Nicola
Non voglio (né posso) parlarvi filologicamente, né storicamente, di questo piccolo capolavoro figurativo, che porta nel suo pomposo soprannome ("la Cappella Sistina bolognese") i suoi pregi, e anche i suoi limiti. Vorrei seguirlo, invece, come se fosse un film.
Titoli di testa: opera, autori e committenti. La cappella di Santa Lucia fa parte del complesso di S. Giacomo Maggiore, chiesa, monastero e fulcro religioso dell'area urbana un tempo occupata dalle residenze dei Bentivoglio, durante gran parte del '400 famiglia egemone in Bologna. Alla fine del 1505, al crepuscolo del suo dominio, Giovanni II Bentivoglio commissionò gli affreschi ai suoi pittori di corte: il raffinato Francesco Francia, il post-ferrarese Lorenzo Costa e, a cavallo della conquista della città da parte di Giulio II della Rovere (uomo d'arme e papa), da Amico Aspertini -pittore fantasiosamente reazionario- e aiuti.
I dieci quadri narrano i fatti salienti nella vita terrena di Santa Cecila martire: a sinistra dell'altare il primo episodio ci mette in medias res col matrimonio tra Cecilia e Valeriano; la vicenda procede mentre lo spettatore retrocede verso l'ingresso della cappella, quindi passa sulla parete destra e si chiude con la sepoltura della martire, a destra dell'altare. Il tempo narrativo non coincide con quello esecutivo: le "giornate" si muovono dal fondo della chiesa verso il suo ingresso, così che il Francia esegue gli affreschi I e X, Costa il II e il IX, gli aiuti di Aspertini i centrali III, IV, VII e VIII, mentre maestro Amico dipinge in proprio V e VI, su cui ci soffermeremo più sotto. Inserisco anche le coordinate della vicenda narrata: Cecilia fu messa a morte nel 222 d.C., per ordine del praefectus urbis Almachio; l'apologia a cui gli affreschi si ispirano è una più tarda Passio del V secolo.
I-Il matrimonio della cristiana Cecilia e del pagano Valeriano viene rappresentato dal Francia con graziosi e dolci modi umbro-toscani in una bella cornice architettonica e di paesaggio.
II-Non sa, Valeriano, che Cecilia ha votato corpo e anima a Dio. Fatto è che lo sposo si converte pure esso, con la mediazione di papa Urbano, ciò che ci appare nello stile leggermente più ferrarese (teste piccole, tratto un tantino più spigoloso) del Costa. Il cavaliere sullo sfondo, leggermente sulla destra, è sempre Valeriano, ritratto mentre chiede informazioni su dove trovare Urbano a un villico pedone. Questa rappresentazione mediante sovrapposizione degli episodi del tempo narrativo è abbastanza comune nella pittura quattrocentesca e ulteriore. Vedremo un diverso armamentario nell'Aspertini.
III-Gli aiuti di Aspertini tengono abbastanza fede allo stile dei pittori che li hanno preceduti nell'informarci sul battesimo di Valeriano.
IV-Gli stessi, o altri, aiuti ci mostrano un angelo che benedice Valeriano e Cecilia. Il cinefilo vedrà nel bacellone che avvolge l'angelo l'anticipazione di quelli utilizzati dagli extraterrestri per impadronirsi dei corpi terrestri nell'Invasione degli Ultracorpi, mentre il cultore di pittura sacra li riconoscerà come tarde incarnazioni di simili mandorle mistiche medioevali.
V-Valeriano e il fratello Tiburzio, convertito a sua volta, vengono messi a morte per decreto di Almachio. Questo affresco è dell'Aspertini e si vede: non si respira più aria bolognese, nè umbro-toscana, anche se tracce di atmosfera padana, soprattutto nel paesaggio, non mancano. Cinematograficamente, l'Aspertini -in ciò seguendo attraverso il Pinturicchio una lunga tradizione- ricorre all'effetto 3D, facendo alcuni particolari a rilievo in stucco: lo scorpione nero sulla bandiera, il capitello dorato della colonna, alcune parti d'armi. Lo scorpione alludeva ai pagani, ma doveva far risuonare nei contemporanei tutta una serie di allusioni (gli ebrei, gli eretici, il demonio, il segno zodiacale). Lo stile, i volti soprattutto, è qui più simile a quello nordico (tedesco) e un visitatore abbastanza sprovveduto (io) cercherà qualche somiglianza coi fiamminghi più famosi. Il filologo riconoscerà invece nel castello a mare sullo sfondo la copia di un identico, ma terrestre, castello di Durer, che era stato a Bologna attorno al 1504.
