sabato 29 novembre 2008

L'oro di Napoli (3)

Totò pazzariello (L'oro di Napoli, 1954)

L'oro di Napoli, di Vittorio De Sica (1954) Dal libro di Giuseppe Marotta, Sceneggiatura di Vittorio De Sica, Giuseppe Marotta, Cesare Zavattini Con Silvana Mangano, Sophia Loren, Eduardo De Filippo, Paolo Stoppa, Erno Crisa, Totò, Lianella Carell, Giacomo Furia, Tina Pica, Alberto Farnese, Tecla Scarano, Mario Passante, Pierino Bilancioni, Lars Borgström, Gianni Crosio, Nino Imparato, Ubaldo Maestri, Vittorio De Sica, Roberto De Simone, Teresa De Vita, Irene Montaldo Musica: Alessandro Cicognini, Fotografia: Carlo Montuori (131 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
E' il terzo post che scrivo su L'oro di Napoli di Vittorio De Sica, dopo i due dedicati agli episodi Il funeralino ed I giocatori. Ora mi occupo di altri due episodi, fra i sei che compongono il film. Si tratta degli episodi Il guappo e Il giocatore. Il De Sica paragonabile a quello di Ladri di biciclette e di Umberto D è ben presente nei due episodi di cui ho già scritto. Negli altri, ci sono alte qualità attoriali e registiche, ma ci sono anche i compromessi a cui De Sica era costretto dai produttori, dagli attori, dagli sceneggiatori e... da se stesso, con i problemi economici che si creava da solo.
Comincio con l'episodio Il guappo:

Don Saverio Petrillo (Totò) indossa il cappotto (il Vesuvio sullo sfondo attesta che siamo a Napoli, ma d'inverno), abbozza un sorriso, ma in realtà è un uomo infelice. Perché è vestito così di scuro? E' al cimitero, non per la tomba di un suo familiare, ma per la tomba della moglie del guappo Don Carmine Savarone (Pasquale Cennamo), che non ha tempo per andare al cimitero quindi manda Saverio, che accudisce la tomba e dispone i fiori. Non è una cortesia di Saverio, è un ordine di Carmine, che da più di dieci anni vive in casa di Saverio, comandando a bacchetta lui, la moglie di Saverio, Carolina ( Lianella Carell) e i loro quattro figli.
Tutto cominciò alla dipartita della moglie di Don Carmine. Saverio gli disse: "Non state da solo, Don Carmine, in questi momenti dolorosi, venite da noi qualche giorno..." Sono passati dieci anni e Don Carmine è ancora lì. Tutto si svolge in base a sue precise disposizioni, dalla assegnazione dei posti a tavola, alle spese gastronomiche, alla stiratura delle camicie ed in particolare dei colletti, che devono essere durissimi, quasi come il guappo che li indossa, quindi è Don Carmine che stabilisce la giusta dose di amido.

Sotto le feste la situazione si complica, perché ognuno vorrebbe essere nella propria famiglia, e invece la famiglia Petrillo si trova il guappo di quartiere in casa. Saverio ascolta la musica delle cornamuse, perché alla musica è affezionato, in un certo senso è la musica che gli dà da mangiare.


Musica un po' sui generis... Don Saverio Petrillo fa il pazzariello: vestito in modo singolare, alla guida di uno scalcinato gruppetto di suonatori, cammina per strada seguito soprattutto da ragazzi e la piccola processione raggiunge il negozio di cui si festeggia l'apertura. Chiaramente, questo mestiere di pubblicitario ante litteram è condizionato dal favore del guappo di quartiere, ma suvvia, dieci anni in casa! Don Saverio si rode, perché, oltretutto, sente la disapprovazione della moglie e dei quattro figli perché lui non osa affrontare Don Carmine.


Ma improvvisamente cambia tutto. Don Carmine esce a far bisboccia con amici suoi e si sente male: gli diagnosticano una malattia cardiaca per cui deve evitare qualsiasi tipo di emozione, se no rischia la vita. Don Carmine si trascina come un rottame a casa sua, pardon, a casa di Saverio, raccontandogli cosa è successo. E Saverio coglie l'occasione che aspettava da anni: caccia di casa Don Carmine, gli tira dietro dalla finestra bauli e oggetti di ogni tipo. La moglie ed i quattro figli lo guardano un po' preoccupati un po' speranzosi dalla piazzetta sotto casa. Don Saverio può finalmente fare quello che non gli è mai stato consentito: sedersi a capotavola a casa sua.

