - sulle possibilità del cinema e sul fatto che il cinema non è arte imitativa e realistica. Il cinema è un alto artificio che mira a costruire realtà alternative a spese di quella fattuale, che gli provvede solo il materiale grezzo. Il film di Annaud è un inno all'effetto Kulesov.
Lev Vladimirovic Kulesov è stato un grande cineasta e teorico del film di cui Pudovkin diceva: «Noi facciamo film, lui ha fatto il cinema». E aveva non solo teorizzato, ma realizzato in pellicole e in esperimenti di laboratorio tutte le magie del montaggio. Kulesov riprendeva il "grande" Muzuchin mentre guardava fisso davanti a sé, non importa con quale espressione. Poi in fase di montaggio mostrava in controcampo un piatto di minestra. Lo spettatore era convinto che l'attore esprimesse intensamente una ardente brama di cibo. Poi Kulesov cambiava il montaggio, e mostrava al posto della minestra un cadavere. Muzuchin esprimeva, per chi guardava, orrore, tristezza e sgomento. La faccia era sempre la stessa, ma il montaggio l’aveva caricata di sentimenti, ovvero aveva indotto lo spettatore a proiettare nella pellicola i sentimenti che si attendeva di veder espressi.
Un'altra volta Kulesov aveva mostrato una donna che si truccava davanti a uno specchio, sollevava da terra una sigaretta, si infilava le scarpe: ma la donna non esisteva, il regista aveva usato volta a volta la faccia, gli occhi, le mani, i piedi e la schiena, rispettivamente, di cinque donne diverse. Scriveva: «Si può mostrare che con il montaggio l'attore può anche non conoscere assolutamente le cause che lo costringono a esprimere dolore, gioia eccetera, e che nel cinematografo ogni espressione di sentimento da parte dell'attore non dipende dalle cause materiali di questi sentimenti».
Il pubblico di Annaud segue la tenera storia di un orsacchiotto senza rendersi conto che gli orsacchiotti usati sono più di uno e di colore diverso (ma si pensa che la differenza sia dovuta alla luce). Rivedendo i vari fotogrammi del film, ci si renderebbe conto che questi orsacchiotti hanno sempre la stessa espressione, o comunque una gamma assai limitata di espressioni ferme, per nulla simili a quelle umane. Ma il sonoro da un lato (che commenta le espressioni e i gesti con gemiti e mugolii teneramente antropofonici) e il gioco del montaggio inducono lo spettatore a pensare che quegli orsi patiscano quelle emozioni che noi patiremmo nelle stesse circostanze.
Il film di Annaud ci dimostra che con il montaggio si può dire tutto, specialmente quello che non c'è. Incontrando Annaud gli ho detto brutalmente che a lui degli orsi non importava nulla e che voleva fare un film sul cinema come bella menzogna, ovvero come arte. Mi ha risposto che era felice che qualcuno finalmente glielo dicesse. Gli ho chiesto perché non lo diceva lui. Mi ha risposto che ha tentato, ma la gente non gli crede. Gli chiedono notizie dell'orsetto.
Annaud ha dunque vinto la sua scommessa, e forse troppo? Per rispondere bisognerebbe decidere quale era la scommessa. Se era quella che dico io, ha forse ridotto troppo quei segnali impercettibili attraverso i quali avverte lo spettatore che egli sta facendo un gioco sulla fune, tra l'arte sull'arte e la poesia ingenua e sentimentale.

lunedì 28 maggio 2007

Orizzonti di gloria

Paths of Glory di Stanley Kubrick (1957) Sceneggiatura di Humphrey Cobb, Stanley Kubrick, Calder Willingham, Jim Thompson Con Kirk Douglas, Ralph Meeker, Adolphe Menjou, George Macready, Wayne Morris, Richard Anderson, Christiane Kubrick Musica: Gerald Fried Fotografia: Georg Krause (87 minuti) Rating IMDb: 8.5
Giuliano
"Orizzonti di gloria" è un film del 1957, e fu diretto da Stanley Kubrick. E' uno dei più grandi film della storia del cinema, e mi dispiace vederlo dimenticato, al di là dei meriti artistici, perché la storia che racconta è una di quelle che non perdono mai d'attualità. Siamo nella Prima Guerra Mondiale, sul fronte francese; un generale pazzo, per suoi calcoli personali di carriera, ordina un attacco impossibile: e invano il colonnello Dax (interpretato da Kirk Douglas) tenta di impedire un inutile massacro. Il generale ritiene che l'ordine non sia stato eseguito, per codardia: e la Corte Marziale ordina una punizione esemplare. Tre soldati sono sorteggiati, a caso, e verranno fucilati dopo un processo sommario. Il film è la storia di questo processo, nel quale invano il colonnello Dax, in veste di avvocato, cercherà di difendere i suoi soldati innocenti.Una storia agghiacciante, e anche amara, raccontata in modo esemplare da Stanley Kubrick: che a questi temi teneva molto e ci tornerà sopra, in seguito, con altri film indimenticabili.Che cosa ci vuol dire Kubrick? Provo a riassumere (ma il film è molto più complesso): che il mondo in cui viviamo è basato, e sono fondamenta molto forti, proprio sull'ordine militare. Il capo è il Capo, e un Ordine non si può discutere, perché si rischia il crollo di tutto il sistema. Poco importa che il capo sia in realtà un povero disgraziato, o addirittura un folle: l'ordine va eseguito, e senza discutere. "Il dottor Stranamore" , che invece qualcuno si ricorda più facilmente, è di pochi anni successivo, ed è lo stesso film girato però in modo caricaturale: si ride, ma è ancora più agghiacciante perché stavolta i pazzi hanno in mano la bomba atomica.Parlo di questo film perché gli avvenimenti recenti (quelli miei personali e quelli che vediamo al telegiornale) mi hanno riproposto un pensiero che purtroppo mi torna spesso a galla: a molta gente questo mondo piace. A molti piace la mentalità da caserma (con tutto il rispetto per i soldati veri, naturalmente), dove tutto è in ordine e c'è un capo che pensa per noi e al quale bisogna ubbidire, non importa quale sia l'ordine.Mi fermo, perché questi sono temi degni di un saggio, e di quelli ponderosi; ma magari ci si può tornare sopra, più avanti.

Il giorno della locusta

The Day of the Locust di John Schlesinger (1975) Romanzo di Nathanael West, Sceneggiatura di Waldo Salt Con Donald Sutherland, Karen Black, Burgess Meredith, William Atherton, Geraldine Page, Bo Hopkins, Pepe Serna Musica: John Barry Fotografia: Conrad L. Hall (144 minuti) Rating IMDb: 7.1
Solimano
A detta di molti critici questo film è ambizioso e fallito, ma è un fallimento che dura più del perfettismo di certi film che uscivi dal cinema contento e il giorno dopo già te l'eri scordato, quel film, che aveva da dire solo la sua perfezione di prodotto. Il tema è importante, forse oggi più di ieri: la speranza delusa e la conseguente disperazione, che può tracimare in violenza. E’ un tema che riguarda i tanti che si dibattono fra i due poli, speranza e disperazione, finché un giorno di accorgono che l’errore era proprio nella premessa, cioè nella speranza, che non è l’ultima dea ma la prima fregatura. Troppo si dà per scontato a questo riguardo, dico solo che speranza e desiderio non sono la stessa cosa e che se ci manteniamo sulla zattera del desiderio accudendola con cura possiamo fare a meno delle fughe in avanti (o all’indietro?) della speranza. Il giorno della locusta è, nel cinema, un film sul cinema e sulle trappole che il cinema dissemina per la variegata umanità della Hollywood degli anni Trenta che attorno al cinema si aggira sperando di entrarci. Le trappole esistono anche per noi, il fascino del cinema è talvolta venefico. Tod Hackett (William Atherton) arriva ad Hollywood per farsi strada come scenografo, è costretto ad abitare in un appartamento piccolo e mal ridotto, c’è perfino un buco nel muro: lui su quel buco infila una rosa rossa, per celarlo. E’ bravo nel suo lavoro, creativo e organizzato, ma conosce la vicina Faye Greener (Karen Black), aspirante attrice, e a suo modo se ne innamora. Ma i soldi servono, e Faye affascinerà il sessualmente represso Homer Sympson (Donald Sutherland) che un po’ di soldi li ha. Detta così, sembra una storia lineare, ma tutto è diverso da quello che sembra, una delle chiavi per capire è che Faye non persegue veramente il successo nel cinema, ma l’autodistruzione, anche attraverso il sesso. Le storie sono tante, si incrociano, si sovvertono, si interrompono, e Schlesinger mescola il fascino inevitabile col sistematico squallore. E’ come trovarsi sulla porta del paradiso che ti si chiude davanti proprio mentre stai per entrare. Il film è aiutato dal fatto che Karen Black è magnificamente fuori parte, quindi recita guardando il suo personaggio dal di fuori. Il film è eccessivo, debordante, contraddittorio: quando stai per lasciarti prendere, acidamente il regista ottiene che tu conservi le distanze, in modo da poter giudicare. E' anche un film sociale, sul comportamento di una folla che perde il controllo ed è disposta persino al linciaggio pur di sfogare il proprio disagio. Altro argomento attualissimo, vediamo come si è modificato il modo di ragionare in questa epoca senza sicurezze, che perciò cerca soluzioni facili e violente. Il crollo della collina fittizia durante le riprese di un film è un po’ come un castello di carte, che proprio nel momento che stai per dire :”Che bello che l’ho fatto”, collassa in carte sparse sul tavolo. Il cinema, un certo tipo di cinema è stato ed è anche questo: dare corpo fittizio come la collina che crolla, ma comunque corpo alla pulsione di speranza di una folla apparentemente potente, in realtà solo pericolosa, perché la disperazione sociale deve pure trovare una sua via di sfogo. Alla fine Tod deciderà di andarsene da Hollywood e Faye chissà, proseguirà la sua strada in cui ogni tanto si affaccia anche la prostituzione: i soldi servono, solo che Faye apparentemente lotta per il successo, solo che quando potrebbe ottenerlo sistematicamente sbaglia. Mi sento estraneo al tormentone libro/film, ma dopo aver visto Il giorno della locusta desideravo leggere il libro di Nathanael West, non per verificare le concordanze e le differenze ma per leggere come racconta il finale: una folla illusa - quindi delusa - che si sfoga con l’incendio, la violenza, il linciaggio. Il giorno della locusta dice troppo e a volte dice male, ma un fallimento così serve ancora oggi.

