lunedì 20 ottobre 2008

L'anno in cui i miei genitori andarono in vacanza (2)

O Ano em Que Meus Pais Saíram de Férias, di Cao Hamburger (2006) Sceneggiatura di Adriana Falcão, Claudio Galperin, Cao Hamburger, Bráulio Mantovani, Anna Muylaert Con Michel Joelsas, Germano Haiut, Paulo Autran, Simone Spoladore, Eduardo Moreira, Caio Blat, Daniela Piepszyk, Liliana Castro, Rodrigo dos Santos Musica: Beto Villares Fotografia: Adriano Goldman (104 minuti) Rating IMDb: 7.8

Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce

Il Brasile nel1970 era sotto una dittatura militare che era iniziata nel marzo del 1964 e che durerà fino al 1985. Una dittatura che arresta, tortura, uccide. Una dittatura di cui forse si è poco parlato, ma che molti brasiliani non dimenticano. Passando davanti ad una caserma a Rio, una mia amica mi diceva sempre: qui si sentivamo venir fuori le urla di chi veniva torturato.
Una nazione intera, in quello stesso anno, si prepara ai mondiali che saranno vinti dalla nazionale brasiliana. L’entusiasmo unisce tutti. Impossibile, d’altro canto, non perdere la voce dietro alle prodezze di Pelé, Carlos Alberto, Tostão, Gérson e Rivelino: la più grande nazionale che il paese avesse mai avuto che, proprio, nell’estate di quell’anno, si apprestava a vincere la sua terza coppa del mondo.


Mauro è un ragazzino figlio di attivisti di sinistra, passa gran parte del suo tempo a curare la sua collezione di figurine e giocare con accendini, bottoni e monetine, simulando sul tavolo le gesta di Pelè e Tostao. Il suo sogno è vedere il Brasile alzare per la terza volta la Coppa del Mondo.

E il padre prima di andarsene giocherà con lui ancora una partita nel suo calcetto da tavolo.

E’ in questa cornice che Cao Hamburger ci regala una delle più belle pellicole di Berlino 2007: “E’ un film sull’esilio – sui vari tipi di esilio – sulla scoperta della transitorietà della vita da parte del protagonista, che impara a conoscere gli altri e a sopravvivere in un mondo nuovo”.

Mauro, infatti, si troverà solo. I suoi genitori partono per “una vacanza” e lo portano a vivere col nonno. Da Belo Horizonte vanno a San Paolo, quartiere Bom Retiro abitato in prevalenza da una comunità ebraica (il padre di Mauro è ebreo, la madre no) abitato quasi solo da anziani che parlano yiddish: molti dei suoi membri sono sfuggiti all'Olocausto.


Lì lo ospiterà il nonno in attesa del ritorno dei genitori. Lui è perplesso, non capisce cosa sta succedendo ma i suoi hanno una gran fretta e il padre gli promette di rientrare per la prima partita dei mondiali.
Lo lasceranno sotto la casa del nonno, ma, quando Mauro suonerà alla porta, non troverà nessuno a rispondergli. Si siede per terra ed aspetta fino a quando non arriverà il vicino Shlomo di casa che gli comunica una brutta notizia: il nonno nel frattempo è morto di infarto nel suo negozio di barbiere.

Shlomo lo ospiterà casa sua, ma il rapporto non è per niente facile, tanto che l’uomo si rivolgerà al rabbino per avere aiuto, ma la risposta sarà lapidaria: “se Dio lo ha lasciato davanti alla tua porta deve sapere quel che fa». E forse viene da pensare, lo sapeva davvero.

Dopo il confronto iniziale non proprio felice con Shlomo, Mauro decide di chiudersi nell'appartamento di suo nonno Motel, aspettando invano l'arrivo dei genitori sempre attaccato al telefono nella speranza che lo chiamino.
Poco a poco però si apre al nuovo mondo che lo aspetta grazie anche ad una bambina, Hana, che diventerà sua amica e compagna di giochi.


Un nuovo mondo si apre per Mauro, la piccola Hana lo aiuterà ad uscire, gli fa conoscere dei coetanei, e insieme, ebrei, italiani, greci si uniscono per tifare per i verde-oro che marciano verso il trionfo finale, contro l'Italia, sconfitta 4 a 1. La sua sarà un'estate di scoperte, di momenti anche felice, di nuove conoscenze, di amicizie vere.

