sabato 31 marzo 2007

L'avventura

L'Avventura di Michelangelo Antonioni (1960) Con Gabriele Ferzetti, Lea Massari, Monica Vitti, Dominique Blanchar, Renzo Ricci Musica di Giovanni Fusco (145 minuti) Rating IMDb: 7.8
Giuliano
- Questa piccola villa verrà soffocata, tra poco.
- Lì ci verranno tutte case.
- Eh già. Non ci si salva più.
Difficile da riconoscere, ma questo dialogo è l'inizio di uno dei film più famosi di Michelangelo Antonioni, "L'avventura". E ' un film del 1960, ma non sembra. I protagonisti del dialogo sono Renzo Ricci, che interpreta il padre di Lea Massari (è lei che apre il film) e un anonimo muratore, che fa una rapida comparsa. Ricci è un diplomatico in pensione, e sua figlia sta per sposarsi con un architetto affermato. La piccola villa in questione è proprio quella del diplomatico, e sulle periferie romane incombe la speculazione edilizia.
Più avanti nel film, vedremo che il mancato genero, l'attore Gabriele Ferzetti, è molto ricco e affermato, ma soffre perché per il successo ha dovuto sacrificare la sua creatività, vera o presunta che fosse. Davanti allo splendore del barocco di Noto, in Sicilia, farà dei piccoli dispetti a un giovane architetto che sta studiando: rovescia sul disegno l'inchiostro di china, e sfiora la lite. Nel finale, tradisce malamente Monica Vitti, e piange.

Rivedendo questo film, dopo tanti anni, mi ha fatto una certa impressione notare che non è affatto invecchiato, e che anzi si è conservato benissimo, in tutta la sua modernità. Nel 1960, l'Italia poteva ancora salvarsi, ma la sua classe dirigente era fatta di tante persone della stessa stoffa dell'architetto interpretato da Ferzetti: per il denaro, e per il successo, si rinuncia presto al meglio di se stessi. E' una specie di patto col diavolo, un diavolo in apparenza bonario, come quello di tanti film di Alberto Sordi: praticamente non si vede, ma c'è e lavora. Ogni piccolo compromesso, con se stessi e con gli altri, è una sua vittoria. Nel film, e sempre a Noto, c'è anche questo dialogo fra Monica Vitti e Ferzetti:
- Io invece sono convinta che tu potresti fare cose belle...
- Non lo so... A chi servono ormai le cose belle? Quanto durano? Una volta avevano i secoli davanti, oggi al massimo sono dieci, vent'anni: e poi?
Ma siamo all'inizio di un amore, un amore ormai senza più remore, e quindi ci può essere un po' di ottimismo. Ma solo per la ragazza: ormai il nostro architetto sa che la redenzione attraverso l'amore non è più possibile, e che in fin dei conti anche l'Olandese Volante della leggenda viene sì salvato dall'amore di Senta, ma ad un prezzo troppo alto.
Oggi la speculazione edilizia, ben raccontata da tanti film degli anni '50 e '60 ( "Il tetto" di De Sica; "Le mani sulla città" , di Rosi...) è il nostro presente. Oggi ogni metro quadrato di asfalto o di cemento è un piccolo peggioramento, ma a convivere con il cemento e con l'asfalto ci siamo abituati, ed è questo ormai il nostro paesaggio naturale; e la stessa cosa è successa per i film, e per la pubblicità sempre più invadente con la quale vengono stravolti e infarciti, in televisione.

5 commenti:

Solimano ha detto...

Di recente ho visto un film di Antonioni che non avevo mai visto: La Notte, che segue subito L'Avventura. Conoscevo invece bene L'Eclisse e anche Deserto Rosso, di cui ricordo benissimo la parte che si svolgeva vicino al radiotelescopio di Medicina, in provincia di Bologna.
Non ho ancora deciso dentro, sono diviso fra ammirazione e disagio, pian piano ci arriverò magari nel corso di questo blog. C'è però un suo film che apprezzai subito: Blow Up, forse ero in una fase che capita a chi legge troppo: più la cosa ti sorprende, più non la capisci, più te la fai piacere. Sarei curioso di rivederlo ora, un film come Blow Up.

saludos
Solimano

gabrilu ha detto...

Arrivo qui dal blog di Clelia (Mazzini) e trovo bellissimo questo tuo blog. Scrivi di cinema come io cerco (ma non sempre ci riesco) di scrivere di libri. Adesso mi prendo un po' di tempo per esploare con calma anche gli arretrati, ma intanto ti metto subito nel mio Google Reader.
Ciao da Gabriella

Giuliano ha detto...

Grazie Gabriella, molto gentile!
Giuliano

Solimano ha detto...

Grazie Gabrilu.
Più che un blog, questo è un multiblog. Perché gli Spettatori (nota il maiuscolo) sono diversi, non c'è una linea editoriale, tantomeno critica, c'è il coinvolgimento dello Spettatore con il film, fornito dal Regista.
Conta la reazione della persona di fronte al film, perché c'è stata, anche se poi la si converte in recensione. Occorre vedere le corde individuali che quel film ha toccato, corde diverse generalmente. E cercare di raccontarle in modo efficace.
Vedremo, le cose più semplici possono essere le più difficili.

benvenuta e buona serata
Solimano

Solimano ha detto...