domenica 27 maggio 2007

Alessandro Manzoni al cinema (1)

Giuliano
No, Alessandro Manzoni al cinema non c’è mai stato, e sappiamo tutti perché (è inutile nascondersi la verità). Però nella prefazione al “Conte di Carmagnola” ha lasciato scritto degli ottimi principi, che spesso ci dimentichiamo di applicare:
« Pubblicando un'opera d'immaginazione che non si uniforma ai canoni di gusto ricevuti comunemente in Italia, e sanzionati dalla consuetudine dei più, io non credo però di dover annoiare il lettore con una lunga esposizione de' principi che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti recenti contengono sulla poesia drammatica idee così nuove e vere e di così vasta applicazione, che in essi si può trovare facilmente la ragione d'un dramma il quale, dipartendosi dalle norme prescritte dagli antichi trattatisti, sia ciò non ostante condotto con una qualche intenzione. Oltrediché, ogni componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l'intento dell'autore; se questo intento sia ragionevole; se l'autore l'abbia conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali è controversa appunto l'universalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un lavoro: il che per altro è uno de' più piccoli mali che possano accadere in questo mondo. Tra i vari espedienti che gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de' più ingegnosi è quello d'avere, quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute ugualmente come infallibili. Applicando quest'uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi dicono a chi la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato l'esempio. Questi comandi che rendono difficile l'arte più di quello che è già, levano anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione d'un lavoro poetico; quand'anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui s'espone sempre l'apologista de' suoi propri versi. (...) »
La prefazione prosegue, parla di temi strettamente teatrali, e penso che sia piuttosto facile da reperire per chi volesse leggerla tutta (è molto interessante, ne vale la pena). Ma a me piace, visto che bene o male un po’ di critica la facciamo anche qui, fermare una frase: “ ogni componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l'intento dell'autore; se questo intento sia ragionevole; se l'autore l'abbia conseguito.”
Ecco, quando si guarda un film (o si legge un libro, o si ascolta una musica, o si chiacchiera con qualcuno) questa frase andrebbe tenuta ben presente. Poi, ognuno è libero di dire il suo “mi piace, non mi piace”, perché qui si entra nella questione del gusto personale e de gustibus, per l’appunto, non est disputandum; ma un film (un libro, un parere) può non piacere ed essere comunque di livello altissimo, ed ogni tanto è bene dirlo perchè è una massima così ovvia che si corre sempre il rischio di dimenticarla.

Cialtronerie siliconiche

Solimano
L'immagine che metto non è fotograficamente di qualità elevata, ma rende l'idea di come era Emmanuelle Béart nel 1994, quando girava il film "L'enfer" di Claude Chabrol. Sono passati tredici anni, ed oggi Emmanuelle non è più così, è tecnologicamente più bella. Non è il solo caso, oggi fanno quasi tutte così; sembra ormai certo che prima di compiere i ventitré anni sia normale fare intervenire il chirurgo. E come ben sappiamo, la cosa non riguarda solo le donne, ma anche gli uomini, par condicio, è abbastanza normale che io mi accorga di più di quello che succede alle attrici che agli attori. Riporto un mio post sull'argomento pubblicato qualche mese fa nel blog di Sabelli Fioretti, era intitolato Il calendario del chirurgo:
"Impossibile distinguerle l'una dall'altra, tutte marmorizzate nei calendari dalle prodezze della cialtroneria siliconica. Con le stesse moine, gli stessi gesti, quello ad esempio di scostar la mutanda ma solo un poco, che non si veda pelo veruno. Meglio le ricciolerìe ingenue di Playmen. Lo chiedevi con voce sommessa all'edicolante, che lo estraeva dalla pigna vicino alle ginocchia, e poi te lo ascondevi nella libreria seria, fra Cervantes e Gongora. Queste hanno le mammelle gemelle monozigote, mentre la natura eterozigote le fece - gran bella cosa. Propongo il Calendario del Chirurgo: i dottori Tizio, Caio, Sempronio presentino mese per mese le loro mirabilia, qual catalogo di prodotti. Nel backstage compaia pure lui, desso chirurgo, nudo come mamma lo fece, però con un boa di struzzo, il cappello sulle ventitré e il sorrisuccio di chi ce l'ha fatta nella vita. Anche il fotografo, o il pennellatore tecnologico, alto un metro e cinquantasette, brache corte, epa prominente, scarpe ginniche o infradito - a sua scelta. Non è rimpianto, il mio, è che le cognatine De Luca e Panaro erano meglio, a non parlare di Marisa Allasio".
In quel blog non scrivo più, per un contrasto irrisolto, succedono queste cose, e quando giro una pagina la giro con un colpo secco. Ma mi ha fatto piacere che nel libro uscito in questi giorni "La mia vita è come un blog", Claudio abbia messo come conclusione le quattro pagine di un mio post molto lungo, "La grande magnata". E' un segno di stile di cui gli dico pubblicamente grazie.
Vengo alla cosa più importante: i libri sono due, c'è abbinato "Ciao Welby", che raccoglie i tanti interventi di Piergiorgio Welby pubblicati nel blog, che sono andato a recuperare uno per uno in quell'archivio sterminato. Io l'ho conosciuto benissimo, non nella vita reale, ma leggendo ogni giorno o quasi i suoi post man mano che uscivano. Welby era ben diverso dalla immagine che molti oggi ne hanno in base ai noti accadimenti. Come scrive Claudio: "Era ironico, allegro, spiritoso, leggero". Aggiungo che era coltissimo e proprio per questo non se la tirava per niente. Noi abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo: Welby in noi è vivo, vivissimo.

Le mani sulla città

Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) Sceneggiatura di Francesco Rosi, Raffaele La Capria, Enzo Forcella Con Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Marcello Cannavale, Carlo Fermariello, Angelo D'Alessandro, Dany Paris Musica: Piero Piccioni Fotografia: Gianni Di Venanzo (105 minuti) Rating IMDb: 7.4
Giuliano
Dice, scandendo bene le parole: «Quando si parla di “Mani sulla città” se ne parla per la speculazione edilizia. Ma è riduttivo. Come quando definiscono il mio "cinema politico". Riduttivo. Quel film, stia bene attento, è la storia di come viene cambiata a un terreno la destinazione assegnata dal piano regolatore. E’ la storia di come un imprenditore delle costruzioni, realizzando un illimitato conflitto di interessi, riesce a diventare assessore all'urbanistica da consigliere comunale che era, per potersi servire di quel potere a vantaggio delle proprie imprese. Da qui parte il riconoscimento di qualcosa che era valido ieri, 1963, come è valido oggi. Rendere legale attraverso il potere politico corrotto ciò che è illegale. Non so se mi sono spiegato». (Francesco Rosi, intervista di Paolo D'Agostini, Repubblica 18 febbraio 2007 )
Se qualcuno si chiede come mai a me non piacciono i film dell’orrore (qualcuno sì, ma non tutti), la risposta può essere nelle prime sequenze di “Le mani sulla città”, l’inizio e i titoli di testa. Qui siamo all’orrore più completo, la speculazione edilizia è mostrata nel suo orrore più pieno e colossale, peggio di così è difficile immaginare. E’ Napoli, quarantacinque anni fa: le immagini riprese dall’elicottero, in panoramica, valgono da sole più di qualsiasi discorso. Il disastro era già compiuto, mancavano solo le Vele di Scampia a completare l’opera. Ma Napoli vale qualsiasi altra città d’Italia, il disastro della cementificazione ha colpito le coste della Liguria come la Valle dei Templi e la pianura padana, e ormai è tardi per rimediare, ammesso che qualcuno ne abbia davvero voglia. Ed è un momento tragico, di tragica verità, quando il consigliere comunale di sinistra incontra i disgraziati che stanno per essere sfrattati: « Li avete votati voi », dice – ed è andata proprio così. “Loro” comandano perché sono stati votati. E l’ultima riflessione che mi sento di fare è la più amara: con le leggi che abbiamo oggi, per il “cattivo” del film sarebbe tutto più facile. Non avrebbe bisogno di brigare tanto, potrebbe fare una lista civica col suo nome e farsi eleggere sindaco direttamente dai cittadini; e magari non solo sindaco, come abbiamo visto.
PS: L’inverno scorso, pochi mesi fa, Napoli era descritta come l’inferno in terra e si discuteva se era il caso di mandarvi l’Esercito perché la situazione era drammaticissima, fuori controllo. Adesso non solo non se ne parla più, ma abbiamo anche scoperto che, proprio a Napoli, per tre anni ci sono stati magistrati e carabinieri che hanno passato le loro giornate ascoltando, registrando e catalogando le conversazioni telefoniche degli arbitri di calcio. Sono contento per loro, e per le loro famiglie che hanno avuto i loro cari meno esposti al pericolo in quel periodo: ma questa mi pare l’ennesima barzelletta all’italiana (chiedo scusa per la banalità, ma non saprei cos’altro dire – spero che almeno ci sia la camorra o il riciclaggio di soldi sporchi, dietro alle partite truccate, altrimenti sarebbe proprio il caso di mettersi a piangere...).

