mercoledì 1 aprile 2009

Pleasantville

Pleasantville di Gary Ross (1998) Sceneggiatura di Gary Ross Con: Tobey Maguire, Reese Witherspoon, William H. Macy, Joan Allen, Jeff Daniels, J.T. Walsh, Don Knotts, Paul Walker, Marley Shelton. Musica: Randy Newman. Fotografia: John W. Lindley (124 minuti) Rating IMDb: 7.5

Barbara

Chi non desidera una vita tranquilla, precisa e ordinata o, per dirla con una parola, chi non desidera una vita piacevole?

Sicuramente la desidera David, ragazzo sensibile e un po’ sfigato che ama da lontano la bella della scuola e non si perde una puntata di Pleasantville, sceneggiato in bianco e nero ambientato nella felice America di fine anni cinquanta (“prima dei Beatles, prima di Kennedy, prima di…” tanto per citare Dirty Dancing). E’ sicuramente molto più piacevole guardare alla tv una mamma intenta a preparare frittelle al miele piuttosto che la propria madre divorziata che litiga al telefono con un padre assente. E’ molto piacevole immaginare una sorella affettuosa che gioisce per il tuo premio in algebra, piuttosto che una gemella un po’ bulla che ti considera un perdente cronico.


Ma quando per magia David si ritrova DENTRO Pleasantville scopre che la vita piacevole ha il suo prezzo.
Non è un caso che Pleasantville sia in bianco e nero: non ci si arrabbia a Pleasantville, non ci si dispera a Pleasantville, non si perde mai a Pleasantville.
Però allo stesso tempo non ci si mette mai in gioco, non si cambia, non si cresce, non si conosce altro che Pleasantville stessa. Non c’è vera gioia, non c’è trionfo, non c’è eroismo. In fondo, se non si perde mai, come si fa ad esultare per le vittorie?

E soprattutto non c’è il desiderio.
Non mi riferisco solo al semplice desiderio fisico, ma al desiderio di scoperta, il desiderio di conoscere e di andare oltre ai propri limiti.
“Cosa c’è dopo Main Street?” chiede Jennifer all’insegnante.
“Tutti sanno che la fine di Main Street coincide perfettamente con il suo inizio” risponde la professoressa ridacchiando.

Con l’arrivo di David ma soprattutto di sua sorella Jennifer qualcosa si rompe in questo asettico equilibrio.
Jennifer non è pavida, chiama le cose con il loro nome, è cresciuta in fretta ed ha vissuto lo sfascio della propria famiglia non fuggendo in un mondo immaginario, ma affrontando la vita con cinismo e baldanza. Jennifer non si fa scrupolo a mostrare le gioie della vita al ragazzo che le piace, alle amiche e anche a sua madre ed innesca così una reazione a catena.
Una curiosità simpatica è che dentro Pleasantville Jennifer viene chiamata Mary Sue. In inglese le fan-fiction, e le sceneggiature in genere, indicano con "mary-sue" il personaggio chiave (che non deve essere per forza il protagonista) oppure quello in cui si rispecchia l'autore.



A questo punto il film diventa visivamente bellissimo.
La contaminazione del giardino dell’Eden o, per essere meno biblici, la perdita dell’innocenza viene mostrata attraverso l’irrompere dei colori nel placido mondo in bianco e nero. E’ uno sbocciare graduale, che parte da una piccola rosa rossa, continua con un palloncino della gomma da masticare e prosegue con auto, ombrelli e alla fine le persone stesse.
Pleasantville si divide tra gente di colore (nel senso vero del termine) e non. I ragazzi cercano i libri che prima erano pieni di pagine bianche. D’altronde in una società senza desideri a cosa servono i libri? La squadra di pallacanestro perde le partite e soprattutto quando qualcuno non ha voglia di fare una cosa, lo dice. Ovviamente questo non può andare bene all’autorità, rappresentata a Pleasantville dal sindaco e dalla sua cricca.



Il film da questo punto perde un po’ di fascino, perché la storia è già vista. Si sa che ci saranno quelli che porranno regole e limiti alla libertà di espressione e quelli che si ribelleranno. Gli intransigenti e i rivoluzionari, niente di nuovo sotto il sole.
Libri bruciati.
Divieti.


Vale però la pena di ricordare che l’atto rivoluzionario più bello lo compirà il timido cuoco-pittore, con un meraviglioso affresco su tutta la parete di un edificio, un murales che denuncia le angherie subite. L’arte come atto di espressione e di denuncia era una cosa lontana anni luce dalla vecchia Pleasantville.



Quello che mi piace di più di questo film è che riesce ad essere ottimista pur senza fornire formule magiche.
Non ci sono risposte definitive al senso della vita e della crescita. E' giusto abbandonarsi alle proprie emozioni, affrontare la disperazione che può conseguirne? Qual'è il modo giusto di vivere? Forse, dice la storia, dobbiamo accettare il fatto che non c'è un modo giusto di vivere, una confezione impeccabile che contenga tutti i vantaggi.
Eppure, nonostante questo, la vita è colorata.


2 commenti:

Solimano ha detto...

Barbara, eppoi dicono che il cinema è finito!
Basterebbe pensare a "Pleasantville", a "Il gusto degli altri", a "Segreti e bugie", a "American Beauty", a "In the Mood for Love" (e potrei fare almeno dieci altri titoli) per rendersi conto che su certi argomenti è il cinema che mette i piedi nel piatto con credibilità, senza scorciatoie utopiche, nostalgie consolatorie e soprattutto senza furbeschi tutto s'aggiusta.
Io preferisco "Pleasantville" a un ottimo film come "Truman Show" perché è più favolistico e più vero al tempo stesso. Con grazia tagliente schioda tanti discorsi che si continuano a fare come se niente fosse: sui rapporti, sull'amore, sul potere. E sulla creatività, che non sta sulla luna ma nella nostra vita di ogni giorno. Non è una roba per addetti ai lavori, per cosiddetti creativi, ma è una facoltà che dà senso alla vita, perché è questo il punto: la vita di per sé non avrebbe senso, non perché è brutta e cattiva, ma perché è occupata nel mantenersi. E allora il senso dov'é? Glielo diamo noi, se vogliamo, ma non forzosamente, glielo diamo con la stessa agevolezza con cui respiriamo. In presa diretta.
Se riuscirò a trovare altre immagini su Pleasantville, farò un post per la vista logica I modi di vedere, perché, quando cominciano ad arrivare i colori c'è da reatare a bocca aperta ogni minuto; i colori come forma di espressione dei pensieri e dei sentimenti.

grazie Barbara e saludos
Solimano

Barbara Cerquetti ha detto...

Sì è vero e la parte in cui arrivano i colori mi lascia strabiliata tutte le volte. Poi hai notato che i colori della prima parte (anni novanta), sono completamente diversi (più asettici e dozzinali) dai colori della seconda parte del film (caldi e pastosi)?

Chissà se glielo hanno dato l'oscar alla fotografia?