Giuliano
Andrej Rubliov: i tartari nella cattedrale
Andrej parla con calore, con passione: sembra in preda alla febbre.
« Chi?»
« Ma lo sai, quello... come si chiama... quel povero pope.»
« Ne hanno uccisi talmente tanti, come faccio a ricordarmeli tutti...»
Teofane si avvolge nella tonaca con un brivido di freddo e, ficcando le mani nelle maniche, si appoggia a una parete tutta insozzata.
« Beh, e ha anche baciato la croce arroventata – continua febbrilmente Andrej – Ed è morto così, senza capire nulla lo stesso, continuando a urlare: “voi scomparirete, e noi ricostruiremo tutto di nuovo!”, mentre i tatari ridevano... che cosa gliene importava? “Anche senza bisogno di noi vi sbranate a vicenda!” »
(Andrej Tarkovskij, da “Andrej Rubliov”, ed. Garzanti, 1992)
Siamo nel 1408, e la Russia è in preda ad uno dei suoi lunghi periodi torbidi. Il giovane monaco Andrej, stimato pittore di icone, è stato chiamato nella città di Vladimir per dipingere un affresco nella cattedrale. Ed ecco i muri bianchi, tirati a nuovo, pronti per l’affresco; ma qualcosa non va, non si riesce ad iniziare e si discute molto sull’Arte e sul Sacro.
Intanto, fuori, la Storia fa il suo corso. E su Vladimir stanno per piombare i tartari.
Il giovane capo tartaro si è alleato con il fratello del Principe, che per le sue mire personali di potere ha deciso di sacrificare la città. Anche per via del tradimento, i tartari arrivano e non trovano quasi resistenza; penetrare nelle mura è uno scherzo, per dei guerrieri come loro. In poco tempo, tutta la città è in preda degli invasori. Rimane solo una porta ancora da sfondare: quella della Cattedrale dell’Assunzione, dove sono riuniti i fedeli in preghiera. La porta cede, ed è una carneficina; dentro come fuori dal tempio.
Andrej si salva, ma a duro prezzo. Da monaco, ha dovuto uccidere; ed ha assistito allo scempio e alle violenze. Giura che non dipingerà più, e terrà fede al giuramento: come si può dipingere dopo tanta violenza? Andrej Rubliov riuscirà ancora a dipingere, ma solo dopo gran tempo, nel 1424, davanti alla fusione quasi miracolosa della grande campana: sarà l’ultimo episodio del film, toccante e memorabile.
Ma adesso la cattedrale è distrutta, i muri sono rimasti in piedi ma il tetto è sfondato, e tutto è stato saccheggiato, distrutto, incendiato. Comincia a nevicare.
Lo sguardo di Tarkovskij, in questa scena, è qualcosa di sconvolgente. Ci si chiede come sia possibile arrivare ad una tale violenza senza far voltare lo sguardo, per di più in un film come questo, dedicato alla vita del più grande pittore di icone religiose, l’iniziatore della grande scuola russa.
Quello che sconvolge è che gli invasori non sono descritti come barbari assetati di sangue. I tartari sono visti come un evento naturale. Non sono “cattivi”, così come non è cattivo di per sè il vento o un’alluvione. Il giovane capo tartaro ha eleganza e raffinatezza, dialoga alla pari con il principe traditore, e anche le sue truppe, alla fine, troveranno modo di fraternizzare con quel che resta della popolazione. In una di quelle sequenze che non si dimenticano, e che nel cinema sono rare, il giovane tartaro si aggira a cavallo dentro la cattedrale. Si guarda attorno, stupito e incuriosito, quasi divertito: guarda le pitture sui muri, gli arredi, i crocifissi. Ma guarda cosa perdono tempo a fare, questi cristiani; sembra dire. E forse pensa che i russi sono un po’ come dei bambini, che trovano il tempo di disegnare sui muri invece di pensare alle cose serie, come la guerra. E pensa anche che non gli dispiacciono, quei disegni sui muri, in fondo sono bravi, questi cristiani: bravi a dipingere, s’intende.
Eppure le scene che abbiamo appena visto sono terribili. Il giovane capo ha partecipato in prima persona alle torture, era lì, quasi impassibile, come se la morte di un vecchio sotto tortura fosse un gioco. E sa che presto se ne andrà, perché non si può star fermi; si prende quel che c’è da prendere, e poi si torna a correre, alla tenda, ad una nuova guerra...
Andrej rimane da solo, alla fine della lunga scena. Ormai tutto è finito, i tartari se ne sono andati, nella cattedrale non c’è più nulla da saccheggiare. Quasi d’improvviso, si trova a parlare col suo maestro Teofane il greco, che gli dà risposte amare e sensate. Ma Teofane è morto, non con lui che Andrej sta parlando.
Inclinando la testa come fanno i vecchi, Teofane guarda fisso l’affresco e dice: « Che bellezza...» Schioccando la lingua si gira di nuovo verso Andrej che sta in piedi nel centro della cattedrale , con le braccia tese, e afferra i primi fiocchi. Teofane sorride.
« Ascoltami, non smettere. Non è a te stesso che toglieresti una gioia, ma agli altri uomini.» gli dice sottovoce.
« Nevica – continua Andrej invece di rispondere – e non c’è niente di più tremendo che vedere nevicare dentro una chiesa, è vero?»