sabato 26 maggio 2007

Addio mia concubina

Bawang bieji di Chen Kaige(1993) Soggetto e sceneggiatura di Lilian Lee e Lu Wei Con Leslie Cheung, Zhang Fengyi, Gong Li Musica: Zhao Jiping Fotografia: Gu Chang Wei Scenografia: Yang Yuhe (170 minuti) Rating IMDb: 7,8
Roby
Probabilmente, se avessi visto questo film al cinema ne conserverei un ricordo ancora più vivido di quello che ho, legato ad una visione televisiva. Eppure, già sul piccolo schermo, l'incredibile esplosione di colori di cui la pellicola è pervasa (sia quelli concreti dei costumi e delle scene, sia quelli metafisici delle passioni e degli odii) fu sufficiente ad affascinarmi, ed insieme a me il mio gentil consorte, rapiti entrambi dalla suggestione di una storia e di un mondo tanto lontani dal nostro, eppure ugualmente intelleggibili con un minimo di sforzo. Nella Cina degli anni '30 seguiamo le vicende degli attori Shitou e Douzi, uniti da affettuoso sodalizio sia nella vita reale che sul palcoscenico, dove l'uno interpreta il ruolo del Re, l'altro (stupefacente in abiti femminili) quello della sua Concubina. L'equilibrio si spezza una prima volta nel momento in cui Shitou s'innamora di una prostituta (la stupenda Gong Li), e il dramma continua all' epoca del revisionismo maoista, quando Shitou, per salvarsi, accusa pubblicamente Douzi, che infine si ucciderà per lui. Come scrive Lietta Tornabuoni: "Il film si estende durante oltre cinquant’anni, dal 1924 al 1977, attraverso l’invasione giapponese, l’egemonia del partito nazionalista, l’avvento dei comunisti al potere, la Rivoluzione culturale: ma la Storia è soltanto uno spettacolo. Gli eventi restano lontani, presentati in forma teatrale, e offrono appena un’occasione al manifestarsi delle gelosie, dei conflitti, della pochezza del maschio troppo amato". Lo confesso, non avrei mai immaginato che un'opera cinematografica così raffinata e particolare potesse coinvolgermi tanto: ma giuro che, davanti alle lunghe scene delle estenuanti e lentissime rappresentazioni teatrali, tutte giocate sui movimenti aggraziati degli attori, sulla ricchezza dei costumi e sulla ripetitività delle musiche, non mi sono annoiata neanche un istante. Anzi: è quella la parte del film a cui sono più affezionata, oasi di armonia e di bellezza -anche se solo apparente- in mezzo alla violenza fisica e psicologica della storia.

Le soulier de satin

Le soulier de satin di Manoel de Oliveira (1985) Testo di Paul Claudel, Adattamento di Manoel de Oliveira Con Luis Miguel Cintra, Patricia Barzyk, Anne Consigny, Anne Gautier, Bernard Alane Musica: Joao Paes Fotografia: Elso Roque (410 minuti) Rating IMDb: 7.6
Giuliano
«Ascoltate bene, non tossite, e cercate di capire un po’. Ciò che non capite è il più bello. Ciò che è più lungo è il più interessante, e ciò che non troverete divertente è il più arguto.»
Non so niente di Paul Claudel. Ho cercato di leggermi qualcosa di suo, dopo aver visto il film, ma senza grandi risultati: anzi, a dire il vero, ho abbandonato subito la lettura di “La scarpina di raso” e da allora non l’ho più ripreso in mano.
Perché la magia di questo film non sta nel soggetto (il Portogallo tra il ‘500 e il ‘600, la storia di Don Sebastiano e la conquista del Brasile attraverso la vicenda dei due amanti che non s’incontrano mai), ma nella magia del Teatro.
E’ dal Teatro che parte Manoel de Oliveira, in maniera buffa: c’è un attore che funge da Prologo, ci dice due parole, fa suonare le trombe; e subito dopo le porte della platea si aprono e gli spettatori entrano in sala. E’ una scena realizzata in un modo semplice e perfetto, che dà grande emozione a chi sa cos’è il Teatro, anche solo da spettatore. Subito dopo, la narrazione comincia; e, come nell’Enrico V di Laurence Olivier, è un continuo passare dal palcoscenico al film, senza soluzione di continuità, quasi in maniera magica: in mare, su una zattera alla deriva, un uomo che forse è un gesuita. E’ legato, ha le vesti stracciate: qualcuno lo ha abbandonato così; prega e declama il suo monologo confidando nella salvezza...
E’ un film molto lungo, in costume, con lunghi monologhi, che richiede pazienza anche perché la storia del Portogallo – diciamocelo – non è che in Italia la si conosca poi tanto. Ma io con questo film ho imparato chi era Oliveira, e da allora non mi sono più perso un suo film; o almeno, ho cercato di farlo perché questo benedett’uomo ha passato i novanta e continua implacabile a fare un film all’anno. E io mi metto in ascolto, mi preparo come se fossi in teatro, non tossisco, e so che ciò che non capisco è il più interessante, e che quello che mi sembra una perdita di tempo in realtà non lo è mai, quando ho a che fare con Manoel de Oliveira o con un altro dei grandi maestri del presente o del passato.

