martedì 27 novembre 2007

Anthony Burgess, l'arancia e il cinema (3)

Giuliano
Anthony Burgess è scomparso nel 1993; Stanley Kubrick sei anni dopo, nel 1999. Il libro è del 1962, il film è del 1971: ne è passata di acqua sotto i ponti, eppure Arancia Meccanica continua a fare notizia. Quando ne parlava, come nell’articolo che abbiamo messo qui sul blog qualche mese fa, Burgess non sembrava molto contento del perdurare nella memoria collettiva di questa sua invenzione, tra i tanti libri che aveva scritto. Non per altro, ma perché ogni volta gli toccava ribadire e ripetere i ragionamenti che c’erano dietro al libro; e la stessa sorte è toccata a Kubrick con il film.
E’ per questo che pensiamo di fare cosa utile riportando altre riflessioni di Burgess in proposito.
Qui Burgess ammette il suo errore, quello più grande: la pia illusione che ci sia ancora gente che sta a perdere tempo ad ascoltare, a seguire un discorso, a leggere un libro o guardare un film dall’inizio alla fine, magari seguendo il ragionamento e i rimandi dell’autore...

Anthony Burgess
"Arancia meccanica è violenta? Sì, sono colpevole"
Ccorriere della Sera 25 marzo 1993
Anche se Evelyn Waugh affermò che il cambiamento è una caratteristica dell'esistenza umana, le sue rigide opinioni non furono mai addolcite da questa massima. Ci sono alcune convinzioni alle quali ci aggrappiamo e a cui non permettiamo di abbandonarci: alla mia età, l'abbandono di una convinzione che faceva parte del mio essere deve essere considerato una sorta di indulgenza. Parlo della convinzione che le arti, incluse quelle minori, fossero inviolabili: che esse non potessero mai venire accusate di esercitare un'influenza morale o immorale e che esse fossero incorrotte, incapaci di corrompere e incorruttibili. Ho cambiato opinione in proposito abbastanza di recente.
Questo atteggiamento protettivo nei confronti dell'arte in realtà non era altro che un mio desiderio di giustificare gli elementi corrotti esistenti nella più grande letteratura di tutti i tempi, quella del palcoscenico elisabettiano. Era un desiderio quello dì non considerare Shakespeare uno scrittore violento. Una delle sue tragedie che probabilmente non vedremo mai più rappresentata sui palcoscenici e che, dì certo, non vedremo mai adattata sul piccolo schermo, è «Tito Andronico». Con i suoi stupri di gruppo, le mutilazioni, le scene di cannibalismo e con la carneficina finale, essa raggiunge un livello confacente solo al più depravato film pornoviolento dei giorni nostri: il fatto che essa sia il prodotto dello scrittore più stimato che sia mai vissuto non mitiga l'opportunismo dozzinale di questa opera. Anche in «Re Lear», l'asportazione degli occhi del Conte Gloucester sembra una concessione gratuita alla depravazione degli spettatori («Fuori, vile gelatina»).
Nella «Tragedia spagnola», Thomas Kyd a Hieronimo fece tagliare a colpi di morsi la propria lingua anche se questo era un gesto troppo inverosimile per essere preso sul serio. La «Tragedia spagnola» in ogni caso è la progenitrice, assieme al latino Seneca, della tradizione della Tragedia del Sangue, alla quale «Re Lear» e «Amleto» appartengono. E più grande dramma di tutti i tempi fu immerso nel sangue e storpiato dalla violenza.
Si può affermare l'impossibilità dell'esistenza di un dramma che non contenga la violenza. Una rappresentazione teatrale, persino una commedia, si basa sul gioco degli antagonismi e quest'opposizione può essere omicida. L'antagonismo deve essere risolto attraverso il pianto o il riso: è solo questo che costituisce la trama. I romanzi melliflui di Jane Austen o di una Barbara Pym si basano su un'opposizione civile che può essere risolta attraverso la ragione; il concepimento di una trama nella quale gli antagonismi si accendono senza che un solo atto violento venga sferrato richiede un'immensa integrità artistica. Nella nostra era, almeno, la violenza fisica è monopolio dell'artista minore.

