Elephant, di Gus Van Sant (2003) Sceneggiatura di Gus Van Sant Con Alex Frost, Eric Deulen, John Robinson, Elias McConnel, Jordan Taylor, Carrie Finklea, Nicole George, Brittany Mountain, Alicia Miles, Kristen Hicks, Bennie Dixon, Nathan Thyson, Timothy Bottoms, Matt Malloy, Ellis Williams Musica: Ludwig van Beethoven: Adagio sostenuto dalla sonata "Al chiaro di luna", Bagatella per Elisa, Hildegard Westerkamp, William S. Burroughs, Acid Mothers Temple, Frances White Fotografia: Haris Savides (81 minuti) Rating IMDb: 7.3
Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce
Non guardo più la televisione... l'ho spenta come cura e vedo film. L'ultimo che ho visto è Elephant di Van Sant.
Un giorno qualunque nella classica periferia statunitense. Una una normalissima giornata in una scuola americana. Ed è nella normalità di tutti i giorni che può succedere in modo imprevedibile qualcosa che può sconvolgerci e lasciarci senza parole. Forse questo ci voleva comunicare Van Sant, il regista di Elephant: è alla normalità che dobbiamo guardare, là dove nessuno guarda e tutto può accadere a volte nella nostra completa disattenzione. Forse la cosiddetta "normalità" si sta ammalando e i primi a farne le spese sono i giovani. Noi adulti siamo distratti, spesso assenti, proprio come nel film in cui i giovani sembrano vivere in un mondo a parte...
Il titolo si ispira ad un’antica parabola buddista: tre ciechi, toccando chi l’orecchio, chi la zampa, chi la proboscide di un elefante, sono convinti di capire la vera natura dell’animale, che diventa di volta in volta un ventaglio, un albero, una corda, un serpente, una lancia…Nessuno di loro può vederne l’insieme e, quindi, la verità.
Nel confrontarci col male, con questo pachiderma enorme, ciascuno di noi si comporta come uno di quei ciechi. Crede di poterlo spiegare soltanto perché ne ha conosciuto una singola parte o un aspetto circoscritto. Crede di capire come è fatto, sulla base di ciò che ritiene di aver capito. Ma questa impresa si risolve in un fallimento. Per quanto grande sia ciò che vorremmo descrivere, e per quanto ci sforziamo di coglierne i dettagli, di fronte al male, alla sua mole imponente, all’insorgere improvviso della sua forza, siamo tutti ciechi. Crediamo di sapere e non sappiamo nulla, e per la nostra presunzione non accompagnamo, non affianchiamo chi ci sta accanto e lo lasciamo solo.
In Elephant l’indagine psicologica dei personaggi è volutamente assente. Conosciamo il biondissimo John e la sua maglietta gialla con l’icona del toro spagnolo, che ha a che fare con un padre etilista di cui deve essere responsabile.
Conosciamo Elias, alto, magro e che gira facendo fotografie e Benny con la canottiera gialla e le treccine rasta, e tanti altri ma di loro sappiamo ben poco a causa degli scarni dialoghi e relazioni.
Ogni personaggio viene presentato sorpreso nella sua vita quotidiana. C'è chi vive l'amore acerbo dell'adolescenza, chi si sente brutto e inadeguato, ci sono le ragazze anoresiche assillate dalla loro bellezza. Sono storie così comuni, ragazzi come tanti, felpa e scarpe da ginnastica.
Van Sant nel girare il film adotta una tecnica sofisticata: macchina in spalla segue e precede i personaggi dentro e fuori la scuola: spazi vuoti, entrate e uscite che tracciano un labirintico avvicinamento alla crisi omicida del finale.
Ognuno di loro non sembra immerso in un contesto realmente “sociale”, i rapporti appaiono frammentati in un quadro complessivo refrattario a qualsiasi idea di unità. Individui qualunque, non veri e propri personaggi. E il regista fa uso del piano sequenza, ovvero una ripresa in continuità e in movimento che segue il soggetto senza operare tagli, stacchi di montaggio, ma anche quasi sempre del grandangolo, un obiettivo che dilata gli spazi isolando ulteriormente le figure dallo sfondo, facendole apparire minuscole rispetto a un contesto di volta in volta sempre più dispersivo.
La realtà che viene mostrata in Elephant, inoltre, non è quella scritta da uno sceneggiatore e messa in scena dal regista, ma è rielaborata dagli interpreti del film – dei veri liceali di Portland – a partire da un canovaccio di situazioni e suggestioni messo a punto da Van Sant. Ai ragazzi è stato chiesto di improvvisare situazioni assolutamente normali, ordinarie su cui irrompe l’inaspettato e incontrollato precipitare degli eventi, la violenza, la morte.