Carlo Emilio Gadda al cinema

Carlo Emilio Gadda
(da "Cinema")
(...)
Il corso Garibaldi procurava al Cinema Garibaldi l’afflusso più lauto: tortuoso e cosparso di gusci d’aràchidi, di mozziconi di sigarette appiattiti, di scaracchi d’ogni consistenza e colore, c’era il ricordo delle castagne, quel delle arance, per i camminatori degli oscuri cammini luminoso e giocondo segno del Sud: c’era il presentimento dei cocomeri patriottardi. Bucce da marciapede, care ai chirurghi. Una folla, solita a deprecare la pessima organizzazione del mondo, lo percorreva trionfalmente, dimenticando a sprazzi i metodi di cura suggeriti dagli specialisti: come per attimi si dimentica un eterno mal di denti.
Sicché, per tutto quel pomeriggio, il Cinema aveva allentato i suoi cordoni di velluto verde trangugiando frotte di stupende ragazze, alcune però con le gambe leggermente arcuate, e un po’ troppo grasse: fra le gambe delle quali sgattaiolarono tutti gli undicenni del quartiere.
Queste ragazze della domenica, insomma, mi parevano talora un po’ ridicole. Però qualcuna mi piaceva. Sono talora piuttosto gonfie che floride, le più dimesse hanno gonfi portamonete un poco sdruciti: ambiscono sopra ogni cosa di recare una borsetta da passeggio e un cappello, sicché passino inosservate, come una signora qualunque che tutti si volgano ad ammirare. Col gran caldo le borsette finiscono per tinger loro le mani, le quali appaiono alcuna volta un po’ rosse e screpolate, a meno che non siano strette dai guanti.
Sono i guanti un ingegnoso dispositivo inteso a facilitare varî atti del cerimoniale contemporaneo, come la consultazione dell’orario delle Ferrovie dello Stato o la raccolta dei ventini, quando, preso il resto, se ne seminano per terra tre o quattro, suscitando negli astanti vivo interessamento.
Per solito le ragazze in discorso scompaiono dalla circolazione verso le sette: ma il Cinema è un vortice folle, inghiotte anche i più massicci artiglieri.
Il fatto è che due erano assai graziosamente adorne di fenomenali perle, le quali non parevano destare alcuna cupidigia nei cavallereschi marioli che le attorniavano.
Gli undicenni e i da meno pagavano mezzo biglietto o una frazione qualunque, per esempio cinque centesimi d’ingresso, secondo la disponibilità del momento. Il distributore faceva un suo rapido conto, qual’era il massimo che poteva venir fuori da quelle tasche, di quei calzoni. E puntava sull’imponibile. Alcuni di quei calzoni non conoscevano nemmeno le mani riparatrici della mamma e il conto non poteva andar tanto in là.
Spigliati e franchi, e senza lo sguardo implorante del cucciolo che sta per leccarsi i baffi, pretendevano fior di biglietti i giovanotti: piantavan sul banco un tondo fermo, magari un biglietto, e non per ischerzo. E, invece di implorare, condannavano: nella vita non bisogna incantarsi. «Del resto, se fa affari, il Garibaldi, è per noi».
Vestivano dei completi marron o bleu: alcuni dal caldo s’eran però tolta la giacca: le bretelle si rivelavano allora un po’ vecchie e sudate: erano affette da complicazioni ortopediche di spaghi e legamenti, tra i quali e i bottoni superstiti della cintura intercedevano rapporti piuttosto complessi. Entravano rumorosamente, inciampando in qualche imprevisto del Garibaldi, sì che di necessità dovevan finire addosso allo sciame gaietto: («oh! ma dico!»): e le lor mani robuste davano indicazione d’una «settimana» saldamente incastonata nel fenomenalismo economico, le di cui leggi sono, è vero, un po’ dure d’orecchio; e non disdicevole neppure alle esigenze del divenire morale: i di cui canoni, sempre larghi di vedute e soccorrevoli con ogni campana quando si tratta di incanalarci verso le molteplici ricevitorie del bene, si piantano però poi policemen a gambe larghe davanti quella poca minestra, esigendo, uno sguardo fregativo, il vizzo scontrino: lo leviamo con il pianto nell’anima e con un tremendo appetito in corpo e c’è scritto:
«Vale per minestre una».
E abbiamo fatto una fatica da cavallo!
Alcuni giovani erano ancor più eleganti, ancor più disinvolti: scarpe a vernice, piega diritta del pantalone, una mollezza elegante non disgiunta da virile trascuranza per ogni aspetto del mondo che fosse estrinseco al problema fondamentale.
I loro proventi erano sicuramente più lauti: adocchiavano certe belle, sogguardandole in tralice: recidendo con lo sguardo d’un attimo la continuità dell’ora festosa: e quasi recando nella trama ingenua dell’allegrezza la sensazione di un al di là vero e diverso costituente la vita. Le occhiate ràpide sudice e vili destavano l’ammirazione dei minori, che pensavano, divenuti serî ad un tratto: «Questi sì, che sono già uomini».

Improvvisamente la sindrome tipica delle frenòsi collettive si manifestò nel magma. Impazzirono tutti. Non furono più che degli accamaònna e orcoìo, fra gomitate e strappi paurosi. Dal foderame de’ panni emergevano volti tumefatti, nel mentre particolari oggetti di rifinimento si allontanavano dal proprio insieme come sciarpe o mezze giacche o qualche ombrello restìo che, tenuto disperatamente da cinque dita e da un pezzo di braccio male incastratosi fra gli omeri di due sconosciuti, seguiva il proprietario un po’ da lontano. Invocazioni disperate dei gracili, degli erniosi, dei denutriti, e così degli asfittici, gelavano i cuori sensitivi. E poi tutto si confuse in un violento torrente il quale, dopo intoppi e gorghi d’ogni maniera, proruppe rigurgitando nella diabolica sala, così come dai valichi retici usò dilagare verso melme padane la paurosa gente, nomine Unni.

Nella tenebra liberatrice in cui piombammo ad un tratto ogni urto fu attenuato e il boato delle passioni umane vaniva.
I silenti sogni entrarono così nella sala.
(...)
P.S. Nell'immagine, con Gadda c'è Pietro Germi, al tempo in cui girava "Un maledetto imbroglio" tratto dal "Pasticciaccio" di Gadda.

Baci e abbracci

Baci e abbracci di Paolo Virzì (1999) Sceneggiatura di Francesco Bruni, Paolo Virzì Con Francesco Paolantoni, Massimo Gambacciani, Pietro Gremigni, Samuele Marzi, Paola Tiziana Cruciani, Daniela Morozzi, Isabella Cecchi Fotografia: Alessandro Pesci (104 minuti) Rating IMDb: 6.0
Solimano
Nel super dove vado a fare spesa, ogni tanto compaiono confezioni di bistecche di struzzo, carne rossastra un po’ scura. Non ne prendo mai, né ho visto altri prenderle, ma se il super continua a provarci avrà i suoi motivi che non conosco. Quando vedo queste bistecche mi viene in mente l’Azienda Struzzi Associati, ben presente nel film Baci e abbracci di Paolo Virzì. L’azienda ha un suo organigramma, presidente di qui, direttore di là, ma si tratta di tre ex operai (Renato, Luciano, Tatiana) che cercano di farcela inventandosi imprenditori: in un casale semidiroccato allevano degli struzzi e cercano di venderne la carne in giro, con difficoltà nelle vendite, cambiali in scadenza, litigi fra di loro, intimazioni delle banche, speranze spesso deluse ma sempre riaffioranti. Hanno anche una dipendente/segretaria/amministrativa/factotum che è una specie di Venere terragna, Annalisa (Isabella Cecchi) che da sola giustifica il biglietto o il DVD: oca volonterosa, sovrabbondante eppure aggraziata, leggera ma di sentimento, una ruspante che si arrangia con l’inglese. Si avvicina il Natale, e i tre dirigenti ne hanno pensata una: incontrarsi per un finanziamento con un assessore regionale che se la fa con la sorella hostess di Renato, e combinano di andarlo a prendere alla stazione. Sanno solo che l’assessore si chiama Mario, ma non l’hanno mai visto. Così intoppano nel Mario sbagliato, noi ce ne accorgiamo, loro no. Il Mario sbagliato (Francesco Paolantoni) è un ristoratore che era andato alla stazione per suicidarsi, perché la moglie l’aveva mollato portandogli via il figlio e in aggiunta il suo ristorante non aveva più clienti. Natale è giorno di gioie grandi, ma ci sono anche dolori disperati. L’equivoco è quello che Gogol inventò ne L’Ispettore Generale: tutti a cercare di ingraziarsi Mario, a cui non par vero di essere trattato bene dopo mesi e mesi sgradevoli. Perfino Annalisa viene convinta ad una certa disponibilità a cui aderisce volentieri, di Mario le piace l’educazione. L’equivoco si chiarirà, Mario rischierà di essere preso a botte, ma preparando un magnifico pranzo di Natale sarà riabilitato. Al pranzo saranno presenti anche gli Snaporaz, un complesso musicale di ragazzi che si lavano poco e che credono di drogarsi con i porcini secchi. La notte di Natale nasceranno piccoli struzzi nelle incubatrici della Azienda Struzzi Associati, Mario ed Annalisa staranno bene insieme, e può darsi che il futuro non sia fatto di struzzi ma di un ristorante nel casale riattato. Non è un film ingenuo, ma a più letture: Virzì ha ragione a chiamare i suoi film tragedie allegre, ed è attento al disagio di persone che ormai fuori d’età cercano di inventarsi mestieri improbabili. Sceglie di fare film in una zona ben precisa, la sua, fra Livorno, Piombino e Cecina usando attori non professionisti che si difendono più colla lingua che coi gesti e le facce. Tutte scelte giuste, che ha perseguito da un film all’altro cadendo di rado nel patetico, preferendo invece il farsesco, sempre lì lì per essere rovesciato in tragico come un guanto. Sappiamo tutti che Mario verrà smascherato, tifiamo per lui - io più per Annalisa - ma in Virzì non c’è sempre il tutto s’aggiusta finale, perché le cose che non si aggiustano ci sono, a precariato dilagante. Col Natale non bisogna avercela su, ma senza obbligarsi a sentirsi più buoni se le cose vanno male. Il film parve troppo fine e gentile per farlo uscire per le feste, uscì - con buoni risultati - a fine gennaio, un episodio istruttivo, nel suo genere: certi pensano che per gli spettatori l’essere più buoni a Natale voglia dire essere più coglioni, visto quello che si trovano nel piatto tutti gli anni. Non è detto che abbiano ragione. La Toscana che rappresenta Virzì non è da cartolina, può essere più brutta che bella anche nel paesaggio, ma rischia il dolore vivo, non la tristezza cupa.
P.S. Naturalmente, niente immagini decorose di questo film, la solita storia. Allora metto un Giardino d’Amore realizzato da Francesco del Cossa nel palazzo estense di Schifanoia nei pressi di Ferrara, ci sono anche baci e abbracci. In basso, spuntano i cigni che conducono la dea Venere, qua e là nel prato ci sono dei conigli, alcuni belli grossi: sono simbolo di lussuria, ma anche di fecondità.

