Quando ho visto il Mahabharata di Peter Brook al cinema, nel 1989, ero rimasto affascinato e sconcertato. Penso che sia una reazione comune, in chi non conosce la cultura indiana o la conosce molto superficialmente. La storia del Mahabharata è piena di eventi che per noi sono decisamente strani, spesso sconcertanti; però poi basta ripensare alla nostra mitologia per sentirsi almeno un po’ rassicurati: eventi “strani” ne troviamo anche con Giove e Minerva, e Ulisse non è meno doppio di Krishna o di Shakuni.
L’effetto che fece a me fu di farmi vedere con occhi diversi la nostra religione e il nostro mondo, e di rendermi conto di quanto sia grande l’ignoranza riguardo a cose che diamo per scontate. Per esempio, la Bibbia contiene cose ben più strane di queste che abbiamo visto nel Mahabharata, o dei bassorilievi dei templi indiani: chi ha avuto la pazienza di leggersi il libro di Ezechiele sa di cosa parlo. Ma la storia di Abramo e di Isacco, o quella di Sara che partorisce a novant’anni, non sono meno strane di quella di Amba e di Bhishma: se così non ci sembra è solo perché siamo abituati a leggerle fin dal catechismo. E strana, stranissima, è la nostra celebrazione della Pasqua: Gesù Cristo ci insegna che la nostra vita non finisce qui, e che al nostro corpo fisico non dobbiamo fare caso più di quel tanto. Siamo tutti eredi di San Tommaso, in fin dei conti; ma qui il discorso si fa troppo complicato e mi fermo, non senza aver ricordato che l’India e il Tibet hanno culture affascinanti, ma le “Confessioni” di Sant’Agostino sono belle come la vita di Milarepa, e davanti al “Laudato si’ mi’ Signore” di Francesco d’Assisi non c’è paragone che tenga, e tutto sommato mi dispiace un po’ meno di non conoscere il sanscrito, se ho avuto in cambio la fortuna di poter leggere Jacopone in italiano.
Un po’ di questi eventi “strani” li avete visti nelle puntate precedenti; ne segnalo altri due molto belli: la storia di Gandhari e quella di Dràupadi, due storie al femminile. Ci sono molte donne, nel Mahabharata, e hanno ruoli tutt’altro che secondari o scontati.
Gandhari va sposa ad un principe: non lo conosce, ma è felicissima. Quando le dicono che sta per sposare un cieco, si dispera. Ma è solo un momento: “Dato che il mio sposo non potrà vedermi, anch’io voglio condividere la sua sorte.” Gandhari si fa portare una benda e se la mette sugli occhi: non la toglierà mai più.
Questa storia del regno retto da due ciechi è una metafora meravigliosa, ma a questo punto non posso più rimandare la storia di Dràupadi. Ci spostiamo nell’altra metà della famiglia, i Pandava: Arjuna vince un torneo e corre felice da sua madre Kunti: “Madre, guarda che cosa ho vinto.” La madre non alza la testa dal suo lavoro: “Qualunque cosa sia, la devi dividere con i tuoi fratelli.” Arjuna è perplesso: quello che ha vinto nel torneo è la sua futura moglie, Dràupadi. Ma quel che è stato detto non può essere cambiato, e così sarà: ora Dràupadi ha cinque mariti, i cinque fratelli Pandava. Per la società indiana, una donna che ha più di un uomo è una prostituta: ma così non sarà per Dràupadi, esempio di fedeltà coniugale e di forza femminile.
Superato lo sconcerto iniziale, si rivela una storia meravigliosa; ed è l’interprete di Dràupadi, l’indiana Mallika Sarabhai, a spiegare alcune cose fondamentali sul suo personaggio: le troviamo in una bella intervista che si trova alla fine dei due dvd della Dolmen Home Video, ed è uno dei motivi per cui vale la pena di procurarseli. Dràupadi è il palmo della mano, che dà forza alle dita e permette di lavorare o di combattere, o di fare carezze. E i cinque mariti esprimono qualità diverse: la saggezza, la dolcezza, la forza, la fedeltà, l’abilità. Cinque uomini che, messi insieme, fanno il marito ideale: forse il personaggio di Dràupadi è stato concepito da una donna, conclude sorridendo Mallika Sarabhai. E Dràupadi è davvero un personaggio bellissimo.
Per raccontare la storia, Brook e Carrière sono ricorsi ad un piccolo trucco molto classico: hanno portato sulla scena Vyasa, il narratore della storia. Vyasa, vissuto intorno al terzo secolo dopo Cristo, è stato un santo asceta; sembra che sia stato lui a mettere per iscritto il poema, che esisteva da tempo immemorabile. Il professor Giuliano Boccali, esperto di cose indiane, spiega che per la cultura indiana saper scrivere è stato per lungo tempo considerato una minorazione: aveva bisogno di scrivere chi non era capace di ricordare (gli articoli di Boccali sono nell’archivio di Golem).
Ma Vyasa ha bisogno di un aiuto per scrivere il poema, e da lui arriva Ganesh che trascriverà velocemente tutto. Ganesh (o Ganesha, secondo altre trascrizioni) è il dio con la testa di elefante che siamo soliti associare all’induismo, uno dei più famosi anche da noi (secondo solo alla dea Kalì). Ganesh è un dio-bambino, un dio felice, il dio che viene invocato quando si deve cominciare qualcosa. Non è quindi un caso che sia proprio lui ad aiutare Vyasa.
