martedì 30 settembre 2008

L'oro di Napoli (2)

Pierino Bilancioni (Gennarino) nel film L'oro di Napoli (1954)

L'oro di Napoli, di Vittorio De Sica (1954) Dal libro di Giuseppe Marotta, Sceneggiatura di Vittorio De Sica, Giuseppe Marotta, Cesare Zavattini Con Silvana Mangano, Sophia Loren, Eduardo De Filippo, Paolo Stoppa, Erno Crisa, Totò, Lianella Carell, Giacomo Furia, Tina Pica, Alberto Farnese, Tecla Scarano, Mario Passante, Pierino Bilancioni, Lars Borgström, Gianni Crosio, Nino Imparato, Ubaldo Maestri, Vittorio De Sica, Roberto De Simone, Teresa De Vita, Irene Montaldo Musica: Alessandro Cicognini, Fotografia: Carlo Montuori (131 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
Gli episodi del film L'oro di Napoli (1954) sono sei, e l'episodio del funeralino (su cui ho già scritto un post) è allo stesso livello di Ladri di biciclette e di Umberto D.
C'è un altro episodio memorabile nel film, quello intitolato "I giocatori". Senza questi due episodi il film sarebbe una fra le migliori commedie all'italiana che siano state realizzate, e ne parlerò, prima o poi. Ma è nei due episodi che si vede la grandezza unica di Vittorio De Sica, quella della rappresentazione dei sentimenti vera (perché concreta), acuta e profonda. Senza sentimentalismi e strizzate d'occhio: De Sica sapeva essere durissimo, anzitutto con se stesso... se e quando le situazioni al contorno (compresa la sua personale) glielo consentivano.


Il conte Prospero B. (Vittorio De Sica) non è uno spiantato, come molti credono di ricordare. Vive in un bellissimo appartamento, ma è semplicemente interdetto per decreto del tribunale: la moglie, contessa B. (Irene Montaldo) solo in questo modo è riuscita a salvare parte dei beni di famiglia, messi a serissimo rischio dal vizio del gioco del conte Prospero. Il vizio gli è rimasto, difatti Giovanni, il maggiordomo (Mario Passante), sempre molto ossequioso col conte, ha l'ordine di perquisirlo quando esce di casa: oggi stava portando via una zuccheriera. Il conte guarda con odio la moglie, di cui si augura la dipartita, ma purtroppo la contessa B. è di quelle magre che durano a lungo.



Il conte Prospero scende con l'ascensore e si rivolge subito al portiere Federico (Lars Borgström) perché rintracci l'altro giocatore: si tratta di Gennarino (Pierino Bilancioni), il figlio del portiere, un bambino di otto anni. Gennarino non avrebbe voglia di giocare, perché è per strada con altri scugnizzi, e il padre deve portarlo quasi di peso.
I due giocatori si guardano, prima di cominciare a giocare: Gennarino scruta rassegnato ma attento il conte Prospero, il conte è sorridente ma in fondo è tirato, perché con Gennarino ha perso troppe volte. Naturalmente non giocano a gratis, non si fa. Stamattina il conte mette in palio gli occhiali da sole, Gennarino sta per mettere in palio la fionda, ma poi ci ripensa, la fionda è un bene essenziale, meglio non rischiare. Mette qualcos'altro che non ricordo. La posta sta sul tavolo fra i due giocatori.



Giocano a scopa, e dopo un po' il conte Prospero non sorride più, controlla a stento la tensione interiore, perché Gennarino sta vincendo, come si vede nella terza immagine: questa partita non è ancora finita e Gennarino ha già fatto due scope.


Finché il conte Prospero -che ha cominciato a parlare di fortuna sfacciata- decide di alzare la posta, e si toglie la giacca, perché gli occhiali li ha già persi. A Gennarino non dà più del tu ma del voi, per tenere meglio le distanze da un giocatore così fortunato. Il conte Prospero perde anche questa partita e quindi la giacca. Della giacca non gli importa nulla, ma urlando ribadisce a Gennarino che vince perché ha una fortuna incredibile.
A questo punto Gennarino non può più celare il suo pensiero e dice: "Io vinco perché so giocare". Il conte Prospero, dalla rabbia, tira le tre carte che ha in mano addosso a Gennarino (rimangono appiccicate al maglione), si alza e continua a gridare, e Gennarino ribadisce: "Vinco perché so giocare", aggiungendo una frase semplice ed efficacissima:"Le carte sanno dove devono andare", così il palco della fortuna sfacciata edificato dal conte Prospero crolla miseramente. Alle urla arriva il padre di Gennarino, che invece di prendere le parti del figlio, chiede scusa al conte Prospero, ma anche al padre Gennarino dice: "Vinco perché so giocare".