venerdì 25 maggio 2007

Orgoglio e pregiudizio

Pride & Prejudice di Joe Wright (2005) Dal romanzo di Jane Austen, Sceneggiatura di Deborah Moggach, Emma Thompson Con Keira Knightley, Telulah Riley, Rosamund Pike, Jena Malone, Carey Mulligan, Donald Sutherland, Brenda Blethyn, Claudie Blakley, Sylvester Morand, Simon Woods, Kelly Reilly, Matthew Macfadyen, Rupert Friend, Tom Hollander, Judi Dench Musica: Dario Marianelli Fotografia: Roman Osin (127 minuti) Rating IMDb: 7.8
Habanera
"E' una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di una buona fortuna sia in cerca di moglie."
Questo l'incipit del libro più conosciuto ed amato di Jane Austen: Pride and Prejudice.
Bella la scena iniziale del film, suggestiva l'atmosfera fin dalla prima inquadratura: Elisabeth legge un libro, tornando verso casa, e intorno a lei la splendida campagna inglese, una musica delicata in sottofondo.
Il caso volle che il film di Joe Wright uscisse in Italia a breve distanza da una mia rilettura del romanzo, suscitando in me una certa curiosità. Non era la trama ad interessarmi, ovviamente conosciutissima, ma la ricostruzione degli ambienti e soprattutto l' interpretazione dei personaggi, in particolare dell'adorabile Elisabeth e dell'affascinante Darcy. Volevo vedere questo film eppure, allo stesso tempo, temevo di esserne delusa.
Avevo, insomma, dei pregiudizi.
Eppure, quando alla fine ho deciso di vederlo, mi è piaciuto, dall'inizio alla fine. La fotografia è splendida, gli ambienti sono ricostruiti alla perfezione, l'attrice che impersona Elisabeth (Keira Knightley) è espressiva e vivace. Donald Sutherland, nella parte di Mr. Bennet assolutamente perfetto. Unica delusione per me, e non da poco, un Darcy completamente diverso da quello che avevo sempre immaginato. Darcy è un mito, non c'è donna che non lo sappia, e non è facile impersonare un mito. Matthew MacFadyen ha l'aria di uno capitato per caso nel film senza avere ben capito che ruolo deve interpretare. Si aggira con aria smarrita e malinconica ma non c'è traccia in lui della forza e della fascinosa arroganza del personaggio descritto con sublime maestria da Jane Austen. Forse il grande Laurence Olivier - unico ad interpretare Darcy nella storia del cinema - ci era riuscito meglio, nel film del 1940 di Robert Z. Leonard. Per saperlo dovrei chiedere in prestito la videocassetta a Tullio Kezich che a quanto pare ne possiede una. Nei commenti inserirò la sua critica a questo film e potrete saperne di più.
L' unica cosa che vi anticipo è che questa nuova versione cinematografica è piaciuta anche a lui, il che è tutto dire...
P.S. Per una settimana in rete di Arengario mi misi in caccia di immagini da film tratti dai romanzi di Jane Austen. Eravamo nel 2004, e questo film non c'era ancora. Trovai un sito tedesco e il risultato lo trovate qui, facendo scorrere la pagina:
http://arengario.net/stam2004/sett040418.html
Il triste della storia è che oggi, su quel sito tedesco, sembra che le immagini non ci siano più. Misteri della rete! (s.)

giovedì 24 maggio 2007

Guerre stellari

Star Wars di George Lucas (1977) Soggetto e sceneggiatura di George Lucas Con Mark Hamill, Carrie Fischer, Harrison Ford, Alec Guinness Musica: John Williams Fotografia: Gilbert Taylor Effetti speciali: Industrial Light & Magic (127 minuti) Rating IMDb: 8,8
Roby
Il 25 maggio del 1977 usciva nelle sale cinematografiche americane un filmettino su cui quasi nessuno -eccetto Lucas e l'amico Steven Spielberg- avrebbe scommesso un cent, tanto che la TwentyCenturyFox, scettica sulla riuscita del progetto, già meditava di riciclarlo in quattro e quattr'otto come tv-movie. Invece, al botteghino, fu l'apoteosi. Da noi arrivò in inverno, preceduto dalla sua già consolidata fama, ed il successo si ripetè. Cosa non del tutto scontata, perchè non sempre i gusti d'oltreoceano coincidono con i nostri, specialmente per quanto riguarda il genere fantascienza: vedi ad esempio il caso della saga di Star Trek, a me carissima, ma che certamente da noi non può contare sugli stuoli di fans del nuovo continente. Io Guerre stellari lo vidi al mare, l'anno dopo, in uno di quei cinema all'aperto che forse non esistono nemmeno più, con la fastidiosa compagnia delle zanzare (avevo dimenticato l'Autan!) e l'altrettanto becero accompagnamento dei soliti ragazzini terribili che commentavano a voce altissima tutte le scene, magari anticipandole perchè le avevano già viste più volte. Non so dire se mi piacque davvero o no, ma per una serata estiva andava più che bene: mi innamorai all'istante di Harrison Ford, scanzonato pirata dello spazio, mentre mia sorella B. stravedeva per l'attore che interpretava il giovane Luke Skywalker e mia sorella A. sosteneva invece, perentoria, che a lei non piaceva nessuno dei due (atteggiamento tipico per lei, che ancora non molti anni fa dichiarò di non trovare nulla di fisicamente attraente nel Gladiatore di Russell Crowe, affermazione a mio parere inconcepibile in una donna sana di mente). Insomma, quella sera dell'agosto 1978 per me "Guerre stellari" significò soltanto una favola moderna, divertente al punto giusto, senza infamia e senza lode. Soltanto dopo -molto dopo- ho scoperto che Lucas per la storia si è ispirato addirittura ad un film di Kurosawa, La fortezza nascosta, dal quale sono presi pari pari anche i personaggi del saggio Obi Wan Kenobi e della principessa Leila. Per non parlare delle citazioni dei classici western e del genere cappa e spada, un tempo ambientato sulle navi corsare ed ora collocato su astronavi in orbita fra le galassie: ma in fondo, sempre di vascelli e di "navigazione" si tratta, benchè i colpi di cannone siano stati sostituiti dai raggi laser e le sonde spaziali abbiano preso il posto del vecchio cannocchiale. Dopo il primo episodio (che poi non sarebbe il primo ma il quarto, visto che la saga completa comprendeva fin dall'inizio sei capitoli, tre dei quali dovevano essere però precedenti ai primi... bah! Troppo complicato! Ci rinuncio!), dopo il primo, dicevo, venne il seguito, "L'impero colpisce ancora", e poi il seguito del seguito, "Il ritorno dello jedi". Li vidi tutti, religiosamente attenta, e la mia infatuazione per Harrison-Han Solo aumentò (sarebbe confluita, più tardi, nella passione travolgente per Indiana Jones: ahimè, peccati di gioventù!). Certo, gli effetti speciali erano quanto di più all'avanguardia esistesse all'epoca, anche se oggi la computer-grafica li fa sembrare roba da bambini. Ma l'effetto che ricordo come più impressionante, per me, non aveva nulla a che fare con i "trucchi" elettronici. La cosa che veramente mi lasciò senza fiato, alla fine del secondo film della serie, fu la rivelazione che il "cattivo" della storia, Dart Fener (non a caso chiamato nella versione anglosassone Darth Vader) era in realtà il padre dell'eroe buono. Davanti alle esplosioni di asteroidi, alle immagini olografiche che appaiono come per magia sul quadro di comando dell'astronave ed altre diavolerie del genere non facevo una piega, come del resto molti degli spettatori in sala: ma l'"epifania" finale, nella scia della miglior commedia antica, quella sì, che mi sembrò supermegagalattica! Piccolissimo esempio di come, a volte, per sorprendere veramente il pubblico i vecchi sistemi siano quelli più infallibili. Con buona pace di tutti i siluri fotonici dell'universo. E che la forza -naturalmente- sia sempre con voi.

Sette spose per sette fratelli

Seven Brides for Seven Brothers di Stanley Donen (1954) Sceneggiatura di Stephen Vincent Benet, Albert Hackett, Frances Goodrich, Dorothy Kingsley Con Howard Keel, Jane Powell, Jeff Richards, Russ Tamblyn, Jacques d'Amboise, Julie Newmar Musica: Gene de Paul Fotografia: George J. Folsey Coreografia: Michael Kidd (102 minuti) Rating IMDb: 7.2
Solimano
La MGM pensava, con Sette spose per sette fratelli, di realizzare un B Movie, quindi tagliò il budget a vantaggio di “Brigadoon” (qualcuno lo ricorda?) e Stanley Donen dovette arrangiarsi, così usò di frequente fondali dipinti invece che panorami naturali, ridusse i tempi di lavorazione riuscendo a fare il film in 48 giorni, di cui ben tre settimane furono dedicate allo costruzione dello chalet - con danza e rissa. Fra i maschi assunse anche un acrobata, il prodigioso Gedeone di Russ Tamblyn che aveva vent’anni, un giocatore di baseball, un attore, Beniamino il bello, difatti non lo si vede mai ballare, si arrangiò insomma, inventando pure le capigliature rosse dei fratelli Pontipee per distinguerli dai cittadini. Ci furono persino problemi di autocensura perché una canzone faceva "A man can't sleep when he sleeps with sheeps" e non sembrava bello. Come ultimo bacio in fronte della fortuna, ci fu il Cinemascope, adattissimo per tutte le scene movimentate.