Affronterò adesso un argomento per me delicato. Riconosco di essere stato responsabile, come chiunque altro, del culto della violenza che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni. Nel 1962 pubblicai un romanzo intitolato «Arancia meccanica» in cui l'interesse era rivolto ai metodi di repressione della violenza giovanile piuttosto che alla glorificazione dell'atto aggressivo. Dieci anni dopo la pubblicazione anni caratterizzati da critiche perplesse e da un esiguo numero di lettori ‑ Stanley Kubrick adattò il libro al grande schermo piuttosto brillantemente. La sua versione differiva dall'originale in quanto il regista enfatizzava l'aspetto visivo mentre io ero stato particolarmente attento a convertire in sonorità ‑ nello specifico, i suoni di una lingua inventata ‑ i cliché della confusione e dei delitto.
Sia nel libro sia nel film il protagonista, attraverso il lavaggio del cervello, veniva trasformato da un individuo amante della violenza in un automa che vomita al solo comparire di un pensiero violento. La domanda era questa: è ammissibile soppri­mere la libera volontà per assicurare la stabilità della società?
Tra gli spettatori del film non furono in molti che si resero conto dell'interrogativo: la maggior parte era troppo eccitata dalla violenza per riflettere sulla filosofia del concetto.Come sappiamo, Kubrick e incidentalmente io stesso fummo accusati di aver raffazzonato qualcosa che assomiglia alla pornografia violenta; Kubrick ricevette dure minacce da alcuni nemici della violenza; in Gran Bretagna, diversamente dagli altri Paesi, il film venne ritirato e, non essendo stato possibile vederlo, «Arancia meccanica» si è guadagnato una reputazione ancor peggiore di quella che merita. Ma, soprattutto, un grande artista cinematografico ha ammesso dinnanzi al mondo che l'arte può essere dannosa.
Se «Arancia meccanica» può corrompere, perché non lo possono fare la Bibbia e Shakespeare? E, invero, perché no? Ricordo di essere tornato a Londra da New York con un paio di premi ricevuti dal New York Critic's Circle e di essere stato inviato a difendere il film in un programma radiofonico condotto da Sir James Savile, ai quei tempi un ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico. Notate che l'unico tipo di approccio al film fu di attacco o di difesa: un sereno giudizio estetico allora sembrava essere fuori luogo. La mia linea di difesa fu che l'azione era anteriore all'arte, che l'aggressività era insita nell'uomo e che, quindi, non poteva essere insegnata da un libro, da un film, o da un dramma.
Se si desiderava credere che un libro potesse istigare alla violenza, allora la Bibbia, considerata l'espressione della Parola di Dio, poteva costituire il primo esempio. Dagli USA giungeva la notizia secondo la quale gruppi di quattro giovani vestiti bizzarramente come i protagonisti di «Arancia meccanica» avevano stuprato delle suore a Poughkeepsie, mentre a Indianapolis avevano picchiato degli anziani. Continuai a negare la possibilità che il film avesse potuto istigare i giovani alla violenza, ma non ero del tutto sincero: era Shakespeare che stavo difendendo.
Dal film "Arancia meccanica" la gioventù non apprese l'atto aggressivo: essa era già aggressiva. Ciò che imparò fu uno stile di aggressione, un modo nuovo di abbigliarsi per far violenza, una salsa piccante per condire un'insalata fatta di calci, percosse e colpi di lama di rasoio. Un prodotto artistico ha una qualità autorevole, uno slancio giustificativo che garantisce virtù all'imitazione. Noi sappiamo, anche se non lo vorremmo, che l'offerta di Abramo di sacrificare il proprio figlio al Signore è stata adottata per giustificare l'infanticidio e che l'atto dei pluriomicida Haigh di bere il sangue delle proprie vittime aveva le sue origini in una devozione maniacale nel sacramento dell'Eucaristia. Forse una persona può vedere «Amleto» e poi fare cosa ha rimandato di fare: uccidere, cioè, il proprio zio. Non sappiamo se «Il silenzio degli innocenti» abbia promosso il cannibalismo o la folle carneficina dei suo protagonista.
Ci inchiniamo adesso, in ogni caso, dinnanzi a una tesi che pensavo non avrei mai accettato, quella della pericolosità dell'arte. Ai tempi dei Moors Murders (Assassini delle paludi), quando l'omicida Brady ammise di poter essere stato influenzato da «Justine» del Marchese de Sade, l'ultima Lady Snow disse che se il rogo di tutti i libri esistenti al mondo fosse stato necessario per risparmiare la morte di un bambino, noi non avremmo dovuto esitare ad incendiarli (naturalmente, le pellicole cinematografiche produrrebbero una fiamma migliore).
Il discorso sta andando troppo oltre: ma io sto iniziando ad accettare il fatto che, quale romanziere, appartengo al rango dei pericolosi. Ero solito considerarmi un innocuo arrivista della penna.