Gennarino è un bambino che conosce le durezze della vita, dentro è cresciuto precocemente. Rimane da solo nella stanza da gioco, che è la cucina. Non ha voglia di andar fuori e riprendere a giocare con gli altri ragazzi, perché si sente ferito dalla prepotenza del conte Prospero e dal servilismo di suo padre, che l'ha sgridato pure lui, e non se lo meritava, non è giusto. Gennarino sta imparando che la giustizia non è di questo mondo, finché non si accorge che vicino ai suoi piedi c'è il gatto. Lo prende su.

Prima lo carezza meccanicamente, ad occhi chiusi, poi apre gli occhi e continua a carezzare il gatto. Sicuramente fra un po' andrà per strada con la sua fionda. E' proprio vero: a volte gli animali consolano più dei cristiani.

domenica 28 settembre 2008

Un altro finale per... Butch Cassidy (e per Paul)


Roby
"Mamma! E' morto Paul Newman!"
"Cosa???"
"E' morto Paul Newman, l'ho letto adesso su televideo... "
"Non è possibile! NON PUO' essere!"
"Mamma... senti, ma esattamente CHI ERA Paul Newman?"


















Come sarebbe a dire, chi era Paul Newman?

Benedetta gioventù d'oggi, possibile che una diciannovenne del 2008 non si ricordi la faccia -e soprattutto gli OCCHI- che hanno fatto sognare almeno due generazioni di sue coetanee? Possibile che non le sia mai capitato, in TV, di vedere una scena della Gatta sul tetto che scotta, o della Stangata, o di Butch Cassidy? Febbrilmente, corro a frugare in libreria, scovo una vecchia copia della rivista Esquire in versione italiana con LUI in copertina e gliela mostro, ansante.

"Ah" fa lei, vaga "ho capito"...

No, piccina mia, tu non hai capito niente. Non puoi. Non sai l'emozione di quando apparivano quegli occhi e quel fisico perfetto, sul grande o sul piccolo schermo, e dopo poco ti accorgevi che dietro la bellezza c'erano anche un cervello, un cuore, una personalità genuina. Non dirmi che hai provato qualcosa di simile davanti alle performances dei divetti di adesso, tipo Scamarcio, o Josh Hartnett, o Patrick Dempsey. Non dirmelo, perchè tanto non ci credo.

Hai presente il finale di Butch Cassidy & Sundance Kid, quello con il fermo immagine dei due antieroi che -assediati dai federali- decidono di andare incontro alla morte a viso aperto? No che non ce l'hai presente, lo so benissimo. Ma io sì. Si slanciano fuori di getto, armi in pugno, decisi a vender cara la pelle. E il film si ferma lì, giustamente, senza mostrare lo scempio dei loro cadaveri crivellati di colpi. Resteranno per sempre così, giovani e belli, maledetti ma vivi.

Al cinema, tanti anni fa, quella scena mi rimase negli occhi e nel cuore. Perchè -mi chiedevo, uscendo- perchè devono morire per forza? Sì, d'accordo, sono ladri e banditi, hanno infranto decine di leggi, sono ricercati in tutti gli Stati dell'Unione: devono, dunque, espiare.

Ma oggi lasciatemi immaginare una conclusione diversa. Lasciatemi pensare a Butch/Paul che trova un'uscita secondaria, e ad attenderlo un cavallo bianco, nervoso, veloce. E' un attimo: ne approfitta, salta in sella e via, come il vento.

Lo vedete anche voi, vero?
Sta cavalcando lassù, in alto, contro il sole. Tra poco una nuvola grigia lo nasconderà ai nostri sguardi. Ma lui, in realtà, sarà ancora lì. E ci resterà per sempre.