Un prodigio che costò poco, non solo, fu il film a dare origine al musical, non viceversa, come avveniva di regola. Il musical lo fanno ancora in tutto il mondo e non andrei a vederlo neanche se mi pagassero: troppa sarebbe la delusione rispetto al film. Naturalmente, anche Howard Keel, Adamo, quello che canta le canzoni e che apre il buco nella siepe sposando Milly, fece la sua parte, e la fece soprattutto la Milly di Jane Powell , non solo cantando da sopranino, ma recitando e tenendo in riga i sei rozzi Pontipee, e in più il marito Adamo. E le musiche, le canzoni, che non ci si stanca mai di sentirle, quelle allegre e quelle malinconiche. Ma soprattutto la danza! Michael Kidd, il coreografo, è quello a cui va il grazie più vero. Danza acrobatica, danza di corteggiamento, danza di lavoro, di rissa, d’amore, danza perfino triste - una danza alla moviola. Oltre alla danza, c’è anche il mito delle Sabine, un mito grande e vero, per millenni le cose hanno funzionato in quel modo, e finirà che come Scrittore metterò nelle etichette Plutarco, è lui il primo ad aver raccontato la storia delle Sabine nella Vita di Romolo.
Quando il film lo vidi per la prima volta, non sapevo nulla di etologia, ora che qualcosa ho imparato, quindo colgo nel ballo e nel comportamento dei Pontipee fra di loro, con le ragazze, con i rivali cittadini una esatta e istintiva correlazione con diverse osservazioni antropologiche ed etologiche, tranne qualche inevitabile carineria: questi film a basso budget avevano la finalità di fare soldi, ed ogni argomento utile non andava trascurato. Il che non è di per sé un male: un atteggiamento meno attento ai soldi avrebbe forse portato un maggior narcisismo del coreografo, del musicista e degli attori. Visto a tanto tempo di distanza, ci si accorge di qualcosa di caduco, nelle mossette, nelle esagerazioni, persino in certe musiche. Ma quello che resta basta ed avanza, si tornerà a rivederlo, prima o poi. Russ Tamblyn decollò come ballerino in questo film, sette anni dopo la parte di Riff, il capo dei Jets in West Side Story, sarebbe stata sua. Io continuo a preferirlo qui come Gedeone, il fratello più giovane, più sventato, più sveglio, e quello che balla meglio di tutti. Come donna, l’incantevole mora che sta con Beniamino, bel tenebroso che ballare non sa.

Le grandi vacanze

Les grandes vacances di Jean Girault (1967) Sceneggiatura di Jean Girault, Jacques Vilfrid, Con Louis De Funés, Ferdy Mayne, Olivier De Funés, Martine Kelly, Francois Leccia Musica: Raymond Lefevre Fotografia: Marcel Grignon (84 minuti) Rating IMDb: 6.3
Roby
Lo so, i cinefili puristi storceranno il naso: Louis De Funés (pace all'anima sua) non è certo uno dei massimi esponenti del cinema d'oltralpe, nè i suoi film possono essere considerati capolavori, e nemmeno lo si può paragonare non dico ad un Totò ma neppure, tanto per restare nei confini francesi, ad un Tati. Da parte mia, però, mi permetto di infischiarmi allegramente di tutte queste dotte considerazioni. Sì, perchè -nel caso delle "Grandes vacances"- pensare a De Funés e alle sue buffe smorfie equivale per me a rivivere quella sensazione di divertimento assoluto che solo l'infanzia può darti. Era un pomeriggio di tanti anni fa quando papà portò me e mia sorella A. al cinema, preannunciandoci matte risate. Mia sorella B. era nata da poco, la mamma era indaffaratissima con lei, la nonna -che abitava con noi- cominciava a non star bene. Forse fu per sfuggire a tutto questo che quel pomeriggio "noi tre" ci rifugiammo tra le poltrone di velluto rosso di uno di quei cinematografi oggi ormai scomparsi, pronti a ridere a crepapelle davanti alle peripezie di Louis De Funés-Charles Bosquier, direttore di collegio alle prese con lo scapestrato figliolo Philippe: il quale, poco intenzionato a recarsi in Inghilterra per colmare le sue lacune in inglese durante una vacanza culturale, preferisce approfondire la conoscenza dell'inglese, inteso come aggettivo femminile sostantivato, nella persona della deliziosa Shirley MacFarrell. Da qui equivoci e disavventure a non finire, tra il gesticolare tipicamente parigino di De Funés ed il fair play tipicamente britannico del genitore dell'inglesina. Indimenticabile la scena in cui il nostro eroe, finito a capofitto nella Senna, viene ripescato da un mercantile belga, la Groote Lulu, e riemerge da sottocoperta infagottato in un maglione da marinaio, assolutamente irresistibile. O perlomeno, così mi sembrava, in quel pomeriggio di tanti anni fa, sulla morbida, rassicurante poltrona di quel cinema, col mio papà alto, grande e forte che rideva di gusto-proprio come un bambino- accanto a me.

mercoledì 23 maggio 2007

Nuovo, nuovissimo, anzi archeologico

Roby
Niente paura, lo so che questo è un blog di e sul cinema, e non ho nessuna intenzione di divagare oziosamente andando fuori tema (anche se oggi, con l'aria estiva che tira, ne avrei proprio voglia!). Intervengo solo telegraficamente sul tema del vecchio e del nuovo, allargandolo dai film alla storia in generale. Per me, ex studentessa fuori corso di papirologia, parlare di vecchio vuol dire riferirsi come minimo al faraone Akhenaton, mentre la Rivoluzione francese è avvenuta ieri l'altro, per non parlare del Risorgimento che praticamente è roba attuale. Tutto qui. Ho finito. In realtà, cercavo soltanto una scusa qualsiasi per farvi ammirare la purezza del profilo di Nefertiti, opera di uno sconosciuto artista vissuto circa 3300 anni fa: se fosse esistito il cinema, all'epoca, non le avrebbero dato seduta stante la parte della diva??? Ma lei, di sicuro, avrebbe rifiutato sdegnosamente: perchè, in quanto regina d'Egitto, era già di suo una dea...

Sentieri selvaggi

The Searchers di John Ford (1956) Sceneggiatura di Alan Le May, Frank S. Nugent Con John Wayne, Jeffrey Hunter, Natalie Wood, Vera Miles, Ward Bond Musica: Max Steiner Fotografia: Winton C. Hoch (119 minuti) Rating IMDb: 8.0

Lodes
Ho amato questo film fin dalla prima volta che lo vidi. Non un semplice western, con gli indiani, con i cow boy che si contendono il territorio e che vedrà il popolo rosso soccombere. E’ un capolavoro che va oltre il genere western. Ford qui dà veramente il meglio di se stesso. E, utilizzando tutti gli ingredienti classici del western, ci racconta della “search”. Una ricerca che è vecchia quanto il mondo e che nel film è affidata a Ethan Edwars (John Wayne). Ancora una volta un uomo solitario che torna dopo aver combattuto nella guerra di secessione e dopo un lungo ed ignoto peregrinare. Ma qui non siamo di fronte al giustiziere solitario che errante raddrizza i torti e compie giustizia. Ethan è un uomo della sua terra, ma che guarda sempre verso l’orizzonte. Sente il peso di appartenere a quella terra che non gli lascia spazio, se non quello di combattere un nemico crudele che rapisce le donne. L’odio monta dentro di lui. Odio per quell’indiano (Scout) che lo ha costretto ad abbandonare la sua strada verso nuovi orizzonti. Allora la “search” diventa un intrico dentro il quale Ethan rischia di perdersi fino ad arrivare a voler uccidere la nipote (ormai donna) rapita da Scout. Ma Ford con un colpo di genio risolve la questione e in una inquadratura mitica sveglia i veri sentimenti di Ethan che alzata la ragazza al cielo quasi a simboleggiare il prossimo sacrificio la accoglie tra le sue braccia e le dice “andiamo a casa”. Sono state tante le accuse a Ford di razzismo, in realtà non c’è accusa più sbagliata, Ford ci descrive il tormento di Ethan e di un intero popolo che in mezzo a mille contraddizioni ha saputo esprimere anche grandi valori civili e sociali. Sarebbero tante le scene di cui si potrebbe parlare a lungo. Non mi sottraggo nemmeno io a richiamare l’inquadratura iniziale e quella finale. Semplicemente geniale nella sua poesia. Ancora oggi a distanza di tanti anni nel rivederle sento un brivido di emozione. In entrambe c’è tutto il mito del west, ci sono i grandi spazi, ci sono orizzonti lontani, c’è la storia che si apre si chiude si ripete in un susseguirsi di generazioni. Come dimenticare poi la scena della lettura della lettera che Martin invia alla fidanzata a cui non ha mai detto nulla del suo amore. Un disegno perfetto che dice tutto di quel mondo legato alla terra, che ne narra le piccole abitudini, le consuetudini: semplicemente magistrale. Il western dunque ancora una volta è il paradigma di una “search” dentro l’uomo, dentro un mondo che resiste alle mutazioni che provengano dall’est. Una “search” del proprio senso e del proprio destino. Non è più sufficiente scoprire nuove terre, dissodarle, strapparle agli indiani, Ethan cercherà ancora e se ne andrà verso la luce della prateria e la porta della casa e dell’oggi si chiude dietro di lui.
P.S. Diverse immagini si possono trovare qui:
http://www.dvdbeaver.com/film/DVDReviews8/the-searchers.htm

