martedì 6 novembre 2007

L'amico di famiglia

L'amico di famiglia, di Paolo Sorrentino (2006) Con Luigi Angelillo, Fabrizio Bentivoglio, Liliana Bernacciano, Clara Bindi, Giovanni Caruso, Laura Chiatti, Giacomo Rizzo Musica: Teho Teardo Fotografia: Luca Bigazzi (108 minuti) Rating IMDb: 7.3
Laura
Non se se parlare di questo film perché credo che Paolo Sorrentino sia uno di quei registi italiani di cui andare fieri, o per via di quel blu ceruleo sul fondo della locandina. Probabilmente, per tutti e due i motivi, anche se tralascerò il secondo.
Il modo che questo regista ha di comunicare con le immagini ancor prima che con le parole penso sia una sua prerogativa. Come é giusto che sia per un regista. Il suo stile, molto personale, si nota anche nella scelta di fisionomie suggestive che fanno da contrappeso - fortunatamente - ai sex symbol di turno e alle trame commerciali. Le storie su cui Sorrentino lavora non sono banali, perché spesso parla di gente comune che cela una briciola di straordinario. Sa essere narrativo e senza troppe sorprese come ne L'uomo in più, il suo primo film. O essenziale, scarno, al neon, quasi autoptico ne Le conseguenze dell'amore, ma anche visionario e giocoso come nel film di cui scrivo. Mai nulla risulta forzato, forse perché Sorrentino sa come individuare il baricentro interno alla storia per calibrarlo perfettamente poi con la potenza a effetto delle immagini (una cosa che manca sempre un po' all'attuale cinema italiano.) Come la prima in assoluto: la testa di una monaca che spunta come un fungo dalla sabbia di una spiaggia. Gli esterni sono una galleria di scene dall'atmosfera metafisica con ambientazioni alla De Chirico, dove spesso i personaggi rimangono piccoli e soli sotto le minacciose e algide architetture. L'immobilità di fondo rafforza i gesti e le azioni dei protagonisti, anche se non fanno niente.
L'amico di famiglia (che in origine aveva un altro finale, sapientemente modificato in seguito) è il terzo film di Sorrentino. Poteva ricalcare la traccia del plauso ricevuto con Le conseguenze dell'amore. Invece no. L' aspetto che le sue storie hanno in comune finora è quello di raccontare personaggi moralmente discutibili che poi il regista trova modo di redimere, per " farceli capire " e perché no, anche amare.
Geremia (Giacomo Rizzo) è un sarto - usuraio che incappa nell'amore e in uno scherzo sinistro che gli riserva il destino. E' un essere ripugnante che confida tutto nel suo potere affabulatorio perché non ha altre doti. Buffo sentirlo dire di non potersi permettere di essere ridicolo quando riesce magnificamente a strapparci una risata mentre pattina lungo il corridoio verso la camera della sposa, o quando sviene di colpo, adorno di tovagliolo stretto intorno alla testa per l'emicrania che lo aspetta puntualmente a casa, appena Rosalba (Laura Chiatti) gli dice che non indossa le mutandine.
Oppure sul lettone, in compagnia della mamma inferma che è obbligato ad accudire, quando, guardando l'ennesimo documentario sui rettili, alla vista del coccodrillo tutti e due sobbalzano: tenendosi per mano esclamano col muso arricciato " uh, che schifo! ", come se il povero animale fosse peggiore di loro.

