martedì 21 luglio 2009

Pinocchio impara che la vita è bella

Pinocchio di Roberto Benigni (2002) Dal libro di Carlo Collodi Sceneggiatura di Roberto Benigni e Vincenzo Cerami Con Roberto Benigni (Pinocchio), Nicoletta Braschi (Fata Turchina), Carlo Giuffrè (Geppetto), Kim Rossi Stuart (Lucignolo), Max Cavallari (Il Gatto), Bruno Arena (La Volpe), Luis Molteni (Omino di burro), Corrado Pani (Giudice), Tommaso Bianco (Pulcinella), Franco Iavarone (Mangiafuoco), Peppe Barra, Mino Bellei, Alessandro Bergonzoni, Vincenzo Cerami, Giorgio Ariani Musica: Nicola Piovani Fotografia: Dante Spinotti Costumi: Danilo Donati (108 minuti) Rating IMDb: 3.6



Aurelio Tagliabue

Nell’ultima sequenza de La vita è bella in cui compare Roberto Benigni, Guido, il protagonista da lui interpretato, sotto gli occhi del figlio «prende un’aria divertita e cammina con il passo dell’oca» , fingendo di continuare il gioco che permetterà al piccolo Giosuè di sopravvivere nel campo di concentramento; Guido in realtà sa che sta andando incontro alla propria morte, che avverrà subito dopo, negata allo sguardo del figlio e a quello dello spettatore. Benigni si era accomiatato dal pubblico cinematografico camminando come una marionetta, dopo aver raccontato, per un nobilissimo scopo, un’enorme bugia. Cinque anni dopo lo ritroviamo nei panni del burattino più bugiardo che tutti conosciamo: Pinocchio.
Anticipato da un lancio mediatico le cui dimensioni non hanno precedenti nel cinema italiano, il film ha sollevato curiosità e futili polemiche, creando schieramenti contrapposti prima ancora che fosse distribuito nelle sale. A ciò va aggiunta una ricca attività di merchandising, limitata in Italia al settore educativo, per esplicita volontà del regista. Tutto ciò ha contribuito a creare l’attesa di un evento da celebrare, quando invece Pinocchio può essere considerato un punto d’arrivo naturale e forse inevitabile per l’autore della pellicola, che, circondato da attori di qualità (perlopiù di provenienza teatrale), che non possono competere con lui in popolarità e confermando la squadra vincente del film premiato con l’Oscar (lo sceneggiatore Vincenzo Cerami, il musicista Nicola Piovani, lo scenografo Danilo Donati per citare le figure preminenti), ha affrontato la prova più impegnativa della sua carriera.



Il babbo di Pinocchio
In diverse interviste Benigni ha dichiarato che il nume tutelare di questo film è Federico Fellini: fu lui a chiamarlo Pinocchio sul set de La voce della luna, suggerendogli implicitamente di immedesimarsi nel personaggio ed infondendogli l’ispirazione:«Fellini è sempre questa grande quercia del cinema italiano. Ci ha protetti sempre tutti, ci ha dato gli esempi, le sue fronde hanno fatto abbeverare e mangiare tanti uccellini, tutti gli esseri viventi del mondo. Quando ero lì, io sono stato sotto di lui, lo guardavo e mi dicevo “cadesse una ghianda che me la piglio!” Ecco da quella ghiandetta, da quella scintilla legnosa è nato Pinocchio.»
L’intuizione del regista riminese nacque presumibilmente dalla constatazione che il protagonista della favola e Benigni condividono alcune caratteristiche: la toscanità innanzi tutto, che nel film trova conferma, come qualcuno ha notato, in una «dizione amorosamente scandita, che non fa perdere una sillaba e consente di assaporare il lessico del libro» ; ma ancora di più l’irriverenza verso le istituzioni ed un fortissimo impulso vitale. Benigni era già Pinocchio quando per raccontare la storia di un ebreo che muore in un lager, sceglieva come titolo La vita è bella ; oppure quando in diretta televisiva con evidente trasporto sommergeva Raffaella Carrà con il proprio affetto; o ancora quando sollevava tra le sue braccia Enrico Berlinguer sul palco di un comizio.
C’è nel film una sequenza in cui questa identificazione viene esplicitata con consapevolezza e furbizia: è il momento in cui nel teatrino della marionette Pinocchio raggiunge i suoi fratelli che lo hanno riconosciuto. Collodi racconta così l’episodio: «A questo affettuoso invito Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico. » Il film traspone fedelmente le parole di Collodi, con l’eccezione del salto sulla testa del direttore d’orchestra, ed è facile per lo spettatore, soprattutto per quello americano, ricordare l’identico comportamento adottato da Benigni, nell’occasione in cui fu proclamato da Sofia Loren vincitore del premio Oscar. L’identificazione è tale che nessuno si stupisce di vedere che il protagonista è interpretato da un attore quasi cinquantenne. Semmai sono i suoi compagni di scuola a sembrare un po’ troppo cresciuti. Su questo aspetto la scelta che fece nel 1971 Comencini per la sua versione televisiva della favola, alternando nella parte di Pinocchio una vera marionetta di legno ad un attore bambino, risultava più accattivante, nonostante l’ambientazione fosse meno fantastica.



