L'homme du train, di Patrice Leconte (2002) Sceneggiatura di Cleude Klotz Con Jean Rochefort, Johnny Hallyday, Jean-François Stévenin, Charlie Nelson, Pascal Parmentier, Isabelle Petit-Jacques, Edith Scob, Maurice Chevit, Riton Liebman, Olivier Fauron, Véronique Kapoyan, Elsa Duclot, Armand Chagot, Michel Laforest, Alain Guellaff Musica: Pascal Estève Fotografia: Jean-Marie Dreujou (90 minuti) Rating IMDb: 7.4
Laura
Cosa si perde nel condurre una vita ordinaria? E fino a che punto si può rimpiangere di non averne vissuta una un po' più tranquilla? Questo pare sia l'interrogativo che pone il film di Patrice Leconte, L'uomo del treno, la cui storia ruota tutta intorno a Manesquier (Jean Rochefort), un professore di letteratura francese in pensione e Milan (un Johnny Halliday dai capelli scuri e passo da cow boy) che si ferma nella piccola città del professore giusto il tempo di organizzare una rapina in banca da attuare pochi giorni dopo con i suoi complici, il sabato a venire. I due s'incontrano casualmente e Manesquier, desideroso di avere un ospite nella sua grande casa carica di libri, oggetti antichi, velluti, ma soprattutto di molta noia, propone al taciturno e misterioso Milan di passare la sua breve permanenza in sua compagnia anziché cercarsi un albergo.
Nei tre giorni di convivenza nasce un rapporto di rispettosa amicizia in cui i due si confidano rimpianti e flebili speranze.
Davvero divertente la lezione su come vanno portate le pantofole impartita dal professore al malfattore dall'animo gentile quando quest'ultimo gliele chiede in prestito perché non ne ha mai indossate in vita sua.
Le pantofole vanno portate al limite dell'usura, trascinate. O meglio, a ciabatta, col tallone in fuori. E in questo Manesquier è davvero esperto, lui che ha sempre ciabattato entro i confini di casa sua senza mai farsi tentare da una pulsione improvvisa, un fuoriprogramma che desse ad uno dei suoi giorni il colore dell'avventura. Evidentemente, in vista dell'operazione che lo attende proprio lo stesso sabato in cui Milan realizzerà la rapina, cerca di darsi da fare in ogni modo per recuperare. Inizia col curiosare nella stanza del suo ospite, in sua assenza. Prova la giacca frangiata da cow boy, scopre la pistola di Milan. Si specchia, si ammira compiaciuto. "Il mio nome è Earp, Wyatt Earp!" recita convinto, come un bambino a Carnevale. Poi torna al piano di sotto, alle solite occupazioni: il pianoforte, le letture, l'immane puzzle, le ripetizioni di letteratura a un ragazzino, la donna che frequenta pacatamente da quindici anni.
Milan è un ex cascatore circense. Rapinatore esperto, relazioni amorose da mezz'ora al massimo, mai una fissa dimora. Sempre "alla giornata", sempre lungo la strada delle opportunità, stavolta deve fare i conti con quella sua metà a cui mancano le pantofole, la previdenza, la voglia di comprare due baguette così, giusto per essere sicuri di non rimanere senza. Grazie a Montesquier, scopre persino la fonte di una poesia che si è portato dentro per tanti anni ignorandone l'autore e il finale. Purtroppo, né l'arditezza né la stabilità s'imparano nel giro di tre giorni. Così, questi due singolari compagni di viaggio, si accontentano di calarsi quel tanto che basta nelle reciproche vite da gustarne il lato frizzante o inaspettato senza farsi carico dell'inevitabile, amarognola routine. Milan non porterà Manesquier a fare la rapina come lui gli chiede, né il rapinatore comprerà un paio di pantofole tutte sue. Insomma, hanno giocato. In comune però, c'è quel sabato fatale. Moriranno tutti e due, il professore sotto i ferri per arresto cardiaco e il rapinatore sparato dagli agenti di polizia che sventeranno il colpo.
Quanto paga essere profondamente se stessi seguendo l'impulso? Io da giovane azzardavo spesso. Anche solo per la voglia improvvisa di farlo. Era una sensazione magnifica, di libertà assoluta. Con gli anni ho messo le matterìe da parte perché credo ci sia un tempo per tutto e, più spesso, la paura di sembrare ridicoli dai quaranta in su si fa sentire. Di certo, quella parte di me sa di esserne capace e a volte borbotta. Finché brontola so che è viva, circola dentro libera, pazza, comunque mia, quindi posso vivere alla Manesquier beatamente, senza cercare di provocare una rissa a bottigliate come sarebbe tentato di fare il professore al bar, solo per poterne serbare il ricordo per i giorni grigi.
Il film, a mio parere, non è tra i migliori di Leconte. A reggerlo egregiamente è il carisma degli attori, un magnifico Rochefort che trova la giusta resistenza in Halliday perfettamente calato nella parte. Il rapporto tra i due personaggi s'instaura anche troppo facilmente, considerato il poco tempo a disposizione che hanno per conoscersi. Sulle prime risulta forzato anche a causa di certe risposte che sembrano massime filosofiche, ma al regista si lascia volentieri l'agio di giocare con la finzione in cambio della sua solita eleganza. Il finale trasognato sullo scambio d'identità tra i due stride col film saldamente ancorato alla vita e ai colori di provincia, e Leconte indugia forse troppo.