Composta prevalentemente da film narrativi e dal libero sfogo dell'impressionante, l'interrogativo su fino a che punto la televisione possa essere un agente di corruzione è divenuto pressante. Con la sua trasformazione in una sorta di museo dei film e in bacheca per telefilm prodotti con pochi soldi, il mezzo di comunicazione televisivo ha già tradito parte della sua funzione iniziale.
Negli Anni 50 la Bbc trasmetteva drammi, non lungometraggi. Gli spettacoli principali della serata erano Checov, Rattigan o persino Shakespeare, recitati dal vivo a intervalli. Il teatro veniva portato nei salotti e il teatro non ha mai permesso gli eccessi del cinema. I polizieschi americani che adesso affollano le ore oziose prima di andare a letto devono essere violenti ma la violenza dei cattivo è bilanciata da quella del buono. Eppure dubito che la violenza di tali sceneggiati abbia un impatto reale: non ci sono esseri umani, ma solo assassini e poliziotti.
Di principio ‑ ed è un principio che sono stato disposto ad accettare oltrepassati i cinquanta ‑sono favorevole alla censura ai danni dei piccolo schermo, anche se ritengo che il pubblico si sia già sensibilizzato nei confronti della violenza in tv, una sensibilità che nella parte finale del film è pronta a dire: «Ne ho abbastanza, basta». E' improbabile che alcuni degli eccessi cinematografici vengano riprodotti sul piccolo schermo.
Devo confessare che negli ultimi vent'anni ho guardato la televisione in Francia e in Svizzera, con soggiorni occasionali a New York. La televisione, come è risaputo, è migliore in Gran Bretagna, ma non esiste una grande differenza qualitativa se uno attraversa l'Atlantico o le Alpi. La televisione mondiale è omogenea, impregnata cioè di innocui sceneggiati americani. Come gli alimenti che mangiamo a colazione, essa è melliflua e il suo aspetto negativo non è nella somministrazione di acute stoccate di violenza o di stimoli sessuali quanto piuttosto nei fatto che la televisione è un mezzo di espressione che può essere o non essere volgare. Quale semplice visitatore della Gran Bretagna sono spaventato dalla violenza della pubblicità che paga ciò che viene trasmesso prima o dopo, dall'avvilimento del linguaggio, dallo humour così scadente da far arrossire. Si rimpiangono i vecchi tempi, l'unico canale della Bbc, le rappresentazioni tranquille, la ruota della fortuna, il mulo Muffin. Adesso, invece, il desiderio di foraggiare cromaticamente ogni minuto della trasmissione porta a fare uso della violenza a basso costo. Non penso però ci sia nulla da temere.
Il pericolo della tv, soprattutto se i suoi standard vengono stabiliti virtualmente dagli interessi commerciali, è che essa sia agente del degrado sociale. Questo è ancor più spaventoso dell'eventualità che «Arancia meccanica» raggiunga lo schermo.
Traduzione di Rossana Rapisarda

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