Lo sberleffo e la morale
Tutto però risulta credibile perché siamo, fin dalle prime sequenze, in un’atmosfera di favola, nonostante la sottrazione di numerosi personaggi appartenenti al mondo animale e quindi ancor più irreali, che vivacizzano diversi capitoli di un’opera che, non va dimenticato, è stata concepita per essere pubblicata a puntate. Nel romanzo Pinocchio incontra una lucciola, un delfino, delle faine, dei picchi, un falco ed altri animali che nel film non vediamo. Questa sottrazione è però bilanciata dalla dilatazione della parte del grillo parlante e di Lucignolo. L’idea degli sceneggiatori è opportuna: in un film, che inevitabilmente deve concentrare la narrazione e non diluirla in tanti piccoli episodi, è utile sottolineare il valore dei personaggi: con l’arricchita presenza del grillo e di Lucignolo si vuole ribadire il conflitto tra la coscienza e l’istinto che Pinocchio vive.
Sempre in sede di sceneggiatura, sono apprezzabili due trovate che sono originali rispetto al romanzo. La prima riguarda la sequenza del tronco di pino da cui nascerà il burattino, che non viene regalato a Mastro Geppetto da Mastro Ciliegia, assente nel film, ma cade da un carro e rimbalzando quasi per magia per tutto il paese lo mette in scompiglio, prendendosi beffa dei carabinieri. La seconda la troviamo nella sequenza finale: Pinocchio, divenuto ragazzino responsabile, si reca a scuola, ma la sua ombra è ancora quella del burattino, infatti non scompare con l’entrata del protagonista nell’edificio scolastico, ma si dirige dalla parte opposta, inseguendo una farfalla, presumibilmente la stessa che nella sequenza iniziale era volata dalle mani della fatina. In entrambi gli episodi troviamo un pizzico di irriverenza, ma la storia mantiene tutto il moralismo che le aveva messo Collodi. La trasformazione finale di Pinocchio è generata da un gesto d’amore del figlio verso il padre, in un rapporto affettivo basato sulla gratuità, esemplificata nel film dai bicchieri di latte guadagnati ed offerti a Geppetto. I cattivi maestri invece, il Gatto e la Volpe o l’omino di burro, hanno come fine un guadagno economico. Se ne La vita è bella Benigni era un padre che salvava il figlio, in Pinocchio i ruoli sono capovolti; a rimanere invariato è l’amore che lega queste figure e la gratuità che lo caratterizza.



Il regista che rimane burattino
La scelta di una favola così conosciuta, le responsabilità di cui si era caricato e che gli erano state attribuite, soprattutto dopo l’Oscar, facevano pensare che Benigni avrebbe potuto fare il grande salto e affermarsi in senso autoriale. La visione del film lascia a questo proposito molte perplessità. Nonostante la riuscita e insolita per un film italiano, presenza di effetti speciali, si riscontra ancora un uso poco efficace delle modalità espressive della tecnica cinematografica: sono rare le scelte linguistiche che si possono apprezzare, come quella dell’inquadratura aerea di Pinocchio in corsa in un vastissimo paesaggio, che traspone molto bene l’idea dell’energia vitale del protagonista che «nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori» . Infatti, anche se la recitazione del protagonista è molto caratterizzata dalla gestualità, la messa in scena si affida perlopiù ai dialoghi, confermando uno dei più grossi limiti del cinema italiano, in particolare di quello comico, degli ultimi decenni. Si veda a questo proposito la sequenza della cena all’osteria del Gambero Rosso, nella quale il regista non ha saputo approfittare, sarebbe bastato un opportuno movimento della macchina da presa, della comicità derivante dalla pantagruelica quantità di cibo ingurgitata dal Gatto e dalla Volpe, messa a confronto con l’inappetenza di Pinocchio; oppure l’episodio in cui il burattino tenta di commuovere Mangiafuoco con il racconto del fratello così povero, che al suo funerale non c’era neppure il morto, in cui l’affabulatore Benigni sovrasta il proprio personaggio, anche se questa invenzione della sceneggiatura risulta conforme alle sue caratteristiche: chi meglio di lui può raccontare una grande bugia? E’ comunque vero che questa è l’unica occasione, in cui il protagonista si concede di ritornare ad essere un comico irrispettoso delle regole e capace di buttarsi in monologhi esilaranti, per tutto il resto del film invece egli vuole dimostrare di essere capace di ben altro: raccontare una storia con tanto di morale, creare un mondo immaginario, comunicare buoni sentimenti; insomma vuole dimostrarci di essere cresciuto, mantenendo così l’identificazione col personaggio, ma è difficile credergli fino in fondo.
A proposito de La vita è bella Benigni scrisse: «Si dice che i grandi pensieri vengono dal cuore, e l’idea di questa storia è venuta istintiva». Si può pensare che ancora una volta sia stato il cuore a portarlo a scegliere di girare un film su Pinocchio, ma se è fondamentale per chi fa cinema avere emozioni, lo è altrettanto il saperle trasmettere. L’amore per questa storia, la generosità e l’entusiasmo con cui è stata affrontata, non sono bastati a trasformare un comico – burattino in un grande autore di cinema.