I modi di vedere: Sette spose per sette fratelli (1)

Seven Brides for Seven Brothers, di Stanley Donen (1954) Sceneggiatura di Stephen Vincent Benet, Albert Hackett, Frances Goodrich, Dorothy Kingsley Con Howard Keel, Jeff Richards, Russ Tamblyn, Tommy Rall, Marc Platt, Matt Mattox, Jacques d'Amboise, Jane Powell, Julie Newmar, Nancy Kilgas, Betty Carr, Virginia Gibson, Ruta Lee, Norma Doggett, Ian Wolfe Musica: Gene de Paul Fotografia: George J. Folsey Coreografia: Michael Kidd (102 minuti) Rating IMDb: 7.2
Solimano
Così Plutarco nella Vita di Romolo, 14:
Egli (Romolo) stava seduto in prima fila tra i maggiorenti, vestito di porpora, e il segno convenuto dell'azione era quando, alzatosi in piedi, avesse aperto poi di nuovo ravvolto il manto. I Romani in gran numero, armati di spade, tenevano gli occhi fissi su di lui. Venuto il segnale, estrassero le armi e balzarono avanti con un urlo, afferrarono le figlie dei Sabini e lasciarono andare i padri, anzi li esortarono a fuggire. Alcuni storici dicono che ne furono rapite soltanto trenta, dalle quali derivarono anche i nomi delle trenta fratrie romane; ma Valerio Anziate fa ascendere il loro numero a cinquecentoventisette, e Iuba a seicentottantatré, tutte vergini; e questa è la più valida scusante per Romolo. Infatti l'unica donna sposata catturata, Ersilia, lo fu per sbaglio. Dunque i Romani non furono spinti al ratto per lascivia o malvagità, ma con l'intenzione precisa di mescolare in una sola comunità due stirpi con i vincoli più solenni.
Traduzione di Carlo Carena, Mondadori editore 1974


Nelle righe successive Plutarco aggiunge che secondo alcuni storici Ersilia fece un ottimo matrimonio, forse con lo stesso Romolo. Si vede che l'essere sposata, quindi non più vergine, la metteva in buona vista. Ci sono anche altre versioni, come quelle di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnasso, ma certamente l'episodio del 753 a. C. non fu il primo nel suo genere. Né l'ultimo, visto che nel 1954 Stanley Donen fece il film Sette spose per sette fratelli proprio ispirandosi a Plutarco, con la mediazione degli sceneggiatori, in primis di Stephen Vincent Benet che cambiò data e posto: il film si svolge nel 1850 in Oregon.
Non è vero che le favole piacciono solo i bambini, ci sono favole anche per i grandi, e il Ratto delle Sabine è una di queste, una favola vera (come tutte le favole) con tante versioni. Di favole per adulti così belle da guardare e da ascoltare come Sette spose per sette fratelli non ne conosco.

Chi ha visto anche una sola volta il film non lo confonde con nessun altro, ma sembrerebbe strano parlare di modo di vedere, quando è un film basato soprattutto sullla danza e sul canto. Ci si potrebbe aggiungere che una delle poche critiche riguarda i fondali, che per ragioni di budget furono dipinti e lo si nota benissimo, eppure Stanley Donen ha un suo preciso modo, al di là delle danze e delle musiche. Ho scelto l'episodio che prende il nome dalla canzone June Bride che ne è il motivo musicale, cantato dal coro delle sei ragazze rapite in paese dai fratelli Pontipee, le Sabine della situazione.


Riepilogo i fatti. Il rapimento riesce perché l'inseguimento dei padri e dei fidanzati delle ragazze viene bloccato da una valanga di neve che blocca il transito del passo. Fino a primavera niente da fare, tutti debbono aspettare.
La situazione ce l'ha in mano Milly (Jane Powell), la moglie di Adam (Howard Keel), il maggiore dei Pontepee. Milly è piccola di statura, mentre Adam è gigantesco, ma nel delicato affare della gestione del rapimento comanda Milly, che ha il carattere di una arzdora.


