sabato 31 marzo 2007

L'avventura

L'Avventura di Michelangelo Antonioni (1960) Con Gabriele Ferzetti, Lea Massari, Monica Vitti, Dominique Blanchar, Renzo Ricci Musica di Giovanni Fusco (145 minuti) Rating IMDb: 7.8
Giuliano
- Questa piccola villa verrà soffocata, tra poco.
- Lì ci verranno tutte case.
- Eh già. Non ci si salva più.
Difficile da riconoscere, ma questo dialogo è l'inizio di uno dei film più famosi di Michelangelo Antonioni, "L'avventura". E ' un film del 1960, ma non sembra. I protagonisti del dialogo sono Renzo Ricci, che interpreta il padre di Lea Massari (è lei che apre il film) e un anonimo muratore, che fa una rapida comparsa. Ricci è un diplomatico in pensione, e sua figlia sta per sposarsi con un architetto affermato. La piccola villa in questione è proprio quella del diplomatico, e sulle periferie romane incombe la speculazione edilizia.
Più avanti nel film, vedremo che il mancato genero, l'attore Gabriele Ferzetti, è molto ricco e affermato, ma soffre perché per il successo ha dovuto sacrificare la sua creatività, vera o presunta che fosse. Davanti allo splendore del barocco di Noto, in Sicilia, farà dei piccoli dispetti a un giovane architetto che sta studiando: rovescia sul disegno l'inchiostro di china, e sfiora la lite. Nel finale, tradisce malamente Monica Vitti, e piange.

Rivedendo questo film, dopo tanti anni, mi ha fatto una certa impressione notare che non è affatto invecchiato, e che anzi si è conservato benissimo, in tutta la sua modernità. Nel 1960, l'Italia poteva ancora salvarsi, ma la sua classe dirigente era fatta di tante persone della stessa stoffa dell'architetto interpretato da Ferzetti: per il denaro, e per il successo, si rinuncia presto al meglio di se stessi. E' una specie di patto col diavolo, un diavolo in apparenza bonario, come quello di tanti film di Alberto Sordi: praticamente non si vede, ma c'è e lavora. Ogni piccolo compromesso, con se stessi e con gli altri, è una sua vittoria. Nel film, e sempre a Noto, c'è anche questo dialogo fra Monica Vitti e Ferzetti:
- Io invece sono convinta che tu potresti fare cose belle...
- Non lo so... A chi servono ormai le cose belle? Quanto durano? Una volta avevano i secoli davanti, oggi al massimo sono dieci, vent'anni: e poi?
Ma siamo all'inizio di un amore, un amore ormai senza più remore, e quindi ci può essere un po' di ottimismo. Ma solo per la ragazza: ormai il nostro architetto sa che la redenzione attraverso l'amore non è più possibile, e che in fin dei conti anche l'Olandese Volante della leggenda viene sì salvato dall'amore di Senta, ma ad un prezzo troppo alto.
Oggi la speculazione edilizia, ben raccontata da tanti film degli anni '50 e '60 ( "Il tetto" di De Sica; "Le mani sulla città" , di Rosi...) è il nostro presente. Oggi ogni metro quadrato di asfalto o di cemento è un piccolo peggioramento, ma a convivere con il cemento e con l'asfalto ci siamo abituati, ed è questo ormai il nostro paesaggio naturale; e la stessa cosa è successa per i film, e per la pubblicità sempre più invadente con la quale vengono stravolti e infarciti, in televisione.

Travolti da un insolito destino ...

Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare di agosto di Lina Wertmuller (1974) Con Mariangela Melato e Giancarlo Giannini Musica di Piero Piccioni Costumi di Enrico Job (116 minuti) Rating IMDb: 7.2
Solimano
Sarà certo un guaio non avere il fren dell'arte, essere continuamente presi da una nuova idea e quindi non cogliere tutte le opportunità dell'idea precedente, non distinguere il grano dal loglio e quindi accendere il camino troppo alla brava rischiando di bruciare la moquette antistante o di affumicare tutta la sala. Rischi, trappole in cui la Wertmuller sarà caduta tante volte, fra l'altro contenta di caderci - aggravante o attenuante? Ma riuscire a non farsi incapsulare nel cinema di puro consumo, intessuto di superficiale grevità, senza diventare un maitre a penser del filmare stitico, non è stata una impresa da poco. Troppo generosa, corriva forse verso se stessa, infine generosissima con noi spettatori, specie gli acculturati che avevano ed hanno bisogno di prendere un po' di aria, di ridere anche, non col consueto sì ma, ma con l'inaspettato ma si! Il titolo completo è "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare di agosto". Tutto vero, è un destino insolito: "Bottana industriala socialdemocratica!" così Gennarino Carunchio insolentirà Raffaella Pavone Lanzetti. Gennarino è del Sud, povero, sposato con tre figli - o erano di più? - orgogliosamente comunista. Raffaella è milanese, moglie di un industriale - quindi industriala è corretto - insofferente della inferiorità delle classi inferiori: se la sono cercata, l'inferiorità, col loro essere del Sud, poveri, comunisti, per giunta in barca - gli spazi sono stretti - non si cambiano la maglietta a metà giornata. Passano la giornata sulla barca, lei è padrona, lui manovale. Ma sull'isola del naufragio le parti si rovesciano e la Pavone Lanzetti le cercherà tutte per recuperare, persino il "Sodomizzami!" è un modo per riprendere il controllo almeno linguistico, ma il signor Carunchio, sul momento a disagio, conferma la superiorità col suo: "Quanto siete complicati..." in fondo tollerante e generoso: un comunista che, siccome la rivoluzione ha vinto, può fare persino il paternalista. Era il 1974, dopo tre anni ci sarebbe stato poco da scherzare, ma in quel momento si poteva essere felici a girare un film del genere nell' estate di un posto vicino alla Sardegna. Con la Melato e Giannini prodigiosi entrambi, lei forse di più. Il finale è debole e malinconico? Non è vero, il finale è quale doveva essere, Raffaella non poteva diventare la signora Carunchio, né Gennarino il signor Pavone Lanzetti. Nelle serate invernali, a televisore spento, Raffaella e Gennarino avranno continuato ogni tanto - non sempre - a ripensarsi, divenuti migliori entrambi dopo la convivenza di pochi giorni - e notti - prima rognosamente necessitata, poi per ambedue travolgente. In amore, certe strane cose succedono, è bene stare attenti, ci sono delle trappole e ci si cade dentro facendo finta di evitarle, ci si cade apposta, così ci ha insegnato la Wertmuller non volendoci insegnare alcunché: la sua forza grande. Wertmuller ha cominciato la carriera ancora ragazzina facendo la burattinaia, mestiere bello ma difficile: i bambini non perdonano, i bambini siamo noi.

venerdì 30 marzo 2007

Fine del primo tempo

Mentre aspettiamo che inizi il secondo tempo vi voglio raccontare una storiella di qualche anno fa.

Il mondo è sconvolto da una guerra nucleare ed è necessario abbandonare il pianeta per emigrare verso la galassia di Orione. E' il momento di salire e ognuno dei superstiti, tra le poche cose personali, può portare con se anche un DVD con i tre film che in assoluto meritano di ricordare ai posteri il cinema del pianeta Terra.

Forza affrettatevi a salire, però all'ingresso dovete dichiarare i titoli dei vostri film preferiti. Chi non lo fa non potrà più... scrivere in questo blog!

