Solimano
Ho già detto ripetute volte il male che penso dei confronti libro-film. Ma esistono delle felici eccezioni. Per Un maledetto imbroglio, il film di Germi tratto dal Pasticciaccio di Gadda ne ho trovate due e forse una terza, che dovrò approfondire. Molti criticano Wikipedia, a me capita di frequente di trovarci del buono, come un brano di una intervista ad Alfredo Giannetti, un ottimo sceneggiatore che collaborò anche al film di Germi.
Più che un confronto fra un libro ed un film, in quelle poche righe trovo un confronto fra due umoralità diversissime, quelle delle persone fisiche di Gadda e di Germi. Poi, un confronto fra un colto ed un incolto, ma qui bisogna capirsi: Germi era magari incolto dal punto di vista libresco, ma non è il solo modo, ne esistono altri. Preferisco uno (e ce ne sono tanti) che svolga la sua attività manuale con competenza amorosa, quindi creativa, ad un bibliomane solo ansioso di riconoscimento e sempre in cerca della cordata giusta a cui appigliarsi. Come nei blog: se manca l'empatia, il resto non conta nulla, alle faccine nei blog e nelle email preferisco il refuso di una persona amica che va di fretta, però il tempo per quelle due righe lo trova. Gadda e Germi avevano, nelle differenze, un teorema in comune: Roma, sia borghese che popolana. Da questo teorema derivano corollari diversi ma con un rapporto fra loro che chiamerei di cuginanza. Malgrado l'incomprensione e l'insofferenza, comunque più apparenti che reali, ci sono cose nel Pasticciaccio che Germi ha capito in profondità di fatti.
Da un' intervista allo sceneggiatore Alfredo Giannetti:
«Le devo dire la verità, che non si è mai detta. "Un maledetto imbroglio" non è nato né da Germi né da me, è nato da Peppino Amato, il produttore, che - siccome questo libro di Gadda, il "Pasticciaccio" aveva avuto, insolitamente in Italia, un successo editoriale importante (poche migliaia di copie, ma in Italia era già tanto) - propose a Germi di trame un film. (Aveva questo pregio, Peppino Amato: era un uomo ignorante, ma con un senso pratico sbalorditivo, un istinto…) Germi ne lesse metà e poi gli disse: «Senti, ma chi è l’assassino? Io non sono riuscito a capire, sono arrivato a metà. Pieno di parole complicate…» Non l’ha mai letto. Ma la cosa abbastanza curiosa è che per il Pasticciaccio noi abbiamo avuto due Nastri d’Argento, di cui uno per il soggetto originale. Cosa incredibile, ma giusta. E ricordo che Gadda (un uomo timidissimo e simpaticissimo, straordinario) aveva una gran soggezione di Germi, e Germi aveva una gran soggezione di lui. Per cui, mi ricordo, Gadda veniva, vedeva delle scene, e a un certo punto diceva: «Senta Giannetti, che nome avete dato a quel personaggio?» Adesso non mi ricordo che nome era. E lui: «Ah, non si potrebbe cambiare, non so, in Carpedoni?» Lui aveva questa cosa di fare sempre delle associazioni con gli animali. «Perché sembra una carpa. Carpedoni…» E io: «Sì, sì, dopo glielo dico a Germi. Sì, sì, in doppiaggio si può cambiare». Dopo andavo da Germi, alla sera: «Lo sai che ha detto Gadda?» «Cosa ha detto?» «Se potevamo cambiare il nome del personaggio in Carpedoni». «Perché?» «Perché dice che assomiglia a una carpa». «Andassero a fare in culo questi intellettuali cretini!» Germi quando lo vedeva scappava: «Ecco, eccolo là, mandalo via, mandalo via». «Come, lo mando via! È una persona rispettabile, un’autorità, un filologo». Era una persona così garbata, un uomo delizioso.» (da "Pietro Germi. Ritratto di un regista all’antica", a cura di Adriano Aprà, Massimo Armenzoni, Patrizia Pistagnesi, Parma, Pratiche, 1989)
Poi ho trovato un bell'articolo di Emanuela Gutkowski su un sito da me prediletto: il JGS di Edinburgo, il meglio che c'è in rete su Gadda. Nell'articolo si indaga sulle due lingue, quella del libro e quella del film, e se ne mostrano le connessioni e le dissonanze. Proprio come nelle traduzioni da una lingua ad un'altra: a volte la traduzione ricolma di acribìa dell'addetto ai lavori è meno efficace della traduzione di un irregolare. Succede in particolare nei poeti che traducono poeti: un esempio tanto evidente che non ci si bada è quello dei tre sonetti di Shakespeare tradotti da Eugenio Montale, che stabiliscono una nuova entità, non fisica ma comunque vera: una persona che non è Shakespeare, non è Montale, ma trova il modo di essere entrambi. Un addetto ai lavori non ci sarebbe mai riuscito.
Emanuela Gutkowski
Un esempio di traduzione intersemiotica:
dal «Pasticciaccio» a «Un maledetto imbroglio»
Su Journal of Gadda Studies
Se la collocazione temporale slitta (dal 1927 agli anni ’50), quella spaziale non muta. Come già Gadda, Germi rispetta l’etimologia del genere poliziesco alla cui radice, polis, si delinea la città come co-protagonista, teatro naturale di un male oscuro che si manifesta in azioni delittuose. Film e romanzo si muovono, dentro e fuori Roma, tra il palazzo degli ori, abitato da una borghesia ipocrita, e i quartieri poveri, in cui un’umanità diseredata vive di espedienti più o meno leciti; accomuna i due ambienti l’avidità. Parzialmente diverso, nel passaggio dal romanzo al film, è l’intreccio, non soltanto per la soppressione di alcuni personaggi e il differente scioglimento, ma soprattutto per il rapporto che il narratore instaura con il lettore.