Citazioni:
Roberto Benigni e Vincenzo Cerami La vita è bella, Einaudi Torino 1998
Pinocchio? E' figlio di Fellini, la Repubblica 10 ottobre 2002
Tullio Kezich, Il burattino senza età è anche grande filologo, Il Corriere della Sera, 11 ottobre 2002
Collodi, Le avventure di Pinocchio, Rizzoli, Milano, 1991



2 commenti:

Solimano ha detto...

Benvenuto Aurelio Tagliabue.
Le aspettative per questo film erano molto alte; per contrappasso, le critiche negative sono state eccessive.
I confronti hanno un che di odioso, ma personalmente io rimango affezionato a molti aspetti (non tutti) del Pinocchio di Comencini. Specie la lunga edizione TV.
Dico non tutti perché non ritengo che Nino Manfredi fosse la scelta migliore, anche se è stato molto lodato.
L'impostazione da fiaba realistica, il paesaggio di una Toscana brutta e fredda, la scelta di Andrea Balestri, di Franco e Ciccio, della Lollobrigida. Ma soprattutto Comencini era nato regista, mentre la regìa non è il mestiere megliore che sa fare Benigni (il caso de La vita è bella è del tutto particolare).
A me piace il Benigni attore quando c'è di mezzo Giuseppe Bertolucci (Tu mi turbi, Berlinguer ti voglio bene) o Jim Jarmusch o Federico Fellini. Preferisco generalmente il primo Benigni, quello di Televacca e delle recensione di film che non aveva visto. Però questo Pinocchio è troppo sottovalutato, perché ha delle belle qualità di fantasia, di spiazzamneto geniale, di scelta di nuovi punti di vista. Ma il difetto era di partenza, nel manico, perché è illusorio voler far fare la parte di Pincocchio a un uomo di cinquant'anni. Anche nella sostanza, prendendo, come è abbastanza giusto, il Pinocchio di Collodi come un percorso di iniziazione.
Non condivido le ricorrenti critiche maliziose alle capacità interpretative di Nicoletta Braschi: l'ho rivista di recente in Ovosodo di Virzì ed è bravissima ( in una parte dura e difficile), come è brava in
Down by Law di Jarmusch.

grazie Aurelio e saludos
Solimano

Barbara Cerquetti ha detto...

La sua analisi, signor Tagliabue, è molto bella e riesce ad esprimere quello che, vedendo il film, non ero stata in grado di cogliere.
Siorattutto la sensazione dell'"esserci andati vicino" ma aver mancato il capolavoro.
Trovai disturbante la recitazione di Benigni, perchè non riuscivo a vederlo nel ruolo di un burattino bambino, era un uomo adulto e non se ne scampava, inoltre certi passaggi lo imbrigliavano. Anche io ho riso alla descrizione del funerale senza il morto, uno dei pochi momenti dove è andato a briglia sciolta, ma per il resto non mi ha convinto.
Ho sempre creduto che il mio limite fosse l'aver amato sccessivamente la vecchia versione di Comencini e di non riuscire quindi a liberarmene per poter appicare un giudizio oggettivo. L'unica che non mi piaceva della vecchia guardia era la Lollobrigida, e almeno io non ho granchè contro Nicoletta Braschi. Se osasse fare qualche film in più senza il marito forse riuscirebbe a dimostrare quel che vale.

Il problema di questo Pinocchio, per me, è che non mi viene voglia di rivederlo.
E mai nessuno che rappresenti la scazzottata iniziale tra Geppetto e Mastro Ciliegia, al suon di insulti tipo:
-Polentinaaaa!