Un discorso a parte andrebbe fatto sulla rappresentazione della classicità, qui esemplificata dalla colonna e dalla statua in cima ad essa. E' una classicità che Aspertini conosceva di prima mano, ma con cui aveva un colloquio, vien da dire, anti-umanistico: non dialogo tra grandi spiriti, modernità del passato; ma piuttosto, quasi romanticamente, discarica di materia e forme. Per esempio, le grottesche pompeiane sulla camicia rossa del giovane milite col grande scudo.
Lo scudo in sè, poi, è del tutto incongruo, parendo di marmo, con tanto di bassorilievo ornamentale: l'Aspertini ci fa un giovane in carne e ossa, con scudo da statua. Il bassorilievo, si noti, è un flash-back: Tiburzio e fratello vi appaiono inginocchiati di fronte a un giudice, evidentemente prima della presente esecuzione.
VI-La pietosa Cecilia s'incarica di seppellire Valeriano e il fratello, violando -non diversamente da Antigone- un decreto dello stato. Notiamo di passaggio la natura morta a base di ossa, ulteriori bassorilievi d'ispirazione romana e un Castel Sant'Angelo a mare, sullo sfondo. La bizzarria dell'Aspertini si manifesta tutta nel flash-forward in basso a sinistra, che riporto qui sotto.
In uno scatolotto viene rappresentata da piccoli personaggi, quasi lillipuzianamente, la scena che vedremo poi nel quadro VIII, avente al centro Cecilia che bolle in un pentolone. Ora (ma mi appello all'intelligente erudizione di Solimano), mi pare che questo stratagemma cinematografico, oltre che poco usato al cinema (che per ragioni di realismo perferisce il flash-back, ma qui siamo invece in ambito profetico), sia del tutto inusitato in pittura. Nuovo, eppure -in un certo senso- medioevale. [Ipotizzo che lo scatolotto riporti un sogno della santa, ma attendo la mostra sull'Aspertini che s'inaugurerà a settembre per saperne di più].
La scena è più movimentata di quella poi dipinta a dimensione umana. Vi si trovano più personaggi, comprese alcune signore velate in maniera forse islamica; alcuni dei quali si sporgono dalle grottesche pompeiane (le strutture in legno che circondano il luogo dell'azione), come dovevano sporgersi, da balconi all'uopo edificati, i signori di rango del Rinascimento in occasione delle feste o di esecuzioni particolarmente spattacolari.
Un altro flash-forward in forma di bassorilievo si vedeva, fino ai disgraziati restauri del 1961, sul cubo di marmo appoggiato sopra lo scatolotto: Cecilia, a piedi, veniva arrestata da eleganti cavalieri romani in vesti quattrocentesche.
Nel caos compositivo sempre ricercato dall'Aspertini, inimicissimo dei triangoli e delle linee rette, si possono poi trovare mille altri dettagli. L'accostamento, in primo piano, della caducità umana in forma di mascella e d'altro ossame, e di quella storica in forma di detrito colonnare. Lo studio di torsione che s'agita s'una sedia a destra, che nulla pare aver a che fare con Cecilia, ma che riproduce e completa un torso romano che il pittore aveva visto a Roma, e che gli piacque qui -why not?- riprodurre.
VII-Cecilia, sotto l'occhio quasi umano di due statue pagane à la Watteau, difende dignitosamente di fronte ad Almachio la propria fede e la pietosa opera di inumazione.
VIII-Il martirio prefigurato in VI avviene. Come molti martìri dell'apologetica classica, anche quello di Cecilia consiste in una doppia esecuzione. La martire viene prima messa a bollire in un pentolone (il nudo è illeggibile: pittori e committenti più tardi, e con un'idea meno ristretta della decenza, avrebbero ben altrimenti utilizzato l'occasione), ma miracolosamente rimane indenne. Viene più dignitosamente, ma più spicciamente, decapitata. Le due esecuzioni vengono qui sovrapposte. Anche questo secondo tentativo, comunque, non riesce appieno, come apprendiamo dal successivo riquadro.
IX-A onta di Almachio, Cecilia viene vista da svariati testimoni mentre predica e opera per il bene.
