martedì 20 maggio 2008

Venezia nel cinema: Morte a Venezia (3)

Morte a Venezia, di Luchino Visconti (1971) Dal romanzo di Thomas Mann, Sceneggiatura di Luchino Visconti e Nicola Badalucco Con Dirk Bogarde, Romolo Valli, Mark Burns, Nora Ricci, Marisa Berenson, Carole André, Björn Andrésen, Silvana Mangano, Leslie French, Franco Fabrizi, Antonio Appicella, Sergio Garfagnoli, Dominique Darel, Masha Predit Musica: Adagietto dalla Sinfonia No.5 e Sehr Langsam Misterioso dalla Sinfonia No.3 di Gustav Mahler, inoltre musiche di Franz Lehár, Modest Mussorgsky (Ninna Nanna) e Ludwig van Beethoven Fotografia: Pasqualino De Santis Scenografia: Ferdinando Scarfiotti Costumi: Piero Tosi (130 minuti) Rating IMDb: 7.6
Solimano
Gustav von Aschenbach (Dirke Bogarde) in quei giorni, oltre a camminare per Venezia dietro alla famiglia dei polacchi, perché affascinato dal giovane Tadzio (Björn Andrésen), cambia radicalmente il suo modo di vita. Può darsi che sia l'influenza delle opinioni del suo amico Alfred (Mark Burns), che sosteneva che l'arte non è purismo espressivo e moralità di vita, ma richiede la presenza -quasi il dominio- del male, forse anche della morte. La scoperta in sé di tendenze omofile prima non consapevoli è la causa scatenante di una scelta che avviene repentinamente: cambiare proprio abbigliamento e cambiare anche il proprio aspetto fisico, facendosi tingere di nero i capelli e truccandosi il viso (immagine sopra il post). Così appare grottescamente più giovane, proprio come l'eccentrico che aveva incontrato quando era sceso dalla nave "Esmeralda".


Dopo tanti silenzi e tante menzogne, Aschenbach apprende la verità da un impiegato di banca: a Venezia c'è il colera, che provoca morti ogni giorno. Nei campielli e nelle calli non ci sono solo i manifesti o la calce, ma anche dei falò fumiganti di immondizie che non vengono portate via ma bruciate sul posto. Aschenbach continua a seguire i polacchi, ma cerca di non farsi notare, lo si vede nelle due immagini sopra, in cui si gira verso i polacchi solo quando stanno andando dall'altra parte.



Singolare è l'atteggiamento di Tadzio, che è consapevole del pedinamento di Aschenbach, e ogni tanto lo guarda con sprezzo o irrisione, ma con uno sguardo serio, come se sapesse perfettamente quello che sta accadendo.


Nella calle, che è sempre oscura perché molto stretta, ora ci si vede a stento a causa del fumo dei falò, e Tadzio si volta due volte per verificare che ci sia Aschenbach.


Finché Aschenbach si trova al buio, non in vista di Tadzio, nel campo in cui era già stato qualche giorno prima, quello dove spandevano la calce e dove il venditore ambulante non gli aveva risposto. Aschenbach si sente male e si accascia vicino alla vera da pozzo al centro del campo.

Ma non muore lì, morrà da solo di giorno, in pieno sole, sullo sdraio in mezzo alla spiaggia del Lido. Sul viso, gli si sta sciogliendo il cerone con cui si era imbellettato.

P.S. Inserisco qui sotto l'immagine di un piccolo dipinto di Francesco Guardi. E' un dipinto non molto noto, ma penso che Luchino Visconti lo conoscesse.

Francesco Guardi: Incendio a San Marcuola (1789)
Alte Pinakothek, Monaco

1 commento:

Giuliano ha detto...

Quello che mi dispiace di “Morte a Venezia” (il romanzo e anche il film) è che si finisca per parlare quasi soltanto dell’omosessualità. Così facendo si riduce il romanzo a ben poco, diventa una storia banale come tante altre e non si capisce perché lasci malessere e nostalgia anche in chi omosessuale non è. La stessa cosa capita con “Lolita”: anche qui ci sono tremila commenti – non sull’omosessualità ma sulla pedofilia, quasi la stessa cosa. E poi ci sono quelli che vanno a scavare nella biografia di Thomas Mann, o di Nabokov, o magari di Lewis Carroll: tutte cose lecite, per carità, ma alla fine cosa ne resta?
Diceva Orson Welles (un giorno di questi porto qui l’intervista) che gran parte delle nostre storie si possono ricondurre al mito di Faust. Il desiderio di fermare l’attimo, di cogliere la bellezza, o la forza; di desiderare che il mondo si fermi. E’ questo che ci affascina nella storia di Tadzio, o di Lolita, o della bambina Alice: che diventiamo vecchi, e non possiamo farci niente. E’ l’enigma della Sfinge in Edipo... Il concetto è espresso benissimo da Mann con la tintura per capelli di Aschenbach; ma è un concetto molto duro, troppo duro e troppo ruvido, di quelli che fanno male quando ci caschi sopra. Meglio accettare i depistaggi, quelli che l’autore ha messo così graziosamente nella storia, per attutire la botta.