Io porto con me:

2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick
Il Gattopardo di Luchino Visconti
Sentieri selvaggi di John Ford

Respiro

Respiro di Emanuele Crialese (2002) Con Valeria Golino, Vincenzo Amato (95 minuti) Rating IMDb: 6.9
Solimano
Nelle sere calde d'estate ho due scelte, per i cinema all'aperto: l'Arena di Villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo e il cortile in Villa Visconti d'Aragona a Sesto San Giovanni. Preferisco di gran lunga Villa Ghirlanda - il più bel cinema all'aperto della Lombardia - anche se le zanzare sono più voraci, ma Respiro di Crialese l'ho visto a Sesto, su schermo piccolo e seduto su seggiole scomode, tipo quelle della Festa dell'Unità, che poi sono le stesse della Festa dell'Amicizia, se le prestano. Grazia è malata di mente, ma una malata a suo modo, per troppa vitalità. Ama riamata il marito e i tre figli, ma dà fastidio alla gente per essere come è. Non ci sono mezze misure, e anche l'isola Lampedusa è così, bellissima e sordida, con i cani che scappano da dove sono rinchiusi e gli isolani che li uccidono a fucilate in pieno paese. Il titolo Respiro è perfetto, nulla di più quotidiano del respiro, la concentrazione sul respiro l'ho provata, non ne ho ottenuto molto, ma è l'esperienza primordiale, la prima cosa che uno fa appena nato e l'ultima che fa il giorno che muore. E' una quotidianità in cui il mito si trova a suo perfetto agio, non è un mito falso, è un mito risolutore. Difatti ero tentato di mettere una immagine di Valeria Golino, ce n'è una bella in cui sta seduta da sola su una spiaggia sassosa ma ho preferito l'immagine corale che chiude il film: tutti insieme a nuotare sott'acqua, un mito che diventa rito. Ma niente tiramenti intellettualistici, niente sguardo che però si chiama fuori e fuori rimane, come se quello che si guarda divenisse un quadro appeso al chiodo di una parete: Respiro è quotidiano, sa di cibo e di amplesso, di litigate assurde e di abbracci definitivi. Vorrebbero mandarla a curarsi a Milano, Grazia, lei si nasconde e il figlio più grande sa dov'è e la va a trovare. Tutto così inventato e così vero. Niente bozzettismi e macchiette, che in questi film isolani sono sempre nel menù. Il Sud è il Sud in presa diretta, con le sue sporcizie e le sue meraviglie, proprio come il mare, amante temuto. Si parla di crisi del cinema perché qui e perché là, poi arriva una sera calda, vai in un cinema bruttarello e ti trovi di fronte a un film come Respiro, per cui una volta tanto l'aggettivo omerico è appropriato: Grazia ha in sè della Calipso, della Circe, della Nausicaa, persino della Penelope, pensa un po'. Miti non falsificati, miti che durano, da riduzionista convinto mi ci trovo bene in miti del genere. E adesso? Non lo so. Libera Valeria Golino di tornare alle gradevoli parti fra l'erotico e il nevrotico, libero Crialese di non farlo più, un film come Respiro. Ma qui entrambi - più tutto il paese adulti, bambini e cani - hanno detto, hanno mostrato cose che ho cercato volentieri di fare mie. Non sono il solo, in rete ci sono commenti entusiasti in tedesco e in spagnolo, certi miti ce li abbiamo dentro tutti, gran giorno quello in cui ce ne accorgiamo.


