sabato 5 aprile 2008

Urla nel silenzio

The Killing Fields, di Roland Joffé (1984) Sceneggiatura di Bruce Robinson Con Sam Waterston, Haing S. Ngor, John Malkovich, Julian Sands, Craig T. Nelson, Spalding Gray, Bill Paterson, Athol Fugard, Graham Kennedy, Katherine Krapum Chey Musica: Mike Oldfield Fotografia: Chris Menges (141 minuti) Rating IMDb: 8.0

Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce

Ricordo che quando uscii dal cinema dopo aver visto “Urla nel silenzio” pensai alla fortuna che avevo avuto a nascere in questa parte della terra. Sì, nascere in un luogo o in un altro è un caso, non è un merito e mai come allora ne avevo preso coscienza. Capii che però dovevo diventare “cittadina del mondo” e non chiudermi guardando solo i problemi che mi erano vicini. E che dovevo guardare al mondo degli uomini in carne ossa, l'uomo che soffre, l'uomo che è vittima di sopprusi, senza più ideologie che a volte offuscano e ingabbiano il pensiero.

E questa coscienza non mi ha mai più abbandonata.

«Urla del Silenzio», uscito nel 1984, racconta la storia dell’ex corrispondente del New York Times, Schanberg, che fa di tutto per salvare il suo amico, all’inizio degli Anni '70, dopo la conquista del potere da parte dei Khmer rossi di Pol Pot. In quegli anni, nel nome di un comunismo nazional-rurale e autarchico, gli intellettuali o presunti tali venivano spediti a lavorare nei campi, in condizioni ai limiti della sopravvivenza. Fu così avviato un genocidio che, insieme alla repressione sistematica di ogni opposizione, cancellò tre milioni di cambogiani nel giro di pochi anni.
La storia raccontata dal film, che riproduce la reale vicenda, racconta come Dith, un laureato in chirurgia all’inizio guida e interprete per Schanberg, riesce a portarlo in salvo quando i Khmer rossi iniziano la caccia allo straniero, portandolo al riparo all’ambasciata francese nell’aprile del 1975. Solo il giornalista del Times, però, riesce a prendere l’aereo per gli Stati Uniti, e il suo assistente finisce nei campi di lavoro, una volta scoperto che il suo passaporto era falso e che è cambogiano.

Per lui, come per molti altri suoi connazionali, inizia il terrore.

In quel periodo due milioni di uomini, donne e bambini vengono assassinati nei campi di lavoro Khmer. Ordine dato: la rieducazione. Ogni diritto è annullato, domina l'arbitrio cieco e casuale le vendette, le esecuzioni sommarie, gli eccidi, le rapine.

Dith Pran è separato dall'amico occidentale e viene avviato a un campo di "rieducazione" dove è vietato far capire che parli Francese, è vietato portare gli occhiali, è vietato confessare di possedere un titolo di studio. Chi lo fa cade nelle mani degli apparatcik dell'Anka (il famigerato partito comunista cambogiano) e la sua fine è segnata. Non c’è possibilità di perdono, ma solo la sicurezza di una morte atroce.

La denuncia del film è forte: i Khmer Rossi sfruttano e piegano il corpo, ma vogliono disintegrare la personalità, cancellare brutalmente ogni ricordo dalla memoria degli uomini. Come non ricordare i campi di concentramento nazisti? Essi perseguono questo scopo scientemente e metodicamente. Inizia l'Anno Zero della Cambogia: niente ricordi, niente rimpianti.

Il Partito ha sostituito Dio. Il Partito provvederà ad ognuno, creerà una società di eguali veramente giusta.

Si lavora sotto la minaccia di un fucile, e, quello che è peggio, è che i bambini, che non hanno né memoria né rimpianti fungono da giudici e da carnefici. Indicano con implacabile determinazione le vittime. Ispezionano le mani: discriminano e condannano quelli che le hanno lisce, poiché non hanno mai conosciuto il lavoro materiale.

Finalmente Pran riesce a fuggire, e qui una delle scene più drammatiche del film: mentre sta percorrendo un sentiero attraverso le risaie giunge ad un acquitrino putrido disseminato di alberi disseccati e scheletrici. Cade in una pozza: nel rialzarsi si accorge di essere circondato da una sterminata distesa di teschi, gambe, braccia. Una mattatoio immondo.

E’ solo, il cielo azzurro sopra di lui, la morte orribilmente visibile su quel sentiero che dovrà percorrere per arrivare alla sua salvezza. Il desiderio di sopravvivere per raccontare prevarrà.

Poi il colpo di scena: incontra un capo Khmer legato al proprio villaggio, malvisto dal partito. Ne acquista la fiducia, ne cura il figlioletto e tenta di salvarlo al momento della resa dei conti all'interno dell'Anka. Non ci riuscirà, ma la fuga lo porterà finalmente alla libertà, ai confini della Thailandia.