La famiglia Petrillo, finalmente sola, festeggia con un brindisi la nuova vita che si prospetta. A stappare la bottiglia ci pensa Saverio, che ha recuperato il rispetto della moglie e dei figli.

Ma riappare Don Carmine Savarone, più possente che pria. Nel cuor della notte, si è sottoposto ad una visita medica di un luminare in cardiologia, che dopo accurati esami gli ha detto che può stare tranquillo: il suo cuore è sanissimo, si è sentito male solo per indigestione: troppo cibo e troppo vino.
Qui la maggior parte degli affabulatori del film non la racconta giusta. Dicono che Don Carmine si ritira sconfitto da Don Saverio e dalla famiglia. La realtà è diversa. Don Saverio si atterisce nel vedere il ritorno di Don Carmine e la famiglia è come lui, non sanno che fare. E' Don Carmine, sentimentale come ha da essere un vero guappo, che si accorge che in quella casa nessuno lo vuole e decide di andarsene da un'altra parte.
L'episodio è gradevole, ben raccontato, Totò è bravissimo, il pazzariello è divenuto famoso, ma che dire? Un ottimo episodio di commedia all'italiana ambientata a Napoli e che segue gli stereotipi della napoletanità che erano già nel libro di Giuseppe Marotta, di cui inserisco, a mo' di curiosità culturale, tre brani tratti dal suo libro Marotta Ciak Bompiani, 1958.
Ciò che scrive Marotta è inesorabilmente datato, non mi convince il suo modo di umiltà finta e di livore vero, non mi convince il suo sotteso credere che ci fosse quasi una congiura ai suoi danni. E credo che il merito del molto di buono che c'è nel film l'Oro di Napoli sia della genialità di Vittorio De Sica. Un certo tipo di napoletanità ce l'abbiamo sotto gli occhi da sempre, e non possiamo farcela piacere:

Un libro che non ha mai smesso, dal '47 a oggi, di essere venduto; un libro che ricorre e ricorrerà puntualmente, oso affermare, come le tasse. Perché? È una domanda che nessun pontefice letterario si rivolge. Ma il nostro é un paese dove Panzacchi ebbe, dalla Cultura e dai Governi, più lodi e riverenze di Leopardi. Qui Giovanni Verga diceva a Ferdinando Martini: «Ossequi, Eccellenza». Forse gli baciava la mano.
...
Quando il film tratto dal mio più fortunato volume di racconti napoletani fu presentato, io non volli, s'intende, parlarne da critico. Dissi: fate conto, amici, che il peggio del film sia colpa mia, e che il poco o molto che esso ha di buono, sia merito di Zavattini e De Sica. Non potevo essere meno vanitoso, credo. C'e chi si uccide col revolver, c'è chi si uccide con i barbiturici o gettandosi dalla terrazza, ma c'è chi (io, io) si uccide con l'umiltà.
...
lo e Zavattini, che fummo gli sceneggiatori, commettemmo un grosso errore. Non avremmo dovuto abbandonarci alla suggestione panoramica del titolo, che ci obbligò ai capitoletti, al frammento. La penna é una cosa, l'obiettivo cinematografico un'altra. Scorci e sintesi e inviti a immaginare (che spesso formano il pregio di un libro) non sono concepibili in un racconto visivo. Ma anche ridotta alla nuda sostanza, ciascuna vicenda, originariamente stivata per miracolo in cinque o sei paginette, esigeva un intero film.


Vengo all'altro episodio, Il professore, che è quello che chiude il film. Don Ersilio Miccio (Eduardo De Filippo), vende saggezza. Qui lo vediamo mentre utilizza un lungo pettine di pulizia sospetta come se fosse una bacchetta d'orchestra. In realtà porta il cravattino perché alla sera suona in un complesso un repertorio di canzoni di tradizione.
Normalmente, veste in modo più dimesso ed anche lo studio in cui esercita la sua seconda professione (second career direbbero oggi) è una specie di enorme ripostiglio in cui c'è di tutto. Durante l'episodio lo vediamo affrontare due problemi delicati. Il primo è che giaculatoria iscrivere sotto l'altarino alla Madonna che una fedele (Tina Pica) accudisce. Il secondo è persuadere un aspirante guappo a non sfregiare la fidanzata perché gli ha negato la prova d'amore.