Tutta la comunità ebraica accoglie Mauro senza indottrinarlo o costringerlo a sposare la propria fede, limitandosi a cambiare il suo nome in Moishele, ovvero colui che è stato salvato dalle acque del Nilo galleggiando in un cesto di canne.


Sì, sono proprio loro che lo salveranno, prima di tutto Shlomo che si affezionerà a lui e saprà essergli vicino, poi Irene, una bella ragazza, che gestisce il bar e tutte le famiglie che faranno a gara per farlo pranzare con loro.


Ma è l’attesa che caratterizzerà molte sue giornate, un’attesa che si dilata nel tempo, che ogni tanto lo induce a chiudersi in se stesso. Non parla, non racconta il suo dolore, ma aspetta: ogni momento per lui potrebbe essere quello giusto.
Un giorno vede un “maggiolino” uguale a quello dei suoi genitori i suoi genitori e pensa che stiano tornando. Abbandona i compagni con cui stava giocando a pallone, la sua passione e lo rincorre disperato, ma non erano loro.
Sotto le esplosioni di felicità ed euforia per un gol segnato dalla nazionale di calcio, il dolore del ragazzo, e la tensione del paese sono tangibili dall'inizio alla fine del film, eppure il regista non rinuncia ad alleggerire il tono del suo racconto, conscio che alla vita ci si adatta qualunque essa sia, e sottolinea come i bambini siano capaci di afferrare ciò che il giorno gli offre.


La repressione o la violenza, latente o evidente, non entrano in campo nel film se non in un momento della storia in cui il bambino assiste ad una retata: molti studenti saranno brutalmente portati via.

Sarà quello il momento in cui prenderà maggiore coscienza di dove sono finiti i suoi genitori ed aiuterà un amico di suo padre a nascondersi prima che anche lui debba “andare in vacanza”. A lui farà le prime domande su dove sono finiti i suoi genitori e se ritorneranno.

Il film sa mescolare la politica e la vita privata: la vita, nonostante tutto continua, ma sullo sfondo quel clima politico pesante segna la vita di tutti e in questo caso colpisce Mauro che non si rassegna, reagisce al dolore, ma ne è allo stesso tempo attraversato. Solo una comunità solidale riesce ad attenuarne le ferite e a dare a quel bambino la forza di crescere e di maturare.
E’ questo che mi ha commosso e fatto più pensare. E’ questo che oggi a noi manca: la capacità di stringerci intorno a chi ha bisogno ed è indifeso.
Un po’ di rimpianto anche per quei bei giochi di bambini semplici, ma che tanto mettevano in moto fantasia, immaginazione e capacità di stare insieme.
Ogni personaggio è perfetto. I giovani attori sono bravissimi, In particolar modo il piccolo protagonista (Michel Joelsas) e la amica Ana (Daniela Piepszyk), un’attrice nata, spontanea, divertente, vera.


3 commenti:

Solimano ha detto...

Giulia, è la seconda volta che questo film compare qui. La prima volta, è stata Annarita. Non c'è nessun problema a mettere due volte o più lo stesso film, sono tutti film diversi perchè diversi sono gli spettatori (in questo caso le spettatrici...). Difatti, inserendo la tua esperienza, ho riletto quelle di Annarita ed ho notato che c'è forte osmosi ma anche delle differenze. Per le immagini, ho in gran parte seguito la tua linea, soprattutto per un motivo: rilanci continuamente la palla da testo ad immagine e da immagine a testo, un fil rouge che condivido. Però, per le ultime due, mi sono un po' sfogato...

grazie Giulia e saludos
Solimano

Giuliano ha detto...

Grazie a Giulia! Tra l'altro, la formazione di quel Brasile me la ricordo ancora a memoria. Era davvero una squadra per cui tifare, anche se contro c'era l'Italia...

Ribadisco che delle dittature in America del Sud non si parla mai abbastanza. Purtroppo c'è anche chi ne parla bene, e questa manipolazione continua della memoria è una gran brutta cosa.

Anonimo ha detto...

Le letture davvero sono tante e io stessa a volte, quando rivedo un film, osservo altre cose e mi suggerisce alti pensieri. Per questo a volte li vedo più di una volta, quando ovviamente mi sono piaciuti.
Giuliano, (da ex-cestista) io non amo molto il calcio, ma devo dire che le squadre brasiliane di una volta mi piaceva guardarle, perchè erano fantasione e creative.Anche lì molte cose sono cambiate in questo sport.
Saluti a tutti e grazie. Giulia