La simbologia religiosa è abbastanza frequente: Rosalba ammantata come la Vergine Maria in due situazioni diverse; la madre di Geremia che in una particolare inquadratura sembra essere, in quella sua totale immobilità di disabile, la statua lignea di una martire del Sud (la testiera del letto in ottone disegna una specie di sacro cuore contro la parete trapunta di crocifissi inchiodati a raggiera), o la ragazza in topless, all'ombra dell'albero sotto cui l'usuraio, dalla parte opposta, si siede come un deforme Adamo nell'inferno della perfezione. Ma pure la suora che apre il film e che intuiamo essere, in modo pacatamente blasfemo, anch'essa debitrice dello strozzino.
Geremia Cuore d'Oro è ributtante non tanto per l'aspetto, quanto per quella capacità tutta sua di negare un gianduiotto ad un bambino. Di essere intimamente viscido oltre che brutto. Quel mago di Rizzo fa di lui un capolavoro di personaggio: la camminata trotterellata e sbilenca, quel "sorella cara " e "fratello caro " che rivolge allo strozzato di turno, assicurandogli con uno sguardo agghiacciante " il mio ultimo pensiero sarà per te ", frase ambigua, inquietante da togliere il sonno. Geremia non ha niente di umano. Si muove come una bestiola selvatica e vive in una tana decrepita dove la sensazione di sentirne il fetore è tangibile. Ci abita insieme alla madre, a una raccapricciante parsimonia di consumi e a una sorta di cordone ombelicale, un budello onnipresente, chilometrico, serpiforme che lo vota agli aspetti più morbosi della vita. Verso la fine del film, c'è una scena in cui Geremia comunica alla madre di essere diventato grande, che non potrà più accudirla perché ora ha una fidanzata.
Poi eccolo piangere, cinque minuti dopo, lanciato alla guida della sua auto e invocare " Mamma! " come un bambino, sempre più forte fino ad urlare, perché ha appena realizzato che il suo compagno di pesca (il mite, insospettabile Gino - Fabrizio Bentivoglio vestito di sogni e abiti country dalla testa ai piedi perfettamente a suo agio nella periferia dell'Agro Pontino) è in realtà l'artefice della sua rovina finanziaria e amorosa.
Rosalba è una luciferina Laura Chiatti che qui riesce a mettere a frutto la sua recitazione inespressiva ottenendo un ottimo risultato. E' il gioco della bella e la bestia. Ma qui le parti si confondono. Cos'è l'amore, la bellezza, la poesia per una persona ignobile come Geremia? La scena di una partita di pallavolo spiata dalla finestra e ricreata tra le mura di una stanzetta semilluminata dal cui soffitto pendono palloni. Una partita che lo storpio fa ripetere al rallentatore ad una sua amica in calzoncini dalle fattezze boteriane, per giunta anche malata. La rappresentazione della solitudine, della vita bramata da dietro le quinte. Fino a quando non incontra Rosalba. Fino a quando crolla tutto un sistema di dare e avere programmato a tavolino e lui si ritrova a non possedere più nulla, magicamente, finalmente liberato e libero di ricominciare daccapo (ma come? Solo nell'unico modo che conosce?) E' seguendo la sua caduta che lo scopriamo: non è il più cattivo, il più ripugnante, il più laido di tutti ma un povero disgraziato da guardare non solo con pietà, ma persino con simpatia.

6 commenti:

Gioacchino ha detto...

Ciao, Laura. Mi sono soffermato con piacere a leggere la recensione, sia perchè la trovo scritta bene sia perchè non vedevo l'ora di schiarirmi le idee su questo film visto poco tempo fa. Ancora mi dà gli incubi come un'opera incompiuta. Perchè dici bene, si immagina una redenzione, ma dov'è? Coincide, per molti dei personaggi con l"uscita di scena": la morte della madre, la fuga dell'anziana giocatrice di bingo, del gaucho e della miss... ma alla fine resta solo, terribilmente solo con se stesso Geremia. Credo che se per lui una redenzione vi sia stata coincida con il momento (inatteso) di un moto di consapevolezza che sa quasi di ribellione, quando bevendoa una fontana nega proprio la possibilità di una redenzione, ratificando così la propria condanna. E' l'unico momento di simpatia, se così si può dire, del personaggio: malvagio e dolorosamente consapevole di esserlo, quasi spinto da una forza superiore a lui. E' qui, solo alla fine, che la commedia grottesca si trasforma in tragedia, alta, sublime. Volevo solo aggiungere questo, per il resto mo trovo assolutamente d'accordo con te. Saluti,

Gioacchino

Solimano ha detto...

