martedì 22 gennaio 2008

Le invasioni barbariche (1)

Les invasions barbares, di Denys Arcand (2003) Con Rémy Girard, Stéphane Rousseau, Dorothée Berryman, Louise Portal, Dominique Michel, Yves Jacques, Pierre Curzi, Marie-Josée Croze, Marina Hands, Johanne-Marie Tremblay, Sophie Lorain Musica: Pierre Aviat, Mozart "Sonata K.381", Haendel, Arvo Part, Françoise Hardy Fotografia: Guy Dufaux (99 minuti) Rating IMDb: 7.9
Solimano
Il Canada non deve essere un posto così freddo come ce lo immaginiamo, se nel 1997 è uscito il libro "La versione di Barney" di Mordecai Richler e nel 2003 il film "Le invasioni barbariche" di Dennys Arcand. Apparentemente, dovrebbero essere molto diversi, visto che l'immortale (posso dirlo?) Barney Panofsky ce l'ha coi francofoni, e Dennys Arcand è proprio francofono. Ma le somiglianze sono maggiori, che ne fossero consapevoli o no i due autori: soprattutto si racconta di una persona anziana che alla fine morirà. Oddio!

E invece no, ho visto pochi film così privi di tristezza, mentre ne trovo a volontà in film d'amore di ieri, di oggi e di sempre, per cui potremmo fare una vista logica col nome "Tristi amori". Ci sono anche personaggi tristi, ne "Le invasioni barbariche", ma si meritano la loro tristezza di mentitori abituali, che non confessano neppure a se stessi quello che pensano. Al di là del rating alto in IMDb, ho notato un certo subbuglio in alcuni commenti che ho sfogliato, evidentemente le code di paglia sono lunghissime.
Sia il libro di Richler che il film di Arcand vengono generalmente etichettati di politicamente scorretti e ci si ferma lì. Non stiano sul generico, dicano chiaramente quello di cui si tratta: la droga, l'eutanasia, la corruzione generale degli enti e particolare delle persone, le università ridotte a diplomifici dove non si sa se siano peggio i professori o gli studenti, i preti, che non credono da tempo a quello che predicano, ma che non hanno alternative, i politici, che gridano alla difesa dell'Occidente dopo la caduta delle Twin Towers, ma che cancellano il ricordo dei milioni di abitanti delle Americhe sterminati dalla civiltà occidentale. Infine, con giustezza, i sempiterni maître a penser che non ne hanno indovinata una negli ultimi decenni, ma che sono disposti ad inventare sempre nuovi -ismi, pretendendo pure che li si ascolti.

Il personaggio che ha capito tutto è Sébastien (Stephane Rousseau), il figlio di Rémy (Rémy Girard), che ha pochi mesi di vita davanti e che definisce il figlio come capitalista puritano, mentre si autodefinisce socialista voluttuoso. Sébastien guadagna tanti soldi facendo a Londra uno di quei misteriosi lavori finanziari sbocciati nell'ultimo decennio e mi ha ricordato una intelligente definizione di come deve essere una multinazionale, definizione con un buon odore di zen: "Prendete un gruppo di religiosi veramente convinti, disposti a tutto pur di convertire gli infedeli, poi prendete un gruppo di gangster efficienti e spietati, infine miscelate bene i due gruppi, ed otterrete una multinazionale".
L'obiettivo di Sébastien è uno solo, chiarissimo, alleviare le sofferenze del padre durante gli ultimi mesi di vita. Per fare questo paga senza perdere tempo, prima che glielo chiedano: dirigenti, sindacalisti e medici dell'ospedale, tutte persone che altrimenti la tirano in lungo adducendo impeccabili motivazioni regolamentari.
Sébastien giunge al punto si portare al letto del padre suoi studenti di anni prima, che ringraziano commossi Rémy per i suoi insegnamenti: sono pagati anche loro. L'amica d'infanzia Nathalie (Josée-Marie Croze), che si droga regolarmente, serve anche lei, perché accudirà il padre con l'eroina (otto volte meglio della morfina). Il modo diretto con cui Sébastien affronta le questioni è efficace, e tutti quelli che mette a libro paga, a loro modo non lo fanno solo per i soldi, ma quasi convinti, perché nella situazione di ipocrisia elevata a sistema uno come Sébastien è il meno contorto.

Ho pensato con amarezza a tanti discorsi moralistici che si fanno ogni giorno, discorsi fatti da persone alle quali l'ultima cosa che interessa è l'efficacia e l'utilità della attività che svolgono, però la morale la debbono comunque fare.
Poi arrivano gli amici, sempre convocati da Sébastien, ma soprattutto arrivano le amiche, perché Rémy è stato un seduttore (o sedotto?) di prima forza, ma anche la moglie di Rémy ora diviene loro amica. Formidabili i pochi minuti in cui un amico che sta a Roma come addetto culturale di non so che racconta a Rémy il nulla ben pagato, insostituibile e regolamentato che sta facendo. L'impressione che ne ho avuto è stata singolare: "Beh, se succede così anche in Canada, vuol dire che noi in Italia non siamo una eccezione, ma solo un caso fra i tanti".