A proposito di vecchi film (2)

Solimano
Dico anch'io la mia sull'argomento sollevato da Giuliano. E' storia vecchia, quella del vecchio e nuovo, che io preferisco chiamare antico e recente. Faccio alcuni esempi.
Nel Vaticano, Papi ansiosi di novità fecero distruggere opere di Andrea Mantegna, Piero della Francesca, Lorenzo Lotto per dipingere sopra altre cose più vicine al loro gusto, quelle che c'erano a loro sembrarono vecchie. Potevano almeno far dipingere nelle stanze a fianco, dico io, ma andò così.
Nell'ultimo decennio del '400, il pittore più pagato e considerato a Firenze era il Perugino (profittando del fatto che Leonardo stava a Milano). Ci si litigava le commesse all'artista umbro che, ansioso di guadagno, utilizzava molto l'aiuto di una vasta bottega. Ma soltanto pochi anni dopo, il Perugino non interessava più nessuno, e si ridusse, nei suoi ultimi anni - scomparve dopo il 1520 - a scroccare commesse dai parroci dei paesoni fra Toscana e Umbria.
Benedetto Croce (quante ne ha dette di sbagliate!) esaltò Giosuè Carducci come il poeta della Nuova Italia. Il tempo si è incaricato di ristabilire una più appropriata comprensione dei valori.
Ed ora faccio un confronto fra due film non antichi ed a tutti noti: Amélie Poulain e Pulp Fiction.
La signorina Amélie è del 2001, ed ha ottenuto un successo clamoroso, in IMDb 100.000 votanti e 8.6 di Rating. Pulp Fiction è del 1994, sappiamo il successo che ha avuto, in IMDb 220.000 votanti e 8.8 di Rating. Dov'è la differenza? Nel fatto che Pulp Fiction continuano a votarlo in tanti, Amélie sempre meno. E così andrà anche in futuro.
Il confronto l'ho fatto per introdurre il concetto di durata: certi film durano, certi altri no, ed il tempo è galantuomo. Dove sta il problema? Nel fatto che molti con meno di quarant'anni non hanno visto i film antichi che hanno durata. Non è colpa loro, è il sistema che non glielo ha consentito, le ragioni sono tante e chiare. Ora, con i DVD ed i film fruibili in rete le cose stanno cambiando e ciò che era impossibile diviene facile. E' una gran bella cosa, una opportunità per tutti. Mi piacerebbe anche che ci fosse la possibilità diffusa di vedere i grandi film comodamente nelle multisale, prima o poi ci si arriverà, il buon senso cade sempre in piedi.
Ho notato in questi due mesi che siamo in tanti in rete ad occuparci di cinema, e che ci sono molti ottimi siti. L'importante che l'un con l'altro ci si ascolti perché ognuno continui a seguire meglio il progetto che ha in testa. Il problema non è chi ha ragione e chi ha torto, abbiamo ragione tutti ad amare il cinema, ognuno a suo modo.
P.S. L'immagine è nota a tutti: la Sibilla Delfica, affrescata da Michelangelo nella Cappella Sistina. Come si vede è molto giovane.

Conoscenza carnale

Carnal Knowledge di Mike Nichols (1971) Commedia e sceneggiatura di Jules Feiffer Con Jack Nicholson, Candice Bergen, Art Garfunkel, Ann Margret, Rita Moreno, Cynrhia O'Neal, Carol Kane Fotografia: Giuseppe Rotunno (98 minuti) Rating IMDb: 6.8
Solimano
I numeri, come i fatti, hanno la testa dura. Mike Nichols diresse Il laureato nel 1967 e Conoscenza carnale nel 1971. Ad oggi, in IMDb Il laureato è stato votato da oltre 43.000 persone, con un rating di 8.1, Conoscenza carnale da circa 2.500 persone con un rating di 6.8. Né si può dire che Conoscenza carnale fosse un film privo di appeal divistico: Jack Nicholson, Candice Bergen, Ann Margret e Art Garfunkel, Rita Moreno, Cinthia O’Neal… Inoltre, la sceneggiatura è del grande Jules Feiffer (in fondo, il vero autore del film), ma è proprio questo il felice guaio, a mio avviso. Il punto è che Jules Feiffer dice cose che danno fastidio non perché sono false ma perché la gente non vuole che si dicano. E continua a non volerlo, basta vedere come votano quelli della fascia fra 18 e 29 anni: proprio come quelli più vecchi di loro. Ne Il laureato la trasgressione è punita, in Conoscenza carnale la trasgressione si fa sistema. D’accordo, Jonathan (Jack Nicholson) è indifendibile, ma io ci ho provato a perorare la causa di Sandy (Art Garfunkel), di Susan (Candice Bergen), persino di Bonnie (Ann Margret) ma non c’è niente da fare. Sandy non è il bravo ragazzo timido e ingenuo che credevo, è uno che non sa tenersi le cose, quindi racconta al pericoloso Jonathan le sue tentate prodezze sessuali, se quella sera ha toccato Susan qui o là, cosa gli ha fatto lei. Questa non è timidezza, è pornografia morale, che giustamente viene punita dal desiderio vincente di Jonathan istigato proprio da Sandy. E la liberal Susan, così piena di buoni principi, si fa violentare consenziente da Jonathan, di cui in tutto il film non ha nessuna stima: è il poter giocare su due tavoli mentendo su entrambi che le dà piacere, difatti, dopo essere stata con Jonathan non fa la cosa più semplice del mondo, dire a Sandy: “Fra noi è finita, sto con Jonathan adesso”, no, va malamente anche con Sandy. Bobbie non è la ragazza allegra per generosità sessuale, è una che i suoi conti ha cercato di farseli prima di Jonathan e durante Jonathan, e in fondo vince, spolpandolo con gli alimenti.
Non c’è sesso allegro, in Conoscenza carnale, ci sono delle voglie repentine a rischio di defaillance (Jonathan) o a rischio di sbadiglio (Sandy e Susan da sposati). E' come un timbrare il cartellino: in fabbriche diverse o nella stessa sempre cartellino è.
Una libertà senza liberazione, una libertà obbligata. Persino Cindy (Cynthia O’Neal) è meglio di loro, perché schietta nel cinismo e nella dominanza. Jennifer (Karol Kane), la diciottenne che piagnucola alla fine, quando Jonathan mostra il catalogo delle sue donne, poteva scegliersi un Pigmalione che non fosse Sandy, che è pedante anche nei vizi.
L’agnizione finale, quando fra le donne delle diapositive compare Susan, è una agnizione per modo di dire: Sandy non poteva non sapere, gli secca solo che la cosa esca così, in un catalogo. Certamente il rapporto fra i due proseguirà, saranno sempre come i ladri di Pisa, affratellati dal pensare entrambi di essere meglio l’uno dell’altro, gran consolazione. Ne Il laureato Nichols aveva dato tutte le colpe ad Ann Bancroft , ed il pubblico unanime aveva sospirato di sollievo. Ma qui non è così, meglio dare un voto basso a Conoscenza carnale, anzi, meglio non votarlo addirittura: dire tu non esisti è peggio di dire tu sei cattivo, si sa. Io lo rivedo volentieri, questo film. E’ una delle opportunità di periodica lubrificazione dei sentimenti: decidere di buttare via l’olio vecchio, e spendere un po’ per l’olio nuovo. Il testo teatrale di Jules Feiffer che fu all’origine del film è stato rappresentato in teatro solo vent’anni dopo senza mai ottenere un grande successo, come era inevitabile.