giovedì 29 marzo 2007

La Rosa Purpurea del Cairo

The Purple Rose of Cairo di Woody Allen (1985) Con Mia Farrow Musica: Dick Hyman (84 minuti) Rating IMDb: 7.4
Manuela
Per molto tempo non ne ho parlato, per evitare i sorrisetti di compatimento di chi lo liquidava come uno dei soliti film d’amore, leggerini, gradevoli magari, ma niente di che, mille miglia lontano dai film che fanno pensare davvero. Roba da donna, ecco.
Ho tenuto per me la bellezza dello schizzo d’ambiente, tratteggiato a matita, che con pochi segni racconta un mondo. Ho tenuto per me l’incanto di Cecilia, che dimentica le amarezze e le violenze della vita chiudendosi in un cinema. Ho tenuto per me il coinvolgimento emotivo con questa donna che cerca nel film un mondo dove è bello vivere, popolato di uomini affascinanti e, più di tutto, buoni e gentili – i libri, i film, non svolgono forse per tutti noi la stessa funzione? Ho tenuto per me l’ammirazione per la mano delicata, ferma e compassionevole che ha disegnato la psicologia dei personaggi. Il cacciatore bianco, tanto eroe nella celluloide quanto inetto nella realtà, impacciato dalle contraddizioni della vita vera, confuso dalle sue illogicità. Il rude marito di Cecilia, manesco e volgare, capace di dimostrare l’amore come uomini di quella fatta sanno dimostrarlo, con le sberle, e qualche lampo di umanità incapace di redimerlo. Il perfido Gil, attore interessato solo alla propria carriera, che si incarica di rimettere le cose a posto e distruggere il sogno d’amore di Cecilia perché lo show possa go on, e l’ordine riprendere a regnare: oh, ma non è cattivo, sapete? Gli dispiace per Cecilia, almeno per cinque minuti: vedete la sua espressione triste in una delle ultime scene del film? E’ l’espressione di chi fa sporchi lavori, con la scusa che qualcuno deve pur farli: e quanti ce n’è, in giro…..
Per molto tempo ho tenuto per me l’amore per gli occhi sgranati di Cecilia, nello stesso tempo ingenui e carichi di esperienza. Cecilia, che vive il suo grande sogno e poi sceglie la realtà, forse sapendo già che la realtà l’avrebbe fregata; e forse sapendo anche che, se quel sogno si fosse avverato, avrebbe distrutto tutti i sogni di tutte le cecilie del mondo. E tuttavia non rinuncia a sognare.
Ho tenuto per me tutto questo e molto altro – il tempismo perfetto, l’ironia e l’autoironia, il metafilm che parla del film, ecc.ecc. - che scoprivo ogni volta che rivedevo, in DVD, in casa, sola – per evitare risatine e sguardi di compatimento – questo film.
Poi ho incontrato un uomo che ci vedeva le stesse cose che ci vedevo io, e molte altre cui non avevo mai pensato. Come potevo non innamorarmene?

Mezzogiorno di fuoco

High Noon di Fred Zinnemann (1952) Sceneggiatura: Carl Foreman Interpreti: Gary Cooper, Grace Kelly, Thomas Mitchell Musica: Dimitri Tiomkin (85 minuti) Rating IMDb: 8.3
Ottavio
Quando passo in rassegna la mia collezione di film in videocassetta, cosa che mi capita ogni tanto, inevitabilmente mi soffermo sui classici anni ‘50 e dintorni. Se poi sono stati realizzati in splendido bianconero allora sono oggetto di vero e proprio culto (dev’essere la vecchiaia!). Non sono molti, però, quelli che mantengono lo stesso fascino nelle due visioni, da adolescente e da uomo maturo. Uno è “Mezzogiorno di fuoco”.
Nel West non più troppo selvaggio lo sceriffo (Gary Cooper) di una cittadina si sposa (con Grace Kelly), dà le dimissioni dall’incarico e si prepara a partire. Ma cambia idea quando apprende che con il treno di mezzogiorno arriverà un bandito, da lui arrestato per omicidio, che vuole regolare i conti con l'aiuto di tre complici. Abbandonato da tutti, amici e concittadini, affronta da solo gli aggressori e li uccide.
Nel periodo d’oro del genere western, gli anni del dopoguerra, cercavo di non perdermene uno. E “Mezzogiorno di fuoco” aveva tutti gli ingredienti per soddisfare un appassionato. Una canzone suggestiva accompagnava i titoli del film, iniziando con gli indimenticabili versi:

do not forsake me, oh my darling
(non abbandonarmi, mia cara
on our wedding day… (nel giorno del nostro matrimonio…),

un cavaliere senza macchia e senza paura si preparava ad affrontare una banda di cattivi, i pavidi concittadini che si ritraevano alle sue richieste di aiuto, una tensione che aumentava col passare del tempo scandito dall’orologio della stazione, fino al duello finale con l’inevitabile vittoria dell’eroe.