Laura e Gioacchino, la rappresentazione dei brutti, sporchi e cattivi nel cinema è stata poco frequente, e comunque sottoposta a due accortezze.
La prima è quella di buttarla sul bozzettismo un po' grottesco, una specie di commedia non nera ma grigia. Un modo di addolcire la pillola, trasformando vizi profondi in tic di superficie.
La seconda è quella di concentrare brutterìa, sporcizia e cattiveria in un solo personaggio (massimo due), salvando gli altri. E' la tecnica del capro espiatorio.
Sorrentino fa benissimo ad evitare le due accortezze, anche se usa anche il tasto grottesco. Geremia non è solo, ma in buona (anzi cattiva) compagnia, perché gli altri non sono vittime, ma complici. E Laura giustamente rileva che anche gli spettatori rischiano di entrare a far parte della compagnia di giro, perché è un contagio universale, è la condizione umana. E' una scelta impeccabile che è frutto della maturità che pian piano sta facendosi riguardo ai peccati, ai vizi, al cosiddetto male (Lorenz).
In un suo libro, Lorenz scrisse dei sette peccati capitali, e li mostrò in azione nel mondo degli animali, affrontato con l'etologia: l'avarizia della gazza, la pigrizia del gatto a pancia piena etc etc. Questo è un modo che permette di vedere in azione i meccanismi biologici, etologici, antropologici che operano nel nostro cervello. Vedendoli, passiamo farci i conti, gestirli, quindi è un passo in avanti, mentre se non li vediamo abbiamo bisogno di avvertenze.
Quindi, in un certo modo, Geremia siamo noi. Solo se ce ne accorgiamo possiamo cambiare, altrimenti, di scorciatoie moralistiche, nichilistiche, salvazionistiche ce n'è fin che si vuole, ma restiamo dove siamo.
Ottimo segno, che si facciano film come questo, e come "L'imbalsamatore" di Garrone.

saludos
Solimano

Anonimo ha detto...

Salve, Gioacchino.
Io guardavo il film e a conti fatti pensavo " Povero Geremia." Ostaggio di una madre che dimostra di saperla lunga solo in fatto di usura, Geremia è un essere dai sentimenti menomati. Al limite, li calcola perché quello è il suo modo di viverli e non ne conosce altri, e lui tragicamente, lo sa. Rosalba, nella sua malvagità, gli dà l'opportunità di toccarli con mano, guardarli da vicino. Geremia perdendo tutto è come se si spogliasse della vecchia vita. Comunque vada, ha la sua seconda chance. Libero lui, libero Titta, libero Pisapia. Tutti liberi, i personaggi sinistri di Sorrentino, perché accettano ciò che gli spetta con una pace che prima, a vita fatta, non avevano. Rimangono perché non è scappando altrove che ci si risolve.
Ti ringrazio moltissimo per le tue osservazioni.
Un caro saluto
Laura

Anonimo ha detto...

Mi accorgo che il buon Solimano aveva risposto prima di me con uno dei suoi preziosissimi contributi. Grazie! Ora ho messo a fuoco chi mi faceva pensare Geremia: l'imbalsamatore!
Sì, pensiamo sempre di essere immuni da certe miserie fino a quando succede qualcosa o incontri qualcuno che sa mostrartele.
Grazie ancora, Solimano.
Laura

Roby ha detto...

Premesso che apprezzo molto il modo usato da Laura nello scrivere (e nel descrivere), devo qui confessare un'altra delle mie particolarità di spettatrice cinematografica: così come non sono fisicamente in grado di reggere storie dove comunque rientri la violenza eccessiva (vedi "Arancia meccanica"), non riesco neppure ad assistere alla rappresentazione di "brutti, sporchi e cattivi" et similia, benchè (in entrambi i casi) riconosca che gli indubbi meriti artistici di tali film.
Che devo dirvi? 'Un ce la fo proprio!!!
Dal che si evince che io, in realtà, sono una componente anomala di questo blog...

[%-$]

Roby

Anonimo ha detto...

Roby cara, non credere, anch'io fuggo da certi film. Per dirti, vidi Irreversible e non lo farò mai più. Lasciando stare il film in sè e la scena del sottopassaggio, quella che mi ha impressionato è stata la violenza dell'amico di Cassel mentre spappola la faccia dello stupratore degenerato a suon di bombola. Non so se mi faceva più paura scoprirmi dalla parte dell'omicida furioso, l'incitamento dei depravati intorno o lo sfacelo di quella faccia che di colpo in colpo non aveva più nulla di umano.
Lo so, è finzione, eppure...
un caro saluto
Laura