Ma l'importante problema che trova soluzione durante l'episodio è quello creato dal nobile Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornai (Gianni Crosio). Questi, col solo pretesto di abitare nel palazzo avito ubicato in fondo al vicolo, pretende che quando esce in macchina cessino tutti i commerci che si svolgono in mezzo al vicolo, asserendo che altrimenti la macchina non passa ed inoltre ricorrendo alle forze dell'ordine con la sola scusa che tali commerci sono vietati.

Un comitato si presenta da Don Ersilio perché non se ne può più della spocchia del nobiluomo Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornai.

Don Ersilio, che qui sopra si vede in altro abbigliamento mentre si lucida le scarpe, prende a cuore la faccenda, perché il popolo va ascoltato, acciocché non sorgano guai peggiori. Quindi prospetta come soluzione definitiva il pernacchio, ma un pernacchio di tipo assai sofistico, in cui occorre umettare le labbra, disporre la mano in modo acconcio, allenarsi a pronunziare di un sol fiato un impegnativo nome come Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornai. Tutto prima del satori del Prrrrr!!! Il comitato riceve, dopo una dettagliata spiegazione esemplificativa, l'incitamento a studiare con solerzia, ma in segreto, perché l'effetto sorpresa è importante.

Finalmente si passa all'azione, e qui sopra vediamo il volto del nobile Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornai, inseguito dal Prrrrr!!! regolamentare però effettuato con labbra umettate, mano parallela al suolo terrestre e con una durata che arriva quasi a quindici secondi, un'eternità. Non una cosetta secca secca così tanto per farla, proprio una rivoluzione, la rivoluzione del pernacchio. Appunto.

Come immagine di chiusura inserisco Don Ersilio Miccio durante il suo lavoro serale di suonatore di violino. Non suonatore di chitarra, come erronemante si affabula, ma proprio di violino. O è una viola?

venerdì 28 novembre 2008

I soggetti nel cinema: belli, maledetti e magici

Twilight (2008)


Roby
Il tam-tam fra le giovanissime è già in corso: sugli schermi italiani è uscito Twilight, ultimo esemplare di cinema adolescenzial-magic-horror, e tutte -o quasi- sono disposte a lunghe file per vederlo, rivederlo e poi vederlo ancora, come la diciottenne che ha tentato (non so con quale risultato) di entrare nel Guinness dei primati restando incollata alla poltrona della sala per due giorni di seguito. "Quello che voglio in realtà" ha dichiarato alle telecamere, prima di intraprendere l'impresa "è attirare l'attenzione del bellissimo Edward, così magari s'incuriosirà e vorrà conoscermi!". L'Edward in questione è il tipo col ciuffo e la t-shirt alla James Dean che vedete al centro della foto d'apertura, impersonato da Robert Pattinson. L'occhio venato di rosso, le labbra vermiglie e la carnagione cadaverica ne denunciano chiaramente il dna vampiresco, che tuttavia non gli impedisce di innamorarsi della sua Bella (di nome, se non di fatto) indipendentemente dal di lei gruppo sanguigno. Insomma, amore che scorre letteralmente nelle vene, facendo impazzire il pubblico teen-ager dei cinque continenti.


Harry Potter e l'ordine della fenice (2007 )

Ma osservando il poster dell'ematica pellicola ho avuto come l'impressione di un déja vu, neppure troppo lontano... e così sono risalita ad un altro campione d'incassi fra gli under 21, anch'esso caratterizzato da un personaggio maschile centrale, tormentato e -di episodio in episodio- sempre più tendente al dark: mi riferisco ad Harry Potter , nato come beniamino dei bambini delle elementari e via via cresciuto incupendosi sempre più, tra prevedibili tempeste ormonali e incontrollabili incantesimi malefici, accompagnati dall'apparizione di creature demoniache decisamente repellenti e da atmosfere sicuramente inadatte a favorire sonni tranquilli non solo ai teneri bimbetti, ma neppure ai loro genitori e nonni. Personalmente, io ho resistito soltanto ai primi due dvd della serie, con uno sforzo di volontà davvero eroico. Anche perchè questa J.K.Rowlings, autrice dei libri originari, sarà forse una discreta scrittrice ed un'accorta manager di se stessa, ma è soprattutto -almeno per me- una scopiazzatrice abilissima di mitologia greco-romano-celtica : senza contare che la figura del ragazzino simpatico e povero, maltrattato dai parenti antipatici e ricchi, che alla fine la spunta su di loro grazie ad un intervento magico è presa pari pari da decine e decine di fiabe comunissime a tutte le latitudini (vogliamo parlare di quella gran ... di Cenerentola, come diceva la signora SanGiacomo in Pretty woman?)