Rivisto anni (molti) dopo, conferma la bontà della confezione, ma questo era scontato visto il buon sangue di regista ed interpreti. Fred Zinnemann ha sempre diretto buoni film e gli attori erano tutti ottimi professionisti, anche quelli delle parti secondarie. Gary Cooper aveva il phisique du rôle dell’eroe donchisciottesco e Grace Kelly impersonava bene la sposa quacchera. Nel film compare nella parte di uno dei banditi Lee Van Cleef, visto in seguito in tanti film western o gialli sempre in particine da gangster, fino alla sua scoperta da parte di Sergio Leone nella fortunata serie di western all’italiana.
Rappresenta anche una metafora valida in ogni tempo sullo scontro tra la prepotenza e il rispetto delle regole. Non per niente il film è stato realizzato durante il maccartismo negli Usa, con il soggetto scritto da uno dei perseguitati dal famigerato senatore. In questo eterno conflitto fa spesso solo da spettatrice la zona grigia costituita dai “teniamo famiglia” o dai “i politici sono tutti uguali” o dai “io mi faccio i fatti miei” etc.
Come ha fatto la borghesia italiana (salvo le lodevoli eccezioni) all’avvento del fascismo, i concittadini dello sceriffo Gary Cooper, prevedendo che soccomberà nella lotta impari, si preparano a farsi tiranneggiare dai banditi pur di salvare la vita e i commerci. Anche in seguito ci sono state nel nostro paese situazioni paragonabili, fino ai giorni nostri, ma su queste taciamo per amor di Patria.

Luci d'inverno

Luci d'inverno di Ingmar Bergman (1962) Con Ingrid Thulin, Gunnar Bjoerndstrand, Gunnel Lindblom, Max von Sydow Fotografia di Sven Nykvist (81 minuti) Rating IMDb: 8.1
Giuliano
E' un film di Ingmar Bergman del 1962: il titolo italiano è "Luci d'inverno", e racconta di un prete che ha perso la fede, e che alla fine del film si trova a dire Messa davanti alla Chiesa vuota. Il protagonista è Gunnar Björnstrand, grande attore che fu lo scudiero del "Settimo Sigillo"; un altro personaggio importante è interpretato da Max von Sydow, che in quello stesso film era il cavaliere che tornava dalle crociate e trovava un mondo devastato. In "Luci d'inverno" Max von Sydow intepreta un personaggio ben più umile: si chiama Jonas, è un semplice parrocchiano, e sua moglie si rivolge al prete perché la aiuti. Jonas è infatti caduto in una grave depressione; e tutto è cominciato quando ha appreso dai giornali che "i cinesi hanno fabbricato la bomba atomica". Siamo nel 1962, Hiroshima era ancora ben vicina; ma la Svezia è ben lontana dalla Cina, e il fatto può far sorridere. Cosa stai lì a preoccuparti, gli diremmo noi: vai a lavorare, divertiti, fai qualcosa insomma. Ma la storia di Jonas ha un finale tragico, e noi lo sappiamo in partenza dagli occhi e dall'espressione di Max von Sydow. Oggi, le cronache ci riportano le immagini di esplosioni e devastazioni in posti lontani: l'Arabia Saudita, il Marocco, l'Afghanistan, la Corea del Nord... Leggiamo distrattamente e non ci facciamo caso. Se qualcuno prova a portare un'attenzione solo un po' più profonda, facile che si becchi del cretino e venga zittito, anche da persone importanti.Facile sentirsi rispondere che il terrorismo si combatte con la guerra e con azioni di polizia, per esempio; facile sentir dire (e vedere persone che approvano) che bisogna buttare a mare le navi con gli immigrati clandestini, e magari a cannonate; facile sentirsi dire, come capitava al povero Jonas, che sono eventi lontani e non ci toccano. E' per questo che mi torna spesso alla mente questo film vecchio di 40 anni. Ormai l'atomica cinese (ci fece una canzone anche Guccini) è cosa lontana e remota, perfino normale. Non è più una novità e noi ci siamo abituati.