Salire, prendere il prossimo, accontentarsi di vederli passare. Ogni giorno, ogni persona incontrata è comunque un treno in transito che passa sui binari della nostra vita.
domenica 11 novembre 2007
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6 commenti:
Laura cara, premetto che non avrei mai creduto -leggendoti- che tu fossi stata "in gioventù" una persona capace di "matterie". Sono comunque lieta di saperlo, non nascondendo un buona dose di invidia per tutto ciò, da parte di chi -come me- relega le proprie sortite fuori rotta nell'ambito della "rete" virtuale. Il tuo post mi è piaciuto "da matti", anche perchè riveli il finale: cosa questa importantissima per una spettatrice anomala quale io sono... Ti confesserò che non sapere in anticipo come finisce un film, anzichè incuriosirmi, mi dà un vago ma fastidiosissimo senso di ansia. La storia di Milan e Manesquier -correggimi se sbaglio- non ha forse qualche punto di contatto con i romanzi di Simenon? Non solo con quelli che hanno per protagonista Maigret: pensavo ad esempio a "L'uomo che guardava passare i treni", dove torna il tema del viaggio e della casualità dell'incontro.
A bientot, aspettando di rileggerti
Roby
Roby, è vero! Il non sapere il finale crea ansia e danneggia il godimento del film la prima volta che lo si vede. Se è un film che ci ha preso, anche il thriller più intorcinato si vede con gusto maggiore la seconda volta, perché cogli i nessi, le finezze, la tipologia dei personaggi, e se ti immedesimi, lo fai ad un livello più alto.
Laura, il tema del rapporto profondo fra persone diverse, che è profondo (anche difficile...) proprio perché le persone sono differenti come esperienze ed a volte anche come età, è tipico dei francesi, e la Jaoui, non mi stancherò di dirlo, ne ha tratto quel grande e civile film che è Il gusto degli altri.
Ma anche Leconte non scherza. In tutti e tre i film che hai messo finora (gli altri due sono Il marito della parrucchiera e La ragazza sul ponte), il rapporto di coppia è centrale. Riguardo questi due, che dire? Che alla fine del film non ci sono più, ma i loro ultimi giorni sono stati certamente fra i migliori della loro vita. Fortissima la cosa delle pantofole, delle ciabatte e del tallone di fuori. Mancano, giustamente, le infradito.
saludos
Solimano
Cara Roby,
... perché?A questo punto sono curiosa di sapere come ho fatto a darti l'impressione opposta. Ti va di dirmelo? :)
Sai, mentre scrivo i post ci sono domande che martellano in testa. Cose tipo "Troppa trama?" o "Amputiamo il finale?" Insomma, non ci sono formule. E io non so mai quando sbaglio. Allora decido di essere indulgente con me stessa e penso solo a scrivere del film come lo sento... sottopelle. Ovviamente spero che la spontaneità mi porti dritta al lettore facendomi perdonare persino i finali svelati.
Solimano, per avere un bel rapporto come quello tra Manesquier e Milan bisogna essere legati allo stesso mistero, necessitare di quel rapporto sinceramente e senza doppi fini per farsi compagnia (e anche coraggio, perché no?) in quel qualcosa che ci sfugge e, tuttavia, è dentro di noi.
Un caro saluto
Laura
Cara Laura... non so il perchè preciso... forse il tuo modo di scrivere così pacato, controllato, piano... ???
[:->>>]
La mia, comunque, non era una CRITICA!!!!
[:->>>>>>>>>>>>>]
E mi raccomando, continua così, senza angustiarti troppo per la lunghezza della trama, la rivelazione del finale ecc.....
Bacioni!!!!!!!!
Roby
Cara Roby,
non preoccuparti. La mia era pura curiosità. Che potesse essere una critica non mi è venuto in mente. Quando poi ne ricevo cerco di capirne il motivo, scavare, con la speranza di tirarci fuori soprattutto il lato buono, utile. Non sono permalosa, sai? Anzi. Oddìo, a tutto c'è un limite.
La scrittura è uno specchio abbastanza fedele per chiunque.
Allora, tu dici di continuare così, eh?
Va bene, mi fido.
un caro saluto
laura
Noi, i film li guardiamo standoci dentro, non standoci fuori, questo è il punto.
Starci fuori è facile, basta scrivere delle genericità sul film che non mettono in gioco il sè, magari aggiungendoci qualche considerazione morale, sui tempi in cui siamo e così via. Bastano dieci minuti o un quarto d'ora, ed il gioco è fatto. Solo che il valore aggiunto è zero per chi scrive e zero per chi legge.
Starci dentro vuol dire cose diverse. Prima di tutto vedere se abbracciare o schiaffeggiare il film (vedi stroncatrix!) e darne dei motivi molto concreti, precisi, mettersi in gioco insomma, e ci vuole più tempo.
Perché questa concione? Perché facendo così, cioè mettendo i film come esperienza personale, di questo si tratta, chiaramente escono cose diverse a seconda della singola persona che scrive, e non esiste la ragione ed il torto, esistono esperienze e modi inevitabilmente diversi. Ma è questo il bello, perché il valore aggiunto c'è per chi scrive e per chi legge. E' una cosa completamente diversa dal discutere se un film è bello o brutto, è più difficile, però, come vediamo nei fatti, perché una piccola storia ormai ce l'abbiamo, è più apprezzato che lo scrivere astrattezze: una esperienza è sempre concreta. Ognuno sia se stesso, solo un po' di più.
Ugh! Ho detto.
saludos
Solimano
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