Kirsten Dunst, Brad Pittt e Tom Cruise in Intervista col vampiro (1994)

La magia, il miracoloso, la meraviglia: ecco il terzo ingrediente, dopo la prestanza fisica e il cuore di tenebra, che caratterizza gran parte di questo filone. Magia bianca o -più spesso- magia nera, poteri eccezionali, invulnerabilità oppure -come nel caso dei vampiri- vita eterna, seppur con qualche piccolo accorgimento. Impossibile non fare un richiamo a Intervista col vampiro, dove gli occhi delle spettatrici hanno di che rifarsi, tra Cruise, Pitt e Banderas, tutti in splendida forma, benchè costretti (per salvare pelle e denti) a muoversi di notte in compagnia di topi e pipistrelli. Qui l'impronta gotica e orrorifica è ancora più calcata, tanto da non rispettare in pieno lo stile dei romanzi di Anne Rice da cui è tratto il soggetto. Ma la volontà di coniugare bellezza e terrore, amore e morte, reale e soprannaturale è sempre presente, e risulta in ultima analisi una ricetta vincente al botteghino.



Ancora Cruise e Pitt in Intervista col vampiro



Qualcosa di simile era avvenuto anni fa per Il Corvo, che aveva segnato l'ascesa e la prematura scomparsa, in un fatale incidente sul set, del protagonista Brandon Lee, sorta di incrocio fra Batman, Joker, Dracula e -visto il costume e il trucco di scena- un componente della band dei Kiss. Il povero Brandon non ha fatto in tempo a godersi il successo raggiunto, ma il suo film è diventato un cult, e può essere sicuramente considerato fra gli antesignani del genere dark di cui stiamo parlando.

A questo punto, però, lasciatemi lo spazio per un paio di astiose considerazioni. Le ragazzine di una volta (me compresa) riempivano il diario di cuoricini e margherite da m'ama-non m'ama, nella trepida attesa del sorridente Principe Azzurro che le avrebbe portate a palazzo sul suo cavallo bianco. Le ragazzine di oggi (la mi' figliola inclusa) e di domani, a giudicare dall'aria che tira, cosa disegneranno sui loro quaderni? Teschi con le tibie incrociate? Aspettando probabilmente un becchino palestrato, pallido e imbronciato, pronto a caricarle sul suo ippogrifo per condurle a bere sangue di drago sopra la tomba del conte Dracula... il tutto, ovviamente, in una notte rigorosamente senza luna.


Brandon Lee in Il Corvo ( 1994)

giovedì 27 novembre 2008

Vai e vivrai

Va, vis et deviens di Radu Mihaileanu (2005) Sceneggiatura di Alain-Michel Blanc, Radu Mihaileanu Con Yaël Abecassis, Roschdy Zem, Moshe Agazai, Moshe Abebe, Sirak M. Sabahat, Roni Hadar, Yitzhak Edgar, Rami Danon, Meskie Shibru Sivan, Mimi Abonesh Kebede, Raymonde Abecassis Musica: Armand Amar Fotografia: Rémy Chevrin (140 minuti) Rating IMDb: 8.0

Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce

Non sapevo chi fossero i Falasha né conoscevo “l’operazione Mosé”. L’ho scoperto vedendo il film “Vai e vivrai”. Lo stesso regista rumeno Radu Mihaileanu venne a conoscenza per caso di questa storia, durante il lancio americano di Train de vie.