Il gusto degli altri

Le gout des autres di Agnès Jaoui (2001) Sceneggiatura di Jean-Pierre Bacri e Agnès Jaoui Con Anne Alvaro, Jean-Pierre Bacri, Alain Chabat, Agnès Jaoui Musiche di Mendelssohn/Purcell/Handel (canta Kathleen Ferrier) ma c'è anche Schubert suonato da Benedetti Michelangeli, Verdi cantato dalla Gruberova e tante canzoni, persino il "Je ne regrette rien" (112 minuti) Rating IMDb: 7.2
Solimano
"L'enfer c'est les autres", così Sartre, che ne ha dette troppe e che ci si deciderà finalmente di non leggere. Mi piace mettere i titoli dei film in lingua originale, se è l'inglese o il francese o lo spagnolo, ma perché farlo con "Le gout des autres"? Il titolo italiano è fedelissimo, quindi uso la lingua che conosco meglio, Agnès Jaui sarebbe d'accordo, anzi chiamiamolo anche come l'hanno chiamato dalle altre parti: "The Taste of Others" (notino le maiuscole), "Para todos los gustos", "Lust auf anderes"... Chi non ha visto il film non può capire l'immagine che metto qui sopra: un uomo grosso, probabilmente grossolano, già di una certa età, che parla con una donna anche lei non più giovane, di una finezza un po' debole, al limite sfigata. Ma che avranno mai da dirsi, questi due? Non solo, che avranno da dire a noi? Che ce frega, a noi, del loro dialogo faticoso e felice, lei che insegna privatamente inglese per guadagnare un po' di soldi perché la sua vera passione, quella di fare l'attrice drammatica, non le consentirebbe di vivere decentemente e lui, un industrialotto fattosi da solo, tanto deciso quanto ignorante, con moglie che tiene la casa come una bomboniera.

Solo che una sera va in un teatro di seconda schiera, di quelli che se la tirano facendo fatica a stare aperti, lui ci va con la moglie, ci va per dovere, stanco della giornata di lavoro e dice "Merde!" quando sente che la commedia è in versi, solo che è lei che dice quei versi e lui rimane lì ad ascoltarla con un'aria di baccalà, un baccalà però commosso. E ci torna la sera dopo, e compra il libro dove ci sono quei versi - non mi ricordo, forse di Racine, ci starò più attento la prossima volta che lo guardo. E lei è imbarazzata da questa passione fastidiosa, ne ride con il suo giro di amici teatranti, critici e pittori. Eccetera eccetera eccetera. Anticipo, per chi vuole certezze, che c'è anche il lieto fine. Immaginate un cuore, quelli di una volta, che il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce, un cuore che fa carriera, diventa cervello restando però pulsante, ma da cervello pieno di neuroni non sbaglia una mossa che sia una: ecco, questo è il cervello di Agnès Jaoui e del suo complice Jean-Pierre Bacri, autori di cotanta sceneggiatura. E il gusto per la musica? Ho cercato di riportare nelle righe iniziali più informazioni che ho potuto riguardo le musiche che percorrono il film, che non sono più musiche a sé stanti, sono diventate parte del film. Il gradimento in US è stato nettamente inferiore al gradimento europeo, e questo è preoccupante, per gli US. Quando qualcuno vi sta veramente sulle balle, amico o parente o nemico, guardatevi "Il gusto degli altri": sorriderete di lui e di voi e tutto andrà a posto, altro che enfer.