X-Dopo tre giorni, per la (temporanea e solo terrena) pace del prefetto, Cecilia muore e viene seppellita. Bella l'idea del corpo adagiato sul lenzuolo, anche se il Francia, troppo gentile, sfrutta solo in parte l'occasione di rappresentare la tensione muscolare dei personaggi che lo sorreggono. Raffaello, altrettanto gentile, ma meno esangue, svolgerà il tema diversamente:
Sempre di Raffaello, arrivava a Bologna, dopo le armate del papa, anche una stupenda Santa Cecilia (1513 circa); a castigare ogni deviazione pittorica cittadina dalle prescrizioni artistiche centroitaliche:
Titoli di coda:
con l'eccezione, ovviamente, del solito Aspertini, che anzi accentuò gli elementi nordici e medioevali della sua pittura.
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3 commenti:
Ancora basìta di fronte a tanto mirabolante exploit cine-pitto-storico-artistico, me ne sto qui raggomitolata sulla mia seggiolina dell'IKEA, rimuginando su grottesche pompeiane, Albertini e flash-forward...
...magnifico, Maz, grazie!!!
R.
Nicola, la narrazione paratattica era normale nel Quattrocento, ed anche all'inizio del Cinquecento. Tutti sapevano come sarebbe andata a finire la storia, e quindi i Re Magi vedono la stella, si mettono in viaggio e adorano il Bambino, tutto nello stesso quadro o affresco. E guai se non ci fossero stati i vari episodi, tutti ci dovevano essere.
Per i santi e le sante si usava iterare il martirio con diverse forme. Succede a Santa Lucia, a Santa Barbara, a Santa Cecilia, a San Sebastiano. Noi crediamo che San Sebastiano sia morto per le frecce. Nossignori, dalle frecce l'ha curato Sant'Irene, è guarito, poi l'hanno ucciso a bastonate. Ancora nella seconda metà del Cinquecento il Veronese racconta così nella chiesa di San Sebastiano a Venezia.
Ce ne sarebbero altre due, di Cappelle Sistine a Bologan, solo che sono scomparse: la cappella Garganelli in San Pietro e il chiostro dei Carracci in San Michele in Bosco. La cosa strana è che il Francia, di fronte alle opere del Cossa, del Roberti, di Niccolò dell'Arca , tutte fresche di pochi anni prima, dipingesse così. Ma anche nell'arte c'è la moda: il Costa, che pure era ferrarese, si adegua, anche se era capace ancora di fare la pala Ghedini in San Giovanni in Monte.
Meno male che il nostro amico Amico Aspertini continuava a dar di fuori di matto. Sarà il caso di andare alla benvenuta mostra di Bologna, vedrò le date.
Ultima cosa. Michelangelo, a meno di vent'anni, sui valori a Bologna aveva capito tutto: il Cossa nella Cappella Garganelli, Jacopo della Quercia in San Petronio e Niccolò dell'Arca. Ogni tanto, in arte, innestano la marcia indietro, che magari dura vent'anni o trenta. Poi arrivò la Santa Cecilia di Raffaello da Roma e sistemò le cose e i valori, tranne l'amico Amico che continuò a divertirsi coi tedeschi.
Gran bella idea, Nicola, ci voleva proprio.
saludos
Solimano
Nei titoli di coda andavano anche fatti diversi riconoscimenti. Le notizie generali sull'arte bolognese del quattrocento le ho, per così dire, "respirate" in un libro di Riccomini, noto e nostro storico d'arte. Notizie più dettagliate (le pompeiane che hanno stupito Roby) le ho trovate in un libriccino che si acquista nell'oratorio (l'ho lasciato in ufficio, così non posso dirvi gli autori). In generale, brevi chiaccherate con Solimano e, soprattutto, l'assidua lettura dei suoi post d'arte, m'hanno indotto a rischiare. Infine, ma non meno importante, l'Oratorio di S. Cecilia (ingresso gratuito) è aperto per merito di un associazione volontaria all'uopo costituita: è il più accessibile dei luoghi artistici bolognesi, forse tra i più accessibili d'Italia.
Martìri doppi. Quello di cui seppi inizialmente fu quello di S. Sebstiano, per merito della giovane e colta guida che ci fece visitare le omonime catacombe a Roma. "Ma come, e allora tutto quel languore non prelude alla morte? Amore-e-gravi ferite solamente?" Ebbene sì, anche io ne fui scioccato.
Ciao,
Màz
PS Nel mio piano ci sarebbero anche un sarcofago a bassorilievo, un vaso greco e una predella. Mi mancano i primi due (la predella, la descrissi altrove: è di Paolo Uccello, sta a Urbino e narra di un crudele miracolo). Tutte forme di cinema-prima-del-cinema.
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