"Mi ricordavo dell'operazione Mosè e della rimpatriata degli ebrei etiopi in Israele nel 1984", spiega il regista "ma non mi ero mai reso conto dell'enormità di questa avventura umana. Poi grazie a un incontro con un Falasha, a Los Angeles, ho capito che in tutta questa storia loro erano rimasti delle comparse. Quest'uomo mi ha raccontato la sua epopea, il suo viaggio a piedi fino al Sudan dove tutti gli ebrei erano in pericolo di morte, la vita nei campi dei rifugiati, la loro accoglienza e le loro difficoltà in Israele. Ero allo stesso tempo commosso e indignato dal fatto che non se ne sia parlato prima. Ho iniziato così ad approfondire, e ciò ha alimentato la mia emozione, il mio desiderio di conoscere meglio i Falasha e, poco a poco, la voglia di dedicare loro un film". I Falasha erano gli “ebrei d’Etiopia”: cioè gli 8.000 neri di religione ebraica, discendenti del re Salomone e della regina di Saba, che nel 1984 una carestia e la repressione del governo etiope costrinse, insieme a altre centinaia di migliaia di africani, a abbandonare la propria terra ed emigrare verso il Sudan, il cui governo musulmano fu però ostile nei loro confronti. Per soccorrerli Israele varò allora «l’Operazione Mosé»: il governo di Israele decise allora di trasportarli nel proprio paese attraverso un ponte aereo.


L’attore Sirak Sabahat, 23 anni, un Falasha che ha vissuto questa vicenda. Così, vent’anni dopo, Mihaileanu affida proprio a Sirak il ruolo di protagonista del suo Vai e vivrai. Schlomo è un bambino cristiano. Nel campo profughi, una madre ebrea perde il bambino appena nato. La madre capisce come la possibilità di sopravvivere in quel campo profughi sia quasi nulla per suo figlio, e lo affida alla donna ebrea per farlo fuggire dal campo fingendosi ebreo. E’ così che Schlomo riesce ad arrivare in Israele. Si salverà, ma dovrà continuamente nascondere il suo segreto.
In Israele è adottato da una famiglia di ebrei francesi, benestante e di sinistra, che vive a Tel Aviv. Cresce con la paura che qualcuno scopra il suo segreto e le sue menzogne: né ebreo, né orfano, solo nero. Diventa un bambino triste, tiene gli occhi sempre bassi e li alza solo di notte, quando nessuno può vederlo. Guarda la luna sognando di tornare dalla madre che ha dovuto lasciare.

Pian piano tornerà a rivivere, conoscerà l'amore, il giudaismo e la cultura occidentale ma anche il razzismo e la guerra nei territori occupati. Diventerà ebreo, israeliano, francese, tunisino, ma non dimenticherà mai la vera madre rimasta in Sudan e che segretamente e ostinatamente sogna di potere ritrovare. Nel titolo originale c’è tutto il significato del film.

Il monito «Va, vis et deviens!», tradotto in maniera riduttiva nel titolo italiano, si presta a due interpretazioni. Si riferisce naturalmente alle parole che la madre dice al figlio prima di lasciarlo, parole con le quali gli spiega le ragioni del suo gesto: un lascito profetico che toccherà a Schlomo realizzare. I tre comandi corrispondono ad altrettanti momenti della sua vita: “va” è il distacco e l’esodo, “vivi” è l’accettazione della nuova esistenza che racchiude l’avvicinamento alla famiglia adottiva e le esperienze della vita di un qualsiasi adolescente, infine “diventa” indica la tappa conclusiva del suo percorso formativo.

Un secondo livello di analisi ci riporta alla cultura ebraica che si rivela anche dietro l’agire della mamma cristiana di Schlomo «Va, vis et deviens!» non solo corrisponde all’atto doloroso d’amore di una madre, ma richiama fortemente l’imperativo esistenziale su cui si regge la filosofia semitica. La Loewenthal, esperta di giudaismo, fa risalire la ragione della sopravvivenza millenaria di uno dei popoli più piccoli della Terra ancora una volta al rispetto dei Testi Sacri: «dalla Bibbia in poi, il primo comando imposto ai figli d’Israele dal cielo è: Sopravvivi!, Esisti!, Vivi! [...] “Scegli la vita!” è il precetto fondamentale dell’ebraismo, che va preso alla lettera, tale qual è. Se non altro per ubbidienza a Dio, dunque, gli ebrei sono sopravvissuti» (Loewenthal 2002).

Ma direi che questo imperativo è proprio di tutti quelli che, se vogliono vivere, devono lasciare la propria terra e cercare altrove la propria salvezza.

Schlomo diventa medico, assolve così i tre precetti e torna come dottore, alla ricerca della sua prima madre, nel campo profughi da cui diciassette anni prima era partito.