Siamo nel 1979.
Schanberg, tornato negli Usa, vince il Premio Pulitzer, denunciando le responsabilità del governo americano nella regione. Ma non dimenticherà mai l’amico e ritira il premio a suo nome perché Dith non sia dimenticato, perché le urla del suo coraggio vivano nella memoria.

Il film di Roland Joffè, del cui cast fanno parte tra gli altri John Malkovich, Julian Sands e Sam Waterston, ha vinto tre premi Oscar: fotografia, montaggio, migliore attore non protagonista (Haing S. Ngor nel ruolo di Dith Pran).
Pochi giorni fa Dith Pran è morto, la notizia è stata data proprio da Schamberg.
E’ morto negli USA. Dopo che la sua famiglia fu massacrata dal regime rosso di Pol Pot Dith tornò a lavorare per l’amico americano, diventando un grande fotografo di guerra.

Con questo personaggio scompare un altro grande nome del giornalismo vero, se ne va un pezzo di storia dell’informazione del XX secolo, fatta da uomini capaci di documentare le tragedie e denunciare anche quei governi che molto spesso hanno chiuso gli occhi. Dith se ne andato in silenzio, colpito da una malattia che non perdona, con dignità ed umiltà, qualità che lo hanno accompagnato per tutta la sua vita.

E' volato via a 65 anni, con un solo grande rimpianto, quello di non avere visto Pol Pot processato e chiamato a rispondere dei due milioni di innocenti.

Di quegli anni, e di quest'uomo, il mondo si era largamente dimenticato, distratto da altre guerre e altre ondate di sangue. Dith Pran non lavorava più da tempo, corroso da un tumore al pancreas. Ma senza di lui, senza il collega americano Sydney Schanberg anche l'olocausto polpottiano sarebbe rimasto oscuro. E i due milioni di morti sarebbero stati licenziati come una montatura anticomunista, secondo la stessa legge del revisionismo che oggi minimizza o nega addirittura la shoah ebraica.
Questi uomini e gli orrori di cui ci hanno lasciato testimonianza non vanno dimenticati.

8 commenti:

Giuliano ha detto...

Anni fa parlavo con un'amica di queste cose (lei molto più a sinistra di me) che mi disse: "I dittatori sono tutti uguali".
Ovviamente, non era una frase qualunquista.
E' una verità pratica, di queste cose non si parla mai, si preferisce dare la colpa a questo o quel sistema politico, economico, religioso.
Nellla storia abbiamo avuto efferati dittatori cattolici, islamici, repubblicani, di destra, di sinistra: bisognerebbe sempre aggiungere "sedicenti" come si faceva per le BR. O magari "pseudo"...
Io salterei queste definizioni, e andre direttamente al sodo come fece Joseph Conrad con "Cuore di tenebra", o Stevenson con "Mr.Hyde".
Questo film ci ricorda una delle peggiori dittature della Storia, le montagne di teschi fanno rabbrividire... Mi chiedo cosa abbia a che fare tutto questo orrore con i movimenti ottocenteschi che rivendicavano migliori condizioni di vita per gli operai, e concludo che non hanno niente a che fare.
Così come l'Inquisizione o la strage degli indiani d'America non avevano niente a che fare con il Vangelo.
Ma questi sono discorsi lunghissimi...
Grazie a Giulia per aver ricordato questo film e questa storia.

PS: invece so che il nazismo e il fascismo, nelle loro teorizzazioni, avessero molto a che fare con quello che è poi seguito nella messa in pratica: ma anche questo è un discorso grosso...

gabrilu ha detto...

Dico subito che sono molto d'accordo con quello che ha scritto Giuliano nel suo P.S., ma è vero, il discorso è grosso e non lo si può sviluppare qui ed ora..
Il post di Giulia è bellissimo, l'avevo già apprezzato leggendolo sul suo blog.
Hai fatto benissimo, Giulia, a ricordare questo film, lo conosco bene anche io, lo vidi quando le vicende che vi sono rievocate erano ancora molto vicine. Hai fatto bene soprattutto a ricordare i protagonisti reali di quella storia.
Mi ha molto colpita quello che dici all'inizio del post, e cioè che uscendo dal cinema pensavi alla " fortuna che avevo avuto a nascere in questa parte della terra".
Da parte mia penso non solo questo, ma più si scoprono i pentoloni puzzolenti di ciò che accadeva dietro la cosiddetta Cortina di Ferro, penso anche a quanto --- più specificatamente -- mi sento fortunata ad essere nata da questa parte e non dall'altra (del Muro, della Cortina). Con tutto quello che si può dire della Nato, del Piano Marshall, dell'alleanza con gli Usa, delle stragi di Stato, dei Servizi Segreti deviati, della sudditanza e chi più ne ha più ne metta, più approfondisco la storia della ex URSS e dei Paesi dell'Est suoi satelliti (Ungheria, Cecoslovacchia etc.) e i drammi che questi paesi hanno vissuto cadendo se non dalla padella nella brace cmq a mio parere da una padella ad un'altra padella più mi sento fortunata a esser capitata di qua e non di là.
E ringrazio il Fato, la Sorte, il Caso, il Destino che quando i Grandi si riunirono a Yalta e si spartirono i territori, l'Italia non sia capitata sotto l'ala protettiva del compagno Stalin.
Scusate la lunghezza, ma ci sono film e post che fanno riflettere, e se si riflette è difficile, poi, mantenersi nei limiti.