Così le ragazze passano l'inverno in uno stanzone, tutte in compagnia e gli uomini stanno fuori, senza nessuna possibilità di accesso allo stanzone e quindi alle ragazze. E' tagliato fuori anche Adam a cui tocca di dormire nella stalla. Fuori nevica e il tempo non passa mai. Le ragazze un po' guardano fuori dalla finestra, un po' chiacchierano, un po' litigano. Finché arriva Milly che dice a tutte di essere incinta (evidentemente Adam non ha sempre dormito nella stalla). E allora fra le sei ragazze tutte vestite con castissimi pigiami bianchi comprensivi di mutandoni, torna l'allegria e cantano insieme June Bride, perché in primavera pensano proprio di sposarsi, anche se non sanno ancora con chi: con i rapitori o con i paesani?


Stanley Donen girava il film nel 1954, le ragazze indossano gli identici pigiami, eppure è un episodio in cui tenerezza ed erotismo sono mischiati in modo inscindibile. Non tutte le ragazze sono particolarmente belle (le avevano scritturate soprattutto per le loro capacità di danza o di voce), ma uno dei pregi del film, in questo come in altri episodi, è di non scadere mai nella carineria. Esprime con semplicità i rapporti fra uomini e donne, i sentimenti e le aspettative.
L'episodio più famoso prende il nome della canzone Barn Dance ed è quello della contesa danzante fra i paesani ed i Pontepee. I due gruppi cercano di sottrarsi le ragazze a vicenda e sembra che sia una contesa fra maschi, ma alla fine sono le ragazze a scegliere, e scelgono proprio i fratelli Pontepee, chissà perché. In questo episodio ci sono tali finezze nel rapporto fra i gruppi di uomini, il gruppo di donne e fra singoli uomini e singole donne che un libro di centinaia di pagine non riuscirebbe a spiegare. Il film infatti lo spiega mostrando atteggiamenti e comportamenti attraverso i gesti, la musica, il canto e il ballo. Così succede per l'episodio June Bride, con le sei ragazze nello stanzone, quasi sempre raggruppate.



Ma c'è un caso particolare, e sono ben lieto che ci sia. Una delle sei ragazze è più uguale delle altre, quella che alla fine sposerà Benjamin (Jeff Richards). E' una ragazza mora ed alta. Non sono sicuro al cento per cento, ma credo si tratti di Julie Newmar, che poi divenne famosa e che allora era all'inzio della carriera (aveva 21 anni). Non fa la solista nel canto né la solista nella danza. Evidentemente Donen si rendeva conto che non poteva puntare solo sulla vocalità di Jane Powell e sul coro delle ragazze, serviva quel tocco in più, che questa affascinante ragazza dai capelli neri e lunghi riesce a dare. Difatti, nella parte restante del film, le varie coppie che si formano hanno un po' di leziosità seppure mirabile, ma quando sono insieme Benjamin e Dora (Jeff Richards e Julie Newmar) tutti si aspettano che spariscano subito in mezzo a qualche cespuglio fitto, ombroso e comodo.

In chiusura, metto l'immagine con cui finisce l'episodio June Bride: le sei ragazze guardano fuori nella notte buia e nevosa, ma sanno già che l'episodio successivo sarà Spring Spring Spring, ed il titolo lo spiega bene, capiamo quello che accadrà.

Torno a Plutarco con cui ho cominciato. Molti grandi pittori hanno fatto quadri ispirandosi al Ratto delle Sabine, Poussin e Rubens su tutti, ma preferisco giocare in casa, ed inserire un affresco di Ludovico Carracci giovane, eseguito poco dopo il 1580 a Bologna nel palazzo Magnani che è in via Zamboni (allora via San Donato). Come si vede dal quadro, il riferimento al racconto di Plutarco è diretto: Romolo, sulla sinistra, risponde perfettamente alla descrizione che ne dà Plutarco.

venerdì 26 settembre 2008

L'oro di Napoli (1)

Teresa De Vita nel film L'oro di Napoli (1954)