Così Fernaldo Di Giammatteo su "100 film da salvare" Mondadori, 1978:

"Michelangelo Antonioni (Ferrara, 29 settembre 1912) era reduce da un insuccesso (Il grido). Prima di allora, sette documentari (girati fra il 1943 e il '50), quattro film (Cronaca di un amore, I vinti, La signora senza camelie, Le amiche) e l'episodio di un film inchiesta (“Tentato suicidio” in L'amore in città) avevano creato l'immagine di un regista che tentava di uscire dai modelli sociologici e narrativi del neorealismo per imporre la nozione di un cinema sperimentale, analitico, attento al malessere dei sentimenti, all'incerto (e talvolta melodrammatico) procedere delle esperienze individuali. In questa direzione, Il grido (che più tardi sarebbe stato rivalutato, sino al punto da considerarlo un film chiave della carriera antonioniana) rappresentava il massimo sforzo di approfondimento: il cammino dell'operaio verso il buio della disperazione si svolgeva con una compostezza che ammorbidiva ogni punta drammatica, come se il destino del protagonista (e delle sue donne) fosse tanto inevitabile da soffocare il dolore e la lotta. Soltanto l'epilogo tragico usciva, di colpo, dall'atmosfera rarefatta del film: un sussulto di esplicita consapevolezza che pareva contraddire l'indeterminazione del tema.
L'avventura, realizzato in circostanze assai difficili nel corso del 1959 e presentato al festival di Cannes del '60 (dove ottiene un premio speciale) consiste nella progressiva dissoluzione di ogni illusoria fiducia nella possibilità di programmare la vicenda umana. Ciò che spicca, con evidenza via via maggiore, è il flusso ininterrotto dei comportamenti, uno legato all'altro senza una ragione apparente. La chiarezza con la quale l'azione progredisce è naturale: non nasconde alcun mistero, non ammette il ricorso ad alcuna trascendenza. La storia è scarna, in qualche punto quasi elementare, affinché possa avere - come ha ricordato il regista - “il suo corso interno”, si sviluppi secondo necessità e non secondo un ordine precostituito dall'esterno, come spesso accadeva nel cinema che proprio allora gli autori più interessanti (i francesi in particolare) cominciavano a sovvertire.
Due amiche, Anna e Claudia, partono per una vacanza alle isole Lipari. Le accompagna Sandro, un architetto che di Anna è l'amante. Fra i due esiste una tensione di cui si afferrano soltanto alcuni motivi ma che non si può realmente spiegare, così come non si spiega l'improvvisa e cupa furia con cui Anna costringe Sandro a possederla prima di partire. Li ritroviamo insieme a un gruppo di fatui amici che navigano verso l'isoletta di Lisca Bianca. Claudia assiste senza volerlo a un litigio fra i due, cerca di distrarsi. Nel pomeriggio si accorgono che Anna è scomparsa. Gli amici battono l'isola in lungo e in largo, scrutano nei profondi canaloni che precipitano a picco nel mare. Il motoscafo va a Lipari per dare l'allarme. Sull'isola rimangono Claudia, Sandro e Corrado. Minaccia il temporale. Si rifugiano in un capanno, vi passano la notte. Claudia è disperata, non sa darsi pace. Giungono i carabinieri con i sommozzatori, ma ogni sforzo è inutile: Anna sembra volatilizzata. Arriva anche il padre di Anna (un autorevole diplomatico in pensione) a bordo di un elicottero. Sandro, saputo che a Milazzo hanno fermato alcuni contrabbandieri e pensando che Anna abbia potuto allontanarsi con la loro barca, corre a controllare, mentre Claudia compie una perlustrazione sulla vedetta della Guardia di Finanza. A Milazzo Sandro non scopre nulla. Apprende soltanto che è arrivata anche Claudia. La trova alla stazione in procinto di partire per la residenza dei principi presso i quali si sono dati appuntamento gli amici. Claudia scongiura Sandro di non seguirla. Ha paura che qualcosa possa accadere. Ma Sandro salta anche lui sul treno. “L'unico modo per aiutarci è di stare insieme”, le dice. Claudia, esitando, lo respinge. Le loro strade si dividono. Sandro segue quella che crede sia una nuova traccia e cerca a Messina un giornalista, ma senza costrutto. Claudia è nella casa dei principi, coinvolta in sgradevoli esperienze e imbarazzanti incontri. Nel frattempo, Sandro giunge in una località isolata dove Anna sarebbe stata vista. Nulla. Quando sta per andarsene, vede arrivare Claudia, che ha scoperto dov'era. Sono insieme, ora. Ogni resistenza è caduta. Si sentono liberi, la sorte di Anna non li angustia più. Fanno l'amore su un colle, in un paese nuovo e mai abitato. Vanno a Noto, vivono intensamente un'avventura che sembra averli trasformati: soprattutto Sandro che, come architetto, si sente fallito e ha l'impressione di prostituirsi al servizio di uno speculatore. Dopo Noto, Taormina, in un grande albergo. Qui ritrovano i loro amici, che li invitano a una festa. Sandro accetta volentieri. Claudia no: è troppo stanca per divertirsi. Va a letto. All'alba, oppressa dall'angoscia (teme che sia tornata Anna), si alza, gira per i saloni dell'albergo. E in un angolo vede Sandro abbracciato a una qualunque sgualdrina di lusso. Fugge, esce sul piazzale, raggiunge una terrazza sul mare. Sandro la segue, camminando incerto. Si lascia cadere su una panca, singhiozza. Claudia si è fermata. Ha perduto di colpo ogni forza. Poi, lentamente, si avvicina. Mette una mano sulla spalla di Sandro, gli accarezza i capelli. Con La notte (1961) e L'eclisse (1962) Antonioni proseguirà il discorso sull'ambiguità dei comportamenti umani, con uno stile altrettanto rigoroso: i momenti “ vuoti ”, in cui non accade nulla, si alternano, senza motivazione alcuna, agli episodi in cui i fatti acquistano un ritmo inutilmente incalzante. La composizione - delicata, ferma, elegante - delle immagini e dei suoni risolve in luminosa armonia questa laica ricerca di una verità che consiste nella ricerca stessa, senza fine".