A proposito di vecchi film (1)

Giuliano
Questa di “parlare dei vecchi film” è un’accusa che ci tiriamo addosso e che è forse inevitabile. E’ una vecchia critica, che accetto di buon grado ma che non condivido; e penso che sia il caso di parlarne almeno un po’.
La prima considerazione da fare è che qui lo spazio c’è: chi vuole parlare di film che sono ancora nelle sale può farlo, e anzi Massimo ed Habanera lo hanno già fatto con ottimi esiti. Però non vorrei che dietro ci fosse una pulsione di tipo consumistico, come nelle canzoni di Sanremo che quelle dell’anno scorso sono già da buttare. I film buoni rimangono, e – permettetemi una banalità – è meglio un capolavoro “vecchio” di una bufala nuova (e anche viceversa, ma le bufale vecchie non le ripesca nessuno...).
La seconda considerazione è che se questo fosse un blog sui libri nessuno troverebbe da ridire se parlassimo di Dante, di Euripide, di Svevo e di Manzoni: ormai anche il cinema è un classico, e per quanto mi riguarda non mi faccio problemi, ho già scritto anche di film del 1902 (Georges Méliès) e del 1914 (David W. Griffith), e mi sembra più che normale. Da quando ci sono le cassette, i dvd, e tutto il resto, trovare questi film e vederli non è più tanto difficile come era un tempo, quando bisognava aspettare che i cinema li andassero a ripescare. E poi, ed è una cosa che mi ha colpito già tanti anni fa, ci sono ragazzi e ragazze giovanissime che conoscono a memoria le canzoni di Battisti, di De André, dei Pooh e di Baglioni: roba di 40 anni fa, mica si scherza anche con le canzonette...
La terza considerazione (poi per oggi mi fermo) è che penso da tempo che non sia un caso, se parliamo quasi solo di “vecchi film”. L’ho già scritto nel mio commento al "film nuovo" che recensiva Massimo: è inutile che stiamo qui a contarcela, i cinema ci sono solo nelle grandi città e al cinema oramai ci vanno in pochi. Anche noi siamo sempre qui a parlare di youtube, di cassette, di dvd, di scaricare questo e quello da internet.... Penso sempre più spesso che col cinema siamo nella stessa condizione in cui era, cent’anni fa, l’opera lirica. Nel 1907 c’erano ed erano ben attivi Puccini, Berg, Schoenberg, Richard Strauss, Stravinskij, Mascagni, e tanti altri; dovevano ancora nascere capolavori come la Turandot e “La donna senz’ombra”, eppure l’opera aveva già concluso il suo percorso: quelli erano gli ultimi fuochi. Il cinema continuerà, ma con altre forme; e forse si perderà per sempre la memoria delle sale cinematografiche, che tra 40 anni saranno ricordate come delle bizzarrie d’altri tempi: tutti al buio, seduti scomodi, per due ore e passa? Ma come facevano, i nostri vecchi?
P.S. L'immagine è nota a tutti: il Profeta Geremia affrescato da Michelangelo nella Cappella Sistina. Come si vede è molto vecchio.

martedì 22 maggio 2007

Full Metal Jacket

Full Metal Jacket di Stanley Kubrick (1987) Racconto di Gustav Hasford, Sceneggiatura di Stanley Kubrick, Michael Herr, Gustav Hasford Con Matthew Modine, Adam Baldwin, Vincent D'Onofrio, R. Lee Ermey, Dorian Harewood, Kevyn Major Howard, Arliss Howard Musica: Vivian Kubrick Fotografia: Douglas Milsome (116 minuti) Rating IMDb: 8.3
Giuliano
Stanley Kubrick faceva film per il cinema. In passato, sarebbe stata una battuta così ovvia da far quasi ridere, ma non è più così. Oggi i film si fanno per la tv, e (purtroppo) Kubrick pare un dinosauro.Vedere "2001 Odissea nello spazio" in tv è sempre un po' una sofferenza, per esempio; e "Barry Lyndon" , così lento e ben rifinito in ogni piccolo particolare, è quanto di più antitelevisivo si possa immaginare. Ricordo poi l'impressione che mi fece "Full metal jacket" , il suo ultimo film completo (ad "Eyes wide shut", a mio parere, manca ancora il taglio finale: è un film quasi finito). Ho avuto anche la fortuna di vederlo in lingua originale, a metà anni '80, al cinema: il primo tempo è un martellamento continuo, con l'istruttore dei marines che ti grida nelle orecchie per tre quarti d'ora. Alla fine, si capisce perché il ragazzo protagonista impazzisce e spara: prima al sergente, poi a se stesso. E' come se il lavaggio al cervello l'avessero fatto a te, allo spettatore. La seconda parte del film è la logica conseguenza della prima: ormai i ragazzi sono stati addestrati ad uccidere, e lo fanno. Il sergente istruttore ha svolto bene la sua missione, anche se gli è costata la vita. Si tratta di un film duro, ma il messaggio di Kubrick è chiaro; ancora più chiaro era stato in "Orizzonti di gloria", un quarto di secolo prima, e anche nel "Dottor Stranamore". Ma poi "Full metal jacket" è finito nella programmazione televisiva. Il film è stato fatto a pezzi, e ad ogni quarto d'ora di film corrispondeva un quarto d'ora di pubblicità. Cos'è rimasto del messaggio di Kubrick, del bombardamento selvaggio e scientifico del sergente istruttore? Proprio niente: "Full metal jacket" è diventato un banalissimo film di guerra, più violento e più brutto di tanti altri. La stessa sorte, in tv, è toccata a "Shining" e ad "Arancia meccanica". Ma il problema non è la tv, è il modo in cui questi film vengono trasmessi. Chi si ricorda ancora i lamenti (di dolore!) di Fellini quando vide i suoi film scempiati dalle prime programmazioni su Canale 5 ? Chi si ricorda ancora che vent'anni fa fu necessaria una legge varata dal Parlamento (con tutto quello che c'era da fare...) per impedire che i tagli fossero ogni 5 minuti, e almeno un po' studiati per evitare interruzioni brusche? Penso a queste cose ogni volta che vedo in tv il “bollino rosso”: dice che adesso non ci sono più pericoli, e che la tv è più sicura. Il bollino di Canale 5 o la farfallina rossa della Rai io li vedo come simboli dell’ipocrisia e della mancanza di buonsenso di chi ci governa. Vedete come siamo stati bravi? sembrano dire i dirigenti tv. Che tristezza: prima dell'arrivo delle televisioni commerciali queste cose non erano necessarie. Non servivano: negli anni '70 e nei primissimi anni '80 i film si vedevano come al cinema, senza nessuna interruzione; e in prima serata arrivavano i film migliori, magari con un po' di ritardo perché c'erano ancora i cinema di seconda visione e i cineforum. E, soprattutto, i film violenti in tv non ci arrivavano proprio: né quelli brutti né quelli d'autore. Ma erano altri tempi, per l'appunto... Chi se li ricorda più?
P.S. Diverse immagini si possono trovare qui:
http://www.dvdbeaver.com/film/DVDCompare9/full_metal_jacket_.htm

Uomini contro

Uomini contro di Francesco Rosi (1970) Da "Un anno sull'altopiano" di Emilio Lussu, Sceneggiatura di Tonino Guerra, Raffaele La Capria, Francesco Rosi Con Con Gian Maria Volontè, Mark Frecchette, Alain Cuny, Giampiero Albertini, Pier Paolo Capponi, Franco Graziosi, Mario Feliciani Musica: Piero Piccioni Fotografia: Pasqualino De Santis (97 minuti) Rating IMDb: 7.7
Lodes
Uomini contro è un film che parla della follia della guerra. Anche se si svolge durante il primo conflitto mondiale il tema è appunto la follia della guerra: sempre ed ovunque. Nulla ha senso nella rappresentazione, nemmeno la rivolta contro i massacri inutili, contro gli ordini assurdi. Quello che vince è la follia del destino. Un destino fatto dagli uomini. E qui sta proprio la drammacità della rappresentazione di Rosi. Dentro a questa follia nessuno sembra avere la possibilità di sottrarsi all’inevitabile. Non ce l’hanno gli intellettuali nei panni di ufficiali, non ce l’hanno i soldati, non ce l’ha nemmeno il generale chiuso dentro all’involucro del potere. Anche quando un barlume di umanità attraversa i suoi occhi davanti alla foto dei suoi cari rapidamente lo scaccia e torna ad essere il potere che deve ordinare la fucilazione del tenente Sassu. Il potere non tollera, infatti, la presenza della ragione, fosse anche per evitare morti inutili, il potere deve esercitarsi per il solo fatto di esistere. La follia dunque, ma cosa si può contro una follia assoluta che tutto travolge? Forse un altro gesto folle, come quello del Tenente Ottolenghi che incita a dire “basta a questa guerra di morti di fame fatta contro altri morti di fame”. In quel grido però c’è la riproposizione della impotenza contro la follia. La presa di coscienza della follia della guerra è un percorso lungo, attraverso la storia e ancora oggi non ancora concluso. Comunque grande quella scena del sacrificio di Ottolenghi. Lui sa bene che il suo folle gesto non porterà a nulla, eppure il peso della follia è troppo, anche per lui che sogna il sole dell’avvenire. Ma anche il tenente Sassu che all’inizio era interventista è travolto dalla pazzia. La presa di coscienza è più lenta, ma il destino è segnato anche per lui. Rosi non concede nulla. Niente segni di speranza, niente eroismi che in un qualche modo possono indicarci che il futuro sarà diverso. In questo il film risente del contesto in cui è stato realizzato. Il mondo diviso in due, l’olocausto nucleare era un ipotesi non così remota, la guerra del Vietnam e tutte la altre guerre locali parlavano di un mondo dove la pazzia era viva e forte. Il film purtroppo è ancora attuale. La pazzia si è ripresentata in altri modi, ma ugualmente terribili. Cos’è se non pazzia il terrorismo? Come non esistevano ragioni per quella inutile carneficina, non esistono oggi ragioni per il terrorismo.
Dunque un film di impegno che sarebbe bene fare circolare ancora.