Da che nasce la forza coinvolgente del film, in cui ci si sente immersi come pesci nell'acqua? Dal fatto che tutto il giro che circonda gli ultimi mesi di Rémy è fatto da persone che hanno rinunciato a mentire, che dichiarano i propri errori ed i propri fallimenti, per ciò stesso se ne liberano, come il samurai anziano ed esperto del film di Kurosawa che al giovane che gli chiedeva come facesse ad essere così appropriato in ogni comportamento, rispondeva: "Ho perso tutte le battaglie a cui ho partecipato."
Però Dennys Arcand non usa lo spadone, non va per categorie: è di una tristezza grottesca la scena dell'assistente del vescovo che vorrebbe realizzare soldi con la paccottiglia liturgica ammucchiata che non serve più "perché nel 1966 hanno smesso quasi tutti di venire in chiesa", ma è una figura inaspettata quella di Sister Constance (Johanne-Marie Tremblay) : che non si capisce se crede ancora o no, può darsi che non creda più in Dio, ma certamente crede nelle persone, mettendo in pratica quello che per altri è parola vuota da pulpito.
Si crea una solidarietà fra persone che amano la vita molto più di quanto temano la morte. Tutti temi attualissimi, in tempi in cui il naufragio delle ideologie contiene in sé una ricchezza: la liberazione delle menti, e quindi l'accettazione della vita finché è degna di essere vissuta.

L'eutanasia che Nathalie, la ragazza che ora non si droga più, pratica a Remy, ha una dignità da rito laico senza giaculatorie, è una cosa sofferta ma non triste. E nell'aereo che parte per Londra, Gaelle (Marina Sands) appoggia la testa sulla spalla di Sébastien, che sta guardando fuori dal finestrino, perché Sébastien pensa non più alla troppo perfetta Gaelle, ma a Nathalie, che ha appena smesso di drogarsi. Un finale contradittorio, quindi vivo.
Alcuni cinefili dicono che è un film obsoleto, irrimediabilmente vecchio. Può darsi che con le loro unità di misura abbiano ragione. A me ha dato conferme e smentite che era bene sentissi, soprattutto mi ha dato la sensazione di leggere hic sunt leones sulle vecchie carte, che non si capiva se era più il timore o il desiderio.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi era piaciuto molto questo film e ora, ripensandolo dopo la lettura del tuo post, lo apprezzo ancora di più perché, come sempre, tu aiuti i tuoi lettori a entrare nelle pieghe più riposte del film in questione. Non con la supponenza alla quale ci hanno abituati molti, troppi critici cinematografici, o presunti tali, ma con la partecipazione di uno spettatore attento e curioso. Insomma, questo blog è il nostro Virgilio nel viaggio cinematografico quotidiano! Buona giornata, Annarita ;-)

Giuliano ha detto...

Penso che si possa dirlo: dopo aver visto il film mi sono trovato a cercare tutte le informazioni su MarieJosé Croze. Su di lei non c'è molto, e non è che abbia lavorato molto: un vero peccato.

Solimano ha detto...

Grazie Annarita, meglio Virgilio che Caronte con gli occhi di bragia (che prendesse l'Imidazil!).
Con tutto il rispetto per i tanti professionisti validi, credo sia necessario non dimenticare che il cinema entra non di rado alla grande nei problemi veri di ogni tipo che le persone si trovano a vivere e che non si può liquidare questo aspetto come se si trattasse di un plagio indebito. Può essere che un film sia apprezzato meglio stando vicino alla propria quotidianità che allo schermo (o video, oggi). Difatti, nei cinema di una volta, le seggiole (quali poltrone, seggiole) delle prime file erano lasciate vuote, se non c'era il pienone...
Giuliano, anch'io sono stato impressionato sia dall'attrice Marie-Josée Croze che dal personaggio. Anche Marina Hands, che fa Gaelle, la donna di Sébastienne e Johanne-Marie Tremblay che fa Constance sono notevoli.

saludos
Solimano

Laura ha detto...

La cosa che più mi ha colpito in questo film è come il figlio riesca a ricomporre sotto gli occhi del padre la sua intera vita. Uno specchio che porge al genitore dicendogli " ecco, tu sei stato questo" recuperando (o bluffando) con amore piccole o grandi relazioni che l'anziano ha avuto. La scena più bella (e impossibile nella realtà, ahimé, per una serie di fattori) è la riunione complice delle amanti di una vita che, messa da parte la competizione, accettano i ruoli che furono (moglie compresa) scherzandoci persino sopra consce che la vita è spesso palcoscenico e che nel Grande Copione c'è una parte per ognuno di noi. Il saluto della figlia via internet poi, davvero commovente. L'accettazione totale della vita che è e che, nonostante la morte, continua.
un caro saluto (di corsa)
Laura

Solimano ha detto...

Laura, fai correre gli altri... se puoi!
Il termine Copione appioppato alla nostra parte nella vita mi trova consenziente, si sono fatte delle ricerche in questo senso anche nella operatività delle aziende. Però occorrerebbe essere proteiformi, non fossilizzarsi nella stessa parte, ma fare come Gassman e Randone. che una sera uno faceva Otello e l'altro Jago e la sera dopo viceversa.
E' vero, non ho parlato della figlia perché già mi ero allungato troppo, ma per me l'immagine più bella è quella che li vede tutti raggruppati davanti al laptop a vedere 'sta skipper che sta nel Pacifico.
Sébastien è poi di un tipo di amore raro, poche chiacchiere molti fatti, volti a dar piacere a suo padre. Per il resto, la vita c'è finché c'è, il che non è del tutto lapalissiano.

saludos y besos
Solimano