Troveremo Vyasa (l’attore inglese Robert Langdon-Lloyd) in molte scene del film: agisce come uno dei personaggi ed a lui si rivolgono spesso gli altri attori. Ganesh è interpretato dallo stesso attore che interpreta Krishna: Brook gli mette in testa una buffa maschera da elefante, una maschera visibilmente di cartapesta, a significare che non è l’apparenza delle cose quella di cui stiamo parlando. A loro è affiancato un ragazzo sui 10-12 anni: che rappresenta un po’ tutti noi, che pone le domande e che riceve le risposte quando è possibile darle.
Anche la musica, come gli interpreti, viene da tutte le parti del pianeta: ma quasi non ci si fa caso, perché acquista una sua unità tutt’altro che casuale. La musica nel “Mahabharata” meriterebbe un discorso a parte; per ora mi limito a ricordare la bellissima voce di Sarmila Roy, una cantante della quale so pochissimo e che ascoltiamo in due occasioni (è lei che canta sui titoli di coda).
Rimane da parlare di Krishna, che è il personaggio più sconcertante di tutti. Krishna gioca con i nostri destini, gioca come fanno i bambini con i soldatini o con le marionette. Fa quel che vuole, fa morire i suoi pur di giungere alla vittoria, mente e fa mentire, e tutto questo per un fine che, forse, conosce solo lui; e, in ogni caso, “una scintilla di luce però è stata salvata” – è questo che spiega a Gandhari che gli rimprovera il suo atteggiamento dopo la vittoria finale. Perché Krishna gioisce per la vittoria come un calciatore dopo un gol, nonostante la vittoria sia scontata fin dall’inizio e abbia usato i suoi trucchi per vincere; ma così facendo ha salvato dalla distruzione una scintilla di luce. (E’ da qui che è partito Bergman per “Il settimo sigillo”?). Ma anche Krishna è destinato a morire, morirà come noi, vittima di un banale incidente di caccia: lo vediamo addormentarsi per sempre in una delle ultime scene del film.
4 commenti:
Una cosa che insegnano gli studiosi di mitologia è di far caso ai numeri che si trovano nei testi sacri. Quasi sempre sono numeri importanti, che hanno un significato che va oltre quello letterale del testo. L’americano Joseph Campbell faceva questo esempio: partendo dalle età dei patriarchi nella Bibbia (una lunga successione di numeri, relativi a Matusalemme e tutti gli altri citati) aveva trovato gli stessi numeri, o numeri simili, nei testi babilonesi e della mitologia nordica, e anche indiani (le persone come Campbell erano delle vere enciclopedie viventi). Erano tutti numeri che si riferivano a dati astronomici: calendari lunari o solari, spesso a base 3 o 4, cicli delle comete, precessione degli equinozi, eclissi e altre cose. In alcuni casi particolarmente ostici, Campbell si fece aiutare da un amico matematico, che gli diede inaspettatamente conferma del fatto.
Per esempio, nel Mahabharata i Pandavas stanno in esilio per 12 anni; e i cinque Pandavas hanno una moglie sola, 5+1 che dà 6. Ma anche questo è un discorso complicato, io so solo queste tre o quattro cose, e anche trovare i libri di Campbell non è facile: la televisione svizzera trasmesse anni fa alcune sue lezioni, e io ne avevo registrata qualcuna.
Di Joseph Campbell abbiamo cominciato a mettere in archivio i suoi pensieri (da spettatore contento) su “Guerre Stellari” , che dal Mahabharata ha preso molto, così come tutto il ciclo di Tolkien del “Signore degli Anelli”. Detto per inciso, un attore arcaico e carismatico come Sotigui Kouyaté ci sarebbe stato benissimo, in “Guerre Stellari”: più cavaliere jedi di lui...
(Questa è l'ultima puntata, per ora)
trasmesse?!?!?!?
E' bello avere dei lettori così attenti. La mia scolarità è quella che è, e non faccio niente per nasconderla: dico anche redarre per redigere, e tante altre cose.
Grazie per la correzione.
(però ho scritto 53 volte Mahabharata senza sbagliare!)
Giuliano, un punto fondamentale è l'importanza del mito nella storia e nella cultura umana. Il mito nasce come risposta anticipata a problemi esistenti a cui bisogna pur rispondere, ma ancora non si è attrezzati. Non si può fare a meno del mito, in tutte le fasi della civilizzazione, anche oggi, a fronte sempre di problemi altrimenti inaffrontabili.
Solo che ci sono miti pericolosi e miti fecondi. Magari fecondi per secoli e secoli, e la poesia e l'arte in genere sono un segno di fecondità del mito, in un certo senso di giustezza.
Faccio l'esempio dello zen, di cui mi sono occupato per diverso tempo, leggendo un po' di tutto. Oggi, ho un atteggiamento completamente laico riguardo lo zen, trovo discutibili molte affermazioni, molti modi, ma quanta bellezza è scaturita dallo zen! Non solo bellezza d'arte, ma bellezza di comportamenti, di modi di vivere, di persone.
A suo modo, è succesa una cosa del genere con un mito del Novecento: la psicanalisi, che non ha base scientifica, perché a fronte dello stesso problema della stessa persona le risposte darebbero diverse a seconda del terapeuta.
Non c'è la prova di falsificabilità di Popper, questo è appurato. Ma ha permesso di portare in su l'asticella, anche se ci sono state le controindicazioni, tipo gli strizzacervelli etc etc.
Non possiamo buttare via le religioni con la storia concreta delle religioni e delle persone. Bisogna stare sul crinale: non farsela raccontare, ma rendersi conto che certe domande occorre farsele, anche se non si è attrezzati per la risposta. Il mito permette di esplorare spesso con efficacia le zone inesplorate, che ci saranno sempre, quindi di miti c'è bisogno anche oggi.
Abbiamo riflettuto sul fatto che di fondo anche la democrazia è un mito? Se lo facessimo, saremmo forse più democratici, non facendolo, siamo democratici solo di facciata.
saludos
Solimano
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