Nella sequenza conclusiva Mihaileanu racconta la storia non narrata nel film, quella di coloro che sono rimasti in Africa. Secondo il regista «il cinema è l’arte del non mostrare. Il vero soggetto è ciò che non viene mostrato attraverso l’immagine». Lo spettatore dovrebbe sentirsi stimolato e chiedersi cosa è successo in quel campo africano durante quei diciassette anni. La luce ha nascosto la storia dell’Africa, terminata quando i fari dei camion alla partenza avevano rubato la madre allo sguardo del bambino, e torna a mostrarla quando il riflesso del sole su una latta attira lo sguardo di Schlomo adulto che vi vede proiettata la sagoma della donna.

Il lamento profondo e sordo della madre che riabbraccia il figlio si allarga nel finale, con un’inquadratura di tutte le persone ammassate nel campo: un continente immobile che invano cerca una via di uscita al proprio terribile destino quello di non poter né essere né diventare.

Il diritto alla vita sembra sempre più spesso passare attraverso una dichiarazione di appartenenza e il più debole è costretto a tutto anche a mentire sulla propria identità per conquistarsi un posto nel mondo. Cosa può capire un bambino delle regole dei grandi, quando tenta di coprirsi gli occhi terrorizzati per non svelare il suo segreto? Eppure per Schlomo ci sono mani tese e braccia aperte, quelle di una nuova famiglia che lo accoglie con affetto, tra le amorevoli cure di una madre protettiva, pronta a leccargli il volto di fronte a chi lo discrimina.

"Schlomo è il nostro mondo, - dice il regista - che ha bisogno di essere accudito e salvato dal cuore grande delle madri”.


martedì 25 novembre 2008

L'uomo che amava le donne (1)

Sabine Glaser (Bernadette)

L'homme qui aimait les femmes di François Truffaut (1977) Sceneggiatura di Michel Fermaud, Suzanne Schiffman, François Truffaut Con Charles Denner, Brigitte Fossey, Nelly Borgeaud, Leslie Caron, Nathalie Baye, Valérie Bonnier, Jean Dasté, Sabine Glaser, Nella Barbier, Anne Bataille, Martine Chassaing, Ghylaine Dumas, Monique Dury, Roger Leenhardt, Christian Lentretien, Rico López, Marie-Jeanne Montfajon, Valerie Pecheur, Anna Perrier, Roselyne Puyo, Michel Ricordy, Frédérique Jamet, Michel Marti Fotografia: Néstor Almendros (120 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
Per "L'uomo che amava le donne" mi ci vorranno tre o quattro post. Comincio a raccontare la storia a modo mio, non seguendo necessariamente la cronologia. Questo film lo consiglio a chi ha dovuto e potuto fare per anni ed anni dei conti a volte difficili, aspri, dolorosi, ma sempre vitali con un sentimento impegnativo: l'amore. Senza partiti presi, senza sublimità né volgarità (che spesso marciano insieme) si giunge a capirne qualcosa, e in un certo modo strano, inesprimibile a parole, si è contenti di quello che è successo, comunque sia andata. Ma quante contraddizioni! Guai se non ci fossero.


Bertrand Morane (Charles Denner) è un uomo di quarant'anni. Non è sposato e svolge un lavoro tecnico: il collaudatore di modelli di aerei, può darsi che sia ingegnere. E' curioso come questo mestiere compaia in altri due film di Truffaut: Domicile conjugal e La femme d'à côté. Bertrand, oltre al suo lavoro, ha due passioni: la lettura e le donne.
Un giorno compra qualcosa in un negozio ubicato in un seminterrato e, mentre sta pagando alla cassa, si distrae per guardare una donna di cui però non scorge il volto, al massimo vede quello che i pittori chiamano profilo perduto.
Niente di strano, la donna non è vistosa, ma veste con eleganza singolare, sia per l'accostamento dei colori del foulard e del vestito, sia per il modo apparentemente trascurato ma in realtà ben studiato con cui è annodato il foulard.


La donna fa alcuni altri passi nel negozio, sempre senza voltarsi verso Bertrand, e la cinepresa, che è lo sguardo di Bertrand, si sofferma sulla gonna con le frange e sulle gambe snelle, poi, fuori dal negozio, segue la donna che si dirige verso la macchina posteggiata quasi di fronte.
E qui succede qualcosa di strano: Bertrand si precipita in strada, evidentemente per seguire la donna, magari per riuscire a parlarle. Ma la macchina sta partendo, allora Bertrand estrae rapidamente un taccuino e prende nota del numero di targa.