mercoledì 28 marzo 2007

Ultimo tango a Parigi

Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (1972) Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci, Franco Arcalli, Agnès Varda Con Marlon Brando, Maria Schneider, Jean-Pierre Léaud Musica di Gato Barbieri Fotografia di Vittorio Storaro (136 minuti) Rating IMDb: 6.9
Solimano
Quando andai al cinema a vederlo, era uscito da poco e non ero informato di tutte le discussioni sul burro, andavo con mia moglie a vedere il film di un regista che mi interessava, punto e basta. Ma fui sorpreso dal cinema pieno, pienissimo. C'era l'intervallo e mi feci una idea del pubblico. Molte donne, di cui buona parte con i tipici maglioni e golfini da professoressa, con un'aria intenta come fossero ad una conferenza di quelle toste, a cui non bisognava mancare. Poche chiacchiere, prevaleva il silenzio, anche negli uomini, e ogni donna si era portato il suo, o viceversa. Durante la proiezione del film capii: si erano informati prima ed erano attratti dalla fama crescente di un film non sull'amore libero ma sulla libera e fantasiosa sessualità. Credo che Ultimo tango a Parigi abbia dato la sveglia a tanti rapporti consuetudinari e che per ciò stesso sia stata un'opera di bene, un notevole volontariato di cui si sentiva il bisogno - a parte il burro sì o il burro no, sono punti di vista, ognuno ha il suo. Ma la sensualità, che comprende in sé la sessualità, come espressione totale e naturale del rapporto, questo sì, il merito di Ultimo tango a Parigi è grande, ce n'era proprio bisogno, in un paese di eiaculatori precoci e di orgasmi mal simulati. Un paese in cui i dieci minuti con sigaretta a seguire erano assai diffusi e in cui le chiacchiere/coccole del prima e del dopo quasi ignote. Ultimo tango a Parigi è anche un film mortuario, non è il suo lato migliore, c'è una noiosa verbosità. Ma è il rapporto fra un uomo che vuole la totalizzazione e una donna che la rifiuta perché infine le sta bene il buffo moroso coetaneo, Jean-Pierre Léaud in una formidabile macchietta della nouvelle vague, quindi di se stesso. Poi c'è l'attrice, Maria Schneider. Non so se abbia mai saputo recitare, mi è piaciuta molto in Professione reporter di Antonioni, ma in Ultimo tango a Parigi è una presenza sbalorditiva, a parte che qualcuno scrisse che il trucco aveva riguardato anche la peluria pubica - da uno come Bernardo Bertolucci ci si può aspettare una cosa del genere. Resta che, con tutta la sapienza da Actor's studio di Marlon Brando, ci si ricorda di lei, è lei il vero centro del film. Qui interviene una dote grande che Bertolucci ha sempre avuto: la mirabile espressività erotica delle attrici dei suoi film, da Adriana Asti di Prima della rivoluzione a Tina Aumont in Partner, a Laura Morante di La tragedia di un uomo ridicolo, a Dominique Sanda di Novecento a Stefania Sandrelli e ancora la Sanda nel Conformista, a Debra Winger nel Tè nel deserto, a Liv Tyler di Io ballo da sola, anche alla quasi sconosciuta Thandie Newton di un recente bellissimo film piccolo, L'Assedio, fino alla Eva Green dei Dreamers. Vedere, per credere, le stesse attrici in film in cui il regista non sia Bernardo Bertolucci. Non ce n'è un altro così, credo che non sia affare di solo gusto maschile, credo che le donne si accorgano di questa sua sensibilità vera, che non è guardonismo tipo Malizia di Semperi, è che la sua focosa ed ammirata visione della bellezza femminile va bene alle donne come agli uomini, d'altra parte lo fecero Correggio e Tiziano, Rubens e Renoir, potrà pur farlo Bernardo Bertolucci, sempre al suo meglio quando l'argomento è questo, è il suo sistema solare, gli altri argomenti per lui sono solo pianeti, belli o brutti che siano.

martedì 27 marzo 2007

Amici miei

Amici miei di Mario Monicelli (1975) Sceneggiatura di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli, Pietro Germi Con Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Philippe Noiret, Duilio Del Prete, Adolfo Celi, Bernard Blier, Olga Karlatos, Silvia Dionisio, Milena Vucotic, Franca Tamantini, Angela Goodwin Musica di Carlo Rustichelli - però c'è anche il Verdi di bella figlia dell'amore (140 minuti) Rating IMDb: 8.3
Solimano
D'accordo, gli amici sono quattro e poi diventano cinque. Ma i due personaggi immortali, i due archetipi, sono l'architetto Rambaldo Melandri e il conte Lello Mascetti. Gli attori, come no: Moschin e Tognazzi sono bravissimi, ma anche Philippe Noiret lo è o meglio lo sarebbe, ma il giornalista Giorgio Perozzi è un piccolo personaggio, l'unica buona che combina è il rapporto col figlio precisino, quello che parte sempre e che viene schiaffeggiato involontariamente (?) dal Perozzi senior alla partenza del treno. Il Necchi poi non saprei che dire, è uno normale. Invece a suo modo il Professor Sassaroli rischia di diventare un archetipo pure lui: il trombone che ha avuto successo nella vita, ma in cui sbuca fuori il ragazzaccio che ha dovuto reprimere. Quando la moglie Donatella lo lascia, il Professor Sassaroli soffre moltissimo per tre quarti d'ora.