L'oro di Napoli, di Vittorio De Sica (1954) Dal libro di Giuseppe Marotta, Sceneggiatura di Vittorio De Sica, Giuseppe Marotta, Cesare Zavattini Con Silvana Mangano, Sophia Loren, Eduardo De Filippo, Paolo Stoppa, Erno Crisa, Totò, Lianella Carell, Giacomo Furia, Tina Pica, Alberto Farnese, Tecla Scarano, Pierino Bilancioni, Lars Borgström, Gianni Crosio, Nino Imparato, Ubaldo Maestri, Vittorio De Sica, Roberto De Simone, Teresa De Vita, Irene Montaldo Musica: Alessandro Cicognini, Fotografia: Carlo Montuori (131 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
"Oggi a Napoli è morto un bambino". Con questa scritta comincia l'episodio del funeralino, che non deriva dal libro di Marotta, ma da un'idea di Cesare Zavattini, che fece anche la sceneggiatura. Questo episodio fu tagliato per decenni dall'edizione commerciale del film, adesso c'è sul DVD. L'attrice è Teresa De Vita, nella parte della mamma; ha recitato solo in un altro film, sempre di De Sica, Il giudizio universale che è del 1961. Tutti gli altri interpreti sono non professionisti.

Hanno faticato nel convincere la mamma a non portare giù lei la piccola bara col bambino, adesso è in strada dietro la carrozza bianca.

Prima di partire la mamma saluta uno per uno i partecipanti, è controllata e non piange.


Arrivano i bambini, tutti col grembiule e guidati dalla suora, e si mettono subito dietro alla carrozza. Davanti a loro c'è solo la mamma che ha vicino la figlia, una bimba grandicella. Più indietro c'è un uomo anziano con un mazzo di fiori, è sicuramente un parente della mamma e la tiene sott'occhio per tutto il funerale, nel caso avesse bisogno.


Lungo la strada, la mamma dice che vuole che passino per la Strada Grande. Esitano solo un momento, poi l'ascoltano, e il piccolo corteo scende verso la Strada Grande.


Ii cavalli che sbucano dal vicolo nella Strada Grande fanno impressione, mentre nella ripresa dall'alto il funerale si scorge appena.


La mamma è orgogliosa di come il funerale si sta svolgendo, proprio come voleva lei, a suo modo è contenta, certamente fiera di se stessa. Tutte le persone che incontrano, sia a piedi che in macchina, sospendono per qualche secondo risate, litigi e chiacchiere. Salutano anche i carabinieri a cavallo.

E' il momento dei confetti. La mamma, a piccole manciate, li butta in alto in modo che si disperdano nel cadere. Gli scugnizzi corrono a caccia di confetti. Per un momento, i bambini col grembiule vengono trattenuti dalla suora, che poi lascia che corrano anche loro, tanto non ce la farebbe a trattenerli e poi è meglio così. C'è scompiglio, tutti i bambini ridono e schiamazzano in mezzo alla strada.


I confetti finiscono e tutti i bambini ne vorrebbero ancora, per questo sono attorno alla mamma, che solo allora scoppia in un pianto irrefrenabile, perché non ha più confetti da dare ai bambini. E piangerà sino alla chiesa.

Alcuni bambini ripercorrono la strada, perché di confetti per terra ce ne sono rimasti: chi ne trova tre, chi addirittura cinque. I bambini hanno ragione ad essere contenti.

mercoledì 24 settembre 2008

Roma nel cinema: Il più bel giorno della mia vita (2)

Sandra Ceccarelli nel film Il più bel giorno della mia vita

Il più bel giorno della mia vita, di Cristina Comencini (2002) Storia e sceneggiatura di Giulia Calenda, Cristina Comencini, Lucilla Schiaffino Con Virna Lisi, Margherita Buy, Sandra Ceccarelli, Luigi Lo Cascio, Marco Baliani, Marco Quaglia, Jean-Hugues Anglade, Ricky Tognazzi, Gaia Conforzi, Francesco Scianna, Francesca Perini, Maria Luisa De Crescenzo, Andrea Sama, Giulio Squillacciotti Musica: Franco Piersanti Fotografia: Fabio Cianchetti (102 minuti) Rating IMDb: 7.2
Solimano
Nella prima puntata dedicata a Il più bel giorno della mia vita (2002) di Cristina Comencini per la vista logica Roma nel cinema, ho inserito Campo de' fiori e Piazza del Popolo, oltre a qualche panorama non cartolinesco e alle cupole barocche che si vedono dalla casa di Rita (Sandra Ceccarelli). Oggi evidenzio alcuni episodi del film in cui Roma si inserisce con naturalezza. E' una Roma personalizzata che diviene interprete del film. Tutti gli episodi si svolgono di sera o di notte.