Il male in genere viene sempre dall’altro, arriva dall’esterno. Il cattivo è un diverso, un emarginato. E su questo diverso, su questo colpevole, il pubblico può scaricare le sue paure e le sue responsabilità. Ma alla Colubrine School, e nel film di Van Sant, gli studenti della tranquilla cittadina di provincia saranno massacrati da uno di loro, dai figli di quello stesso benessere. Non c’è più il mostro, la lotta del non-integrato contro chi lo emargina: ciò che resta è l’atroce implosione del sistema su se stesso.
Uccidono per noia e sazietà, uccidono il proprio uguale, se stessi. Il regista rifiuta ogni spettacolarizzazione, ci offre un film disabitato, straniante, inchiodando il nostro sguardo sul nulla che circonda questi ragazzi. Vediamo nel film una serie interminabile di corridoi (un vero e proprio labirinto), divisi da stanze più o meno grandi, spesso vuote. Emblematica la scena di una delle ragazze seguite, Micelle, quando entra nella palestra: Van sant la riprende mentre cammina in uno spazio che sembra enorme, completamente vuoto, interminabile, come fosse un deserto: tutto è pulitissimo, nitido, sterile, asettico. La musica elettronica (quasi impercettibile) contribuisce a dare un sensazione di irreale.Non c’è traccia di passato né di futuro, non ci sono adulti che guardano che partecipano: giovani e adulti sembrano appartenere a due universi completamente diversi, troppo lontani. Ed è in questo oggi senza passato e senza futuro che il niente domina la scena E anche la morte è ridotta a gioco: “Dobbiamo soprattutto divertirci” dicono i due assassini prima di cominciare.
Elephant non è il solito film violento. La violenza che viene raccontata è svuotata d'intenzionalità ed immotivata, e proprio per questo ancora più intollerabile. Una situazione in tutto e per tutto simile a quella descritta appunto da Hannah Arendt, con riferimento al criminale nazista Adolf Eichmann: “quando i moventi diventano superflui, allora il male diventa banale”.
Sempre di più i luoghi che abitiamo sono anonimi, senza anima, la scuola soprattutto nella fretta di travasare contenuti si dimentica che alla base di ogni sapere ci deve essere dialogo e relazione, altrimenti è un sapere vuoto, arido che non arricchisce, ma che allontana, che non scalda cuori, ma li raffredda.
Forse se non ci fosse stata davvero la strage alla Columbine, la scuola americana in cui due studenti fecero irruzione armati fino ai denti facendo fuco all'impazzata su compagni ed insegnanti, non avremmo creduto alla furia sanguinaria di questo film. Ed invece è accaduto e non solo quella volta. La realtà ferisce l'immaginazione. E sono ferite che non si rimarginano.
Questo Elephant, vincitore dell'ultimo festival di Cannes, sembra la naturale estensione del bel documentario premio Oscar di Michael Moore, Bowling for Colombine- Film indipendente, rifiutato da Hollywood perché ritenuto privo di requisiti commerciali, Elephant è andato al Festiva! di Cannes e ha vinto i due premi più ambiti: Palma d’oro e Premio per la miglior regia.
sabato 14 giugno 2008
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3 commenti:
Giulia, forse ho ecceduto un po' con le immagini, ma mi seccava non metterle, visto che erano belle...
Fammi sapere ogni inesattezza o lapsus, che provvederò.
Con questo sono 13 i film tuoi che abbiamo pubblicato qui, e Gabrilu è a quota 21 (per il momento).
Siamo molto soddisfatti di queste sinergie fra blog, e continueremo su questa strada anche con altri: esperienze e voci diverse sono del tutto coerenti con quello che ci proponevamo fin dall'inizio.
grazie e saludos
Solimano
E' un film che da solo non avrei mai visto, il nome Elephant fa un po' di confusione con altri film e fa pensare ad altre cose. Ma questo è un argomento - purtroppo - di grande attualità.
Grazie a Giulia per la segnalazione!
Tutto assolutamente bello Solimano... sono contneta anch'io di lavorare in sinergia con voi, questo mi incentiva molto.
E' un film tosto e ci ho messo un po' ad entrarci, non capivo all'inizio perchè affrontassequesto tema così, ma poi ci sono entrata dentro e ho capito che era l'unico modo per affrontarlo, senza commenti, senza spiegazioni, così nudo e crudo... Abbiamo troppo spesso la tentazione della spiegazione facile o peggio ideologica di fatti che sono molto complessi e difficili da decifrare. Giulia
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