Bertrand è fattivo, vuole sapere il nome di quella donna; per lui quella informazione è come se fosse vitale. Sale sulla sua macchina e fa in modo di andare a sbattere contro un muro. Danni non gravi, ma evidenti. Risulta all'assicurazione che l'altra macchina è di proprietà della società Midi Car, che noleggia automobili. Va alla Midi Car, e dice che una loro macchina guidata da una donna è venuta a sbattere contro la sua macchina e non si è fermata, però lui ha fatto in modo di prendere il numero della targa. Farà denuncia per il sinistro ma intanto vuole il numero telefonico di chi ha provocato l'incidente per chiedere spiegazioni.
Bertrand è tutt'altro che sprovveduto, se la gioca abilmente, ma l'impiegata gli dice che lo capisce, ma che non lo può fare, proceda in via assicurativa. Però nell'ufficio della Midi Car c'è un'altra impiegata cha ascolta con attenzione. E prima che Bertrand riparta desolato, l'impiegata, che si chiama Bernadette (Sabine Glaser) gli dà il numero telefonico ed il nome.


Bertrand telefona, non trova la donna ma i genitori, gli tocca aspettare che la donna rientri -ore di tensione per lui- finalmente gli risponde Martine Desdoits (Nathalie Baye) e Bertrand va giù piatto, le racconta il perché e il percome, la ragazza sembra divertita e accetta l'appuntamento in un caffé (è molto curiosoa di conoscere un uomo fatto in quel modo). Martine Desdoits non è di Montpellier, e quindi Bertrand deve sorbirsi un bel po' di chilometri in macchina, ma gli fa compagnia il ricordo visivo di quella gonna con le frange e soprattutto di quelle gambe.

Al caffé dell'appuntamento, arriva Bertrand, poi arriva Martine, in pantaloni, non con la gonna, e sembra divertirsi molto. Il motivo è che alla guida della macchina non c'era lei, ma una sua cugina che doveva fare delle spese urgenti in un negozio. Martine mostra a Bertrand una fotografia in cui c'è lei con sua cugina. Così Bertrand vede la differenza fra le due e soprattutto vede per la prima volta il volto della donna che sta inseguendo come se fosse questione di vita o di morte.
Ma la cugina di Bertrand è appena partita per il Canada, precisamente per Montreal, e Bertrand dice subito: "Benissimo, a Montreal ci sono già stato". Si scoraggia un po' solo quando apprende che la cugina è partita insieme al marito e che sono sposati da appena due anni. Quindi gentilmente saluta e ringrazia Martine, che secondo me si aspettava di essere invitata a cena ed avrebbe sicuramente accettato l'invito. Bertrand va capito, era sotto choc.


Bertrand sta tornando in macchina a Montpellier, ma non c'è più il ricordo visivo di quella gonna con le frange e di quelle gambe. Appare un'altro ricordo, il viso di Bernadette, l'impiegata della Midi Car che con lui è sta così gentile. Appena a Montpellier, compra una scatola di cioccolatini, si precipita alla Midi Car, Bernadette è appena uscita e sta salendo in macchina, ma stavolta Bertrand arriva in tempo. Bernadette è piacevolmente sorpresa, e quando lui le dice: "Potremmo andare a cena, una di queste sere", Bernadette esita solo un momento, poi dice che sì, le piacerebbe. Bertrand dice: "La invito a cena questa sera stessa". E i due non andranno solo a cena insieme.

Mi fermo qui, col primo post, così avete cominciato a conoscere Bertrand. Inserisco una frase di Bertrand, che fa parte della mirabile sceneggiatura a cui ha messo mano soprattutto una donna, Suzanne Schiffman:
"Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutti i sensi, dandogli il suo equilibrio e la sua armonia."

lunedì 24 novembre 2008

I soggetti nel cinema: Hercule Poirot

David Niven, Peter Ustinov e Bette Davis, Assassinio sul Nilo (1978)

Roby
Non so voi, ma io non riesco ad immaginarmi fisicamente il personaggio di un libro senza ispirarmi alla figura in copertina, o alle illustrazioni all'interno, o almeno alla faccia dell'attore che lo ha interpretato al cinema o in tv. Se non ho a disposizione nessuno di questi appigli, il personaggio letterario -nella mia mente- resta senza volto, o con i tratti sfumati di una figura intravista nella nebbia. Ad esempio, nel caso di Robin Hood (ne ho già parlato tempo fa) io lo vedo personificato in Errol Flynn, e per me non c'è Kevin Costner che tenga!