Giuliano ha detto...

Penso anche a tutti quei discorsi fatti da certi "politici" delle nostre parti, secondo i quali il numero degli immigrati nel nostro Paese dipende dalle scelte di questo o qul governo italiano.
Come se chi fugge da una situazione del genere, che sia Cambogia o Sudan o Sierra Leone, stia lì a pensare se in Italia c'è la Bossifini o se l'abbiamo abolita...
(nel mio PS di sopra manca una parola, penso che si capisca lo stesso)

Anonimo ha detto...

Giuliano, Gabrilù, avete colto molto bene quello che era lo spirito del post che ho scritto ricordando il film e le persone che sono dietro a questo film. E sono d'accordo con il disocrso che non si può essere indifferenti nei confronti di chi ancora oggi fugge da situazioni analoghe che preferiamo dimenticare. Grazie. Ribadisco che è veramnte un piacere collaborare con voi, Giulia

Habanera ha detto...

Ricordo bene questo film, è uno di quelli che non si dimenticano.
Leggendo le parole di Giulia ho provato la stessa sensazione di terrore che mi sconvolse quando vidi il film anni fa. Mi terrorizza la ferocia inimmaginabile di cui sono capaci gli esseri umani verso altri esseri umani e che non riguarda solo i dittatori ma anche le migliaia di persone che con sadica voluttà mettono in pratica i loro ordini. E' la pulsione al male -più o meno manifesta- il vero male dell'umanità, e le ideologie politiche, i fanatismi religiosi, le guerre, sono solo dei paraventi, delle scuse per dare libero sfogo a un'aggressività ferina e primordiale. Tutta la storia dell'umanità gronda sangue e la pulsione al male si manifesta in mille modi diversi, dal genocidio alla crudeltà quotidiana verso le donne, i vecchi, i bambini, gli animali. Anche in questo momento, mentre scrivo queste parole, in qualche parte del mondo qualcuno sta morendo per l'ingiustificata ferocia dei suoi simili, spesso nella più placida indifferenza dei nostri bei paesi democratici.
H.

Solimano ha detto...

Il punto è l'aggressività. Che fare dell'aggressività, che è inerente all'essere umano ed anche agli animali. Non credo al peccato originale, credo a Darwin, Lorenz, Laborit. La sopravvivenza del più adatto vuol dire anche che chi di aggressività ne aveva meno scompariva. Giustamente si è detto che il dottor Jekill ha bisogno di mister Hyde, che non è la scimmia sulla schiena. L'aggressività occorre, come prima cosa, conoscerla e riconoscerla in sé (chi nega di averla in genere mente inconsciamente o deve preoccuparsi, perché significa che la sua aggressività la rivolge contro sé stesso). Una volta conosciuta, riconosciuta ed accettata il problema è come utilizzarla, ad esempio si possono scrivere più di 300 post in un anno...
Credo che il buon selvaggio di Rousseau di guai ne abbia combinato tanti, lo stesso Pol Pot voleva un mondo perfetto. Si è visto, il mondo perfetto. Ma nulla è a suo modo più perfetto di un regime dittatoriale, in cui, ad esempio, c'era una spia ogni sette abitanti (in Romania e in Albania era così). Quando si nega il confine interno con l'aggressività propria, il mondo si divide in buoni e cattivi, e i cattivi o vanno convertiti o vanno sterminati.

saludos
Solimano
P.S. Condivido le argomentazioni di Gabrilu. Ma sono probabilmente più radicale di lei: Stalin è un corollario, il baco c'era già in Lenin, anche prima.

gabrilu ha detto...

Solimano sono d'accordissimo. Poi figurati, in questo periodo che sono immersa fino al collo nella russitudine, nella complicatissima trama della storia di quel Paese vedo fili che partono da molto,molto, molto lontano...

Anonimo ha detto...

Sono d'accordo con te su tutto. Sottolineo quanto sia importante riconoscere in sè l'aggresività e non vederla solo nell'altro, chi nega di averla la rivolge non solo contro se stesso, ma la maschera usandola contro gli altri. Quanta aggressività c'è travestita da bene... E soprattutto guai chi crede di avere "il bene" in tasca da imporre agli altri. Giulia