Nel romanzo un narratore extradiegetico espone i fatti evitando di anticipare la soluzione dell’intreccio; il lettore si trova cioè su per giù nella posizione di Ingravallo. Il regista concede invece allo spettatore qualche informazione in più. La macchina da presa segue ad esempio Valdarena quando questi entra sulla scena del delitto e riprende lo stupore che, disegnandosi sul suo viso, lo scagiona. La denuncia del marcio nell’individuo, che Gadda ritrae in modo netto, mantiene in Germi la sua veemenza: scoperto il delitto, il primo pensiero del giovane va, non a caso, al denaro. Valdarena non è certo l’assassino, ma lo sdegno per il suo cinico comportamento viene addirittura rafforzato dal regista: con moralismo che la critica cinematografica gli attribuisce all’unanimità, Germi/Ingravallo conclude infatti il suo rapporto col personaggio con una sonora sberla, non trascurando di castigare allo stesso modo Banducci. A Valdarena, scoperto nudo nel letto di Virginia, non viene concesso nemmeno di rivestirsi se non entro i limiti della presentabilità e come a dire: una volta smascherati, non è più necessario ricorrere ad alcuna copertura, nemmeno quella simbolica degli abiti. L’incontro finale con l’immagine a lui speculare dell’ipocrisia, quella del Banducci, avviene, significativamente, in canottiera.
All’inizio del film la macchina da presa inquadra la fontana di Piazza Farnese, sfondo dei titoli di testa. Questi sono accompagnati dalla canzone Sinnò me moro, scritta con la collaborazione di Rustichelli dallo stesso Germi, e cantata da Alida Chelli. I versi espletano una duplice funzione: conducono immediatamente lo spettatore all’interno di un contesto popolare romanesco; e, con il tono straziante che si conviene alle canzoni di ispirazione popolare, anticipa una tragedia sentimentale.
La scena si sposta poi all’interno del principale teatro degli eventi, il condominio. Il guazzabuglio di voci che si sovrappongono è lo stesso del romanzo e la confusione è acuita, nella comicità, dall’uso improprio della pistola (per sparare in aria), con relativa caduta di calcinacci (sulla testa del pistolero). Al di là dell’episodio grottesco, servendosi di uno dei mezzi espressivi mancanti alla letteratura, il sonoro, Germi continua a tenere desta la tensione. Nel corso del film, spesso, nel momento in cui la macchina da presa inquadra Liliana, vittima dell’indifferenza e dell’ingratitudine, o Assunta, complice non ancora smascherata del delitto compiuto da Diomede, ritorna la canzone sentimentale e straziante, innescando quel meccanismo che Peirce definisce «attenzione»: «L’attenzione sorge quando lo stesso fenomeno si presenta ripetutamente in occasioni differenti, o lo stesso predicato si presenta in soggetti differenti».
La musica serve quindi a separare due diverse atmosfere: quella del giallo e quella della commedia. Il codice cui Germi si rifà, scrive Pasolini nella sua recensione al film, è quello sessuale: da una parte i «posti in cui son tutti uomini, maschi», vale a dire i bar, il commissariato, i luoghi di libertinaggio, dall’altra l’universo femminile, mite e sottomesso, di cui diventa simbolo Assuntina, vittima finale (come vittima è Liliana) di un omicidio che non ha commesso.
Il passaggio dalla premonizione alla tragedia, al delitto efferato che non lascia più spazio all’innocenza, è segnalato da Gadda nel passaggio dal primo al secondo capitolo. Germi, a sua volta, chiude anche un capitolo, con una dissolvenza sul portone, a indicare il contrasto tra un prima ancora farsesco e un dopo tragico. L’ultima immagine dell’interno di casa Banducci, prima del ritrovamento del cadavere di Liliana, è un quadro rappresentante il macabro episodio di Giuditta e Oloferne.
Altri elementi, nel film, contribuiscono a svelare alcuni indizi. Al funerale della vittima, una macchina da presa della polizia riprende la processione degli amici e parenti di Liliana Banducci. Siamo in presenza, certo, di un omaggio al cinema neorealista: la macchina da presa svela i complotti, mostra il marito e il cugino della vittima che confabulano pur dichiarandosi a stento conoscenti, ripropone l’immagine di Assunta (assente al funerale gaddiano) che, come nota uno degli inquirenti, «sembra invecchiata». Ma l’espediente di un film nel film, accompagnato dai commenti degli spettatori-poliziotti, instaura al contempo un discorso metacinematografico: un discorso che propone, attraverso le immagini e i suoni, il passaggio dal livello dei significati al gioco di significanti che Gadda elabora con la parola scritta.
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2 commenti:
Er Pasticciaccio: un grande film di un autore che bisognerebbe prendere in mano e leggere tre volte al giorno prima dei pasti.
Che Germi non avesse letto il libro lo sospettavo da sempre, ora ne trovo conferma... (l'ha letto un po' e poi si è stufato). Però è uscito lo stesso un bel film, guarda un po' che scherzo.
(ma io Germi lo preferisco nel Ferroviere).
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