Trevor Austin (1934)

Se il discorso si sposta su caratteri come il Poirot di Agatha Christie, tuttavia, la scelta di facce diventa molto più ampia e variegata. A partire dal lontano 1934, quando a prestare le proprie sembianze al piccolo investigatore belga (belga, mi raccomando! non francese!) fu Trevor Austin: del quale purtroppo si reperiscono in rete ben poche immagini... anzi, non più di una, che vi allego qui sopra.


Tony Randall (1966)

Ugualmente poco rappresentato -nelle vesti dell'eroe della Christie- Tony Randall, più noto come ottimo caratterista in tanti film degli anni '50 e '60 con Doris Day e Marylin Monroe (Facciamo l'amore è uno di questi). Più significativa la presenza di Albert Finney, che indossò baffetti e chioma impomatata solo in Assassinio sull'Orient Express, risultando un Poirot molto convincente benchè il suo fisico imponente contrastasse alquanto con la descrizione letteraria del piccolo, rotondo Hercule (da rileggere in merito il post di Solimano del 4 marzo u.s.)

Albert Finney (1974)

Neppure una foto in abito di scena ho potuto trovare di Ian Holm, interprete del detective in Murder by book del 1986: film comunque curioso, perchè non tratto da un romanzo di lady Agatha, ma ispirato alla sua opera, e con lei stessa come protagonista.


Ian Holm (1986)

Il Poirot per eccellenza, almeno sul grande schermo, resta per me il Peter Ustinov di Assassinio sul Nilo, il giallo/Christie per antonomasia, appartenente -insieme a Non c'è più scampo e La domatrice- alla trilogia mediorientale della scrittrice: la quale, avendo sposato in seconde e migliori nozze un archeologo di lei ben più giovane, dichiarò entusiasta: "Che meraviglia! Più invecchio, più mio marito mi apprezza!".
Tornando a Ustinov, non si può ovviamente dire che le sue caratteristiche fisiche corrispondano a quelle del bassetto Testa d'uovo: eppure il suo modo di gesticolare, la presenza di spirito, l'ironia, lo sguardo malizioso sono così tipicamente poirotiani da far dimenticare tutto il resto.


Peter Ustinov (1978 - 1988)

L'aderenza al testo letterario è stata invece minuziosamente rispettata nella scelta dell'interprete della serie televisiva britannica Agatha Christie's Poirot (delizia di tante mie serate su Rete4), quel David Suchet giunto ormai alla 20° annata nelle vesti dell'investigatore dai curatissimi baffetti all'insù. E il bravo David ha l'aria di essersi calato a tal punto in quei panni da risultare ormai inscindibile dal personaggio: male per gli ulteriori sviluppi della sua carriera, ma bene- certamente- per il cachet che potrà pretendere per la prossima stagione.


David Suchet (1989 - in corso)


Di Alfred Molina, Poirot in un remake tv di Assassinio sull'Orient Express, francamente non saprei che dire, se non che -da alcune immagini trovate in rete- intuisco si tratti di una trasposizione della storia in epoca contemporanea: la qual cosa in verità mi suscita vari dubbi, perchè sarebbe un po' come trasferire di peso Robin Hood nell'Ottocento, o Indiana Jones nel XXII secolo.

Alfred Molina (2001)

Dulcis in fundo, che ve ne sembra di un Hercule Poirot a cartoni animati -produzione giapponese del 2004- affiancato, per di più, da un'improbabilissima Miss Marple e da una ragazzina che è l'incrocio fra Candy Candy senza trecce e Mila (quella di Mila e Shiro due cuori nella pallavolo) senza pallone?
Io, arrivata a questo punto, non so più cosa pensare. E poichè si è fatto tardi, e il sonno incombe, mi avvio verso il comodino, dove -dalla copertina dell'edizione Mondadori 1984 di Assassinio sul Nilo- mi osserva enigmatico e sfuggente un Poirot in doppio petto candido, magistralmente disegnato da Karel Thole.


Poirot versione cartone giapponese (2004)