(Andrej Tarkovskij, da “Andrej Rubliov”, ed. Garzanti, 1992)
Andrej Rublëv , 1966
Regia: Andrej Tarkovskij; soggetto e sceneggiatura: Andrej Tarkovskij, Andrej Michalkov-Konchalovskij;
fotografia (BN e Sovcolor, Scope): Vadim Jusov montaggio: L. Fejginova, T. Egoryceva, O. Shevkunenko;
musica: Vjaceslav Ovcìnnikov; suono: I. Zelenkova;
scenografia: Evgenij Cernjaev (con la collaborazione di I. Novoderezkin, S. Voronkov); costumi: L. Novi, M. Abar-Baranovskaja; trucco: V. Rudina, M. Aljautdinov, S. Barsukov;
interpreti: Anatolij Solonitzyn (Andrej Rublëv), Ivan Lapikov (Kirill), Nikolaj Grin'ko (Daniil Cërnyj), Nikolaj Sergeev (Feofan Grek), Irma Raus Tarkovskaja (la scema), Nikolaj Burljaev (Boriska), Jurij Nazarov (il Gran Principe e il Principe Minore), Roland Bykov (il saltimbanco), Jurij Nikulin (Patrikej), Michail Kononov (Fomka), Stepan Krylov (il fonditore di campane), Sos Sarkisjan (Cristo), Bolot Bejsenaliev (il khan tartaro), N. Grabbe, B. Matysik, A. Obuchov, Volodja Titov, N. Glazkov, K. Aleksandrov, S. Bardin, I. Bykov, G. Borisovskij, V. Vasilev, Z. Vorkul', A. Titov, V. Volkov, I. Mirosnicenko, T. Ogorodnikova;
produzione: Mosfil’m (Gruppo Artistico degli Scrittori e Cineasti); direttore della produzione: T. Ogorodnikova; durata: 190'; data di lavorazione: 1966; prima uscita: 1969 (Festival di Cannes),1971 (Urss); distribuzione italiana: Ceiad Columbia.
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4 commenti:
Uno dei più bei film che abbia mai visto, tanti tanti anni fa. Forse è ora che torni a vederlo: ci si riesce anche sul piccolo schermo?
Bellissimo post, invidiabilmente asciutto.
Ciao,
Màz
Caro Nick-Maz, Tarkovskij ha girato il Rubliov per un formato immagine veramente enorme, che ci sta dando qualche problema nel riportare le foto qui sul blog.
Non so se lo hai visto al cinema, penso di sì: e guardando i fermo-immagine sul pc o sul tv ci si rende conto della perfezione assoluta di ogni dettaglio, per cui è difficile tagliare e fare un primo piano...
Dopo questo film Tarkovskij fu fermato dai burocrati dell'URSS per otto anni. Dai film successivi, da "Solaris" in avanti, non sarà più così perfetto e si vede che la situazione è stata pesante per lui.
Sono tutti film memorabili, ma Andrej Rubliov è un'altra cosa.
Direi comunque che col dvd si riesce a vedere bene tutto, ci sono anche delle sequenze a colori girate sul set.
Forse è superfluo dirlo, ma Tarkovskij non mette questa scena per caso o perché si diverta a farlo. Tarkovskij vive e lavora in Unione Sovietica: siamo nel 1966, non è come ai tempi di Stalin ma di pericoli ce ne sono ancora molti. Il conflitto è tra l’arte e la guerra, e il discorso si può estendere ad Auschwitz (si può ancora fare poesia dopo Auschwitz?).
Questo capo tartaro che si aggira per la cattedrale e si guarda in giro, e dentro di sè magari ridacchia e pensa a quanto sono scemi questi che perdono tempo a dipingere i muri, è la perfetta rappresentazione della mentalità di chi comanda. E non solo nell’Unione Sovietica del 1966, viene spontaneo aggiungere: oggi non ci sono più Stalin e Zhdanov, non c’è più nemmeno Kruscev, c’è la dittatura del mercato, e per un artista come Tarkovskij sarebbe altrettanto duro lavorare.
Che nel 1966 sia stato girato, in Unione Sovietica, un film come questo, sembra un miracolo: ma il film c’è, è qui e non ci sono state censure. Oggi, qui da noi, un film ad alto budget affidato a un regista come Tarkovskij sarebbe impossibile: come si fa a mettere gli spot del telefonino dentro la sequenza dei tartari nella cattedrale?
PS: c’è una scena analoga (che senso ha dipingere affreschi in tempi violenti) nel “Settimo sigillo” di Bergman: e non è un caso.
Giuliano, sai bene che io sono un po' così riguardo a Tarkovskj, ma non su questo film che è uno dei pochi che da soli giustificano l'esistenza del cinema. E' tutto prodigioso, nel film, non solo l'assalto a Vladimir e l'irruzione nella chiesa, ma la notte pagana sul fiume e la costruzione della grande campana, in cui è un giovane, quasi ancora un ragazzo che comanda tutti.
Ancora più mi ha quindi seccato che quando Tarkovskj negli ultimi anni venne in Italia molti strumentalmente lo osannassero perché gli faceva comodo. Usarono Tarkovskj e Testori (che è su un piano assai diverso) come foglia di fico per una politica ed una religione integrista e prepotente, di fondo epulonica, e che i Lazzari si arrangiassero.
Questo atteggiamento di opportunismo culturale per cui si sceglie in base al comodo ed al vantaggio, lo trovo ancor più ripugnante della bieca censura che vietò il Leon d'Oro a Visconti per Senso. Almeno mentivano di meno. A questi, del vero discorso di Tarkovskj, Testori, Ceronetti non frega assolutamente nulla, difatti Ermanno Olmi, che ha buon naso, sa starne lontano.
Andrej Rubliov sarebbe da vedere insieme in quattro o cinque e poi parlarne per tre ore, mangiando e bevendo nel frattempo.
saludos
Solimano
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