L'edificio di Roma nella prima delle due immagini l'ho certamente visto, ma non ne ricordo il nome né l'ubicazione. Qualche romano mi aiuterà fornendomi i dettagli.
Nella strada ci sono tre ragazzi in motorino. Uno dei tre è Marco (Francesco Scianna), il figlio di Sara (Margherita Buy) ; ha appena saputo dal cellulare che la cugina Silvia (Francesca Perini) si sta spogliando in discoteca perché ha preso troppe pasticche. Marco con due amici sta andando a darle una mano. Uno dei due amici di Marco, appena arrivato in discoteca, riesce a sottrarre Silvia a un profittatore e diverrà il ragazzo di Silvia.


Claudio (Luigi Lo Cascio), il fratello di Sara e di Rita, è un giovane avvocato omosessuale. Si è appena lasciato con Luca (Marco Quaglia) con cui aveva da tempo una relazione ed ora sta camminando davanti al Pantheon per disperazione e forse anche alla ricerca di qualche compagno occasionale.





Sul Ponte di Castel Sant'Angelo si svolge l'episodio della ripresa di contatto -ma non funzionerà- fra Rita e suo marito Carlo (Marco Baliani), verso cui Rita non prova più attrazione dopo la nascita della figlia Chiara (Maria Luisa De Crescenzo). Adesso Rita è attratta dal veterinario Davide (Jean-Hugues Anglade), che ha conosciuto ad un corso per smettere di fumare. Non sono riusciti a smettere, in compenso si sono innamorati. Ma Rita è divisa, ci tiene alla famiglia ed alle figlie Silvia e Chiara. L'abbraccio sul ponte fra Rita e Carlo viene visto dall'angelo col cartiglio, che è comparso anche nel film Lo sceicco bianco di Federico Fellini (lo trovate nel blog, sempre nella vista logica Roma nel cinema).

Ecco una fotografia diurna dell'angelo col cartiglio, eseguito fra il 1668 e il 1671. E' l'unico degli angeli sul ponte a cui mise mano direttamente Gian Lorenzo Bernini. Gli altri, furono eseguiti da allievi sotto la sua diretta direzione e sono generalmente di ottima qualità. Non è del tutto esatto dire che l'angelo col cartiglio sul ponte è di Gian Lorenzo Bernini. In realtà è una copia dell'originale, eseguita dallo stesso Bernini e da un suo allievo. L'originale esiste ancora ed è nella chiesa romana di Sant'Andrea delle Fratte. Non si tratta di angeli allegri, ma di angeli che portano i simboli della Passione di Cristo.




Claudio sta parlando col nipote Marco in Piazza Navona. Ecco la Fontana dei Fiumi, eseguita da Gian Lorenzo Bernini negli anni attorno al 1650, naturalmente con l'aiuto dell bottega, perché è un'opera colossale. I quattro fiumi sono il Nilo, il Gange, il Danubio e il Rio della Plata. La statua più famosa è quella che rappresenta il fiume Nilo, col capo coperto, perché ne erano sconosciute le sorgenti, scoperte solo nell'Ottocento. Proviamo ad immaginare quale poteva essere il pensiero di allora riguardo al Nilo: un fiume così ricco d'acqua in Africa, oltretutto proveniente dal sud. Ma i maliziosi dissero ( e dicono ancora) che il Bernini rappresentò il Nilo col capo coperto perché non voleva vedere la facciata della chiesa di Sant'Agnese in Agone che è proprio sulla piazza. L'architetto della chiesa era il Borromini, grande concorrente del Bernini.
La concorrenza fa bene, esisteva ed esiste. Gli artisti erano tutti in concorrenza fra di loro, ed anche dal loro essere in concorrenza sono sorti i capolavori. Quando la concorrenza non la si vuole più, si fanno le Accademie, grandi, piccole e piccolissime, e con l'arte e in genere con le cose belle e utili c'est fini.

Qui sotto inserisco l'immagine di un'opera non notissima: è il modello in terracotta della statua del Nilo, modello fatto dal Bernini, artista totale, non solo architetto e scultore in marmo, ma anche scultore in terracotta e pittore. Sospetto che scrivesse bene e che sapesse suonare almeno uno strumento. Il modello è a Venezia, nella Galleria Franchetti presso la Ca' d'Oro.