Rambaldo Melandri siamo noi maschietti con tutte le nostre idee razionali, colla nostra mente sistemica, poi arriva una Donatella Sassaroli col suo mondo di sottocoppe d'argento e ci troviamo a portare a pisciare il cagnone Birillo alle sei del mattino di un giorno freddo. Rambaldo - lo chiamo per nome, lo amo il Melandri - è indifeso di fronte alla bellezza femminile, ancor più idoleggiata che vista. Ma che farci, Olga Karlatos di suo è bellissima. Il conte Lello Mascetti è la quintessenza dei nostri tanti quotidiani fallimenti da cui ci è toccato rialzarci, l'avremmo tutti voluto fare con la fantasia, lo sprezzo, l'orgoglio irridente del Mascetti, a suo modo è un hidalgo che cerca di vendere enciclopedie. Avremmo voluto essere coinvolti da una bambinaccia come la Titti - bellissima anche Silvia Dionisio - con la moglie Alice (Milena Vukotic) e la figlia mantenute a castagne a Gavinana. Il Mascetti è l'irregolare al tempo stesso autodistruttivo e creativo, è l'anarchia che tutti abbiamo sognato, peraltro inesistente in natura, ma la supercazzola esiste e lotta con noi. Dicono che è un film misogino, in parte è vero in parte no, ha ragione Rambaldo che vorrebbe che stessimo fra di noi, peccato che non siamo finocchi - così pressapoco. E allora tocca subirle le donne, bambinaccia e sottocoppa compresa, la natura ci ha dato questo tallone d'Achille, teniamocelo, non c'è altro da fare. C'è anche il Righi, Niccolò Righi, perchè siamo stati anche lo sfigato preso in mezzo da cose che non capisce, lo sfigato che crede di essere furbo, aggiungendo sfiga a sfiga. Vendette 7 milioni di biglietti, l'Amici miei del 1975, non credo che nessuno sia uscito dal cinema col muso lungo, forse qualche sottocoppa, ma le bambinacce piangevano tutte dalle risate. Monicelli oggi è ultranovantenne e fa ancora film. Fra gli sceneggiatori figura anche Pietro Germi, che morì prima, se no avrebbe fatto lui Amici miei; il suo sarebbe stato diverso, non so se migliore.

lunedì 26 marzo 2007

Nous ne vieillirons pas ensemble

Nous ne vieillirons pas ensemble di Maurice Pialat (1972) Con Jean Yanne, Marlène Jobert, Macha Méril Musica finale da La Creazione di Haydin (110 minuti) Rating IMDb: 7.6
Solimano
Se si vuole imparare - o verificare - quello che succede in un amore cattivo, questo è il film da vedere e rivedere. Un film di una verità e di una sgradevolezza esemplare nel protagonista, sposato e separato (ma non del tutto, dalla moglie torna spesso), che un po' convive e un po' no con una donna più giovane di lui, maltrattandola quando c'è ed inseguendola quando si sottrae. La crudeltà del film è penetrante, l'ho capita solo quando ho saputo che Maurice Pialat ha tradotto nel film un suo libro autobiografico molto vicino alla realtà personale. Si sente che il regista odia il personaggio del protagonista, che poi è lui. Sul set Pialat e Yanne hanno litigato spesso, perché Yanne rifiutava di essere vilain come Pialat voleva. Il continuo va e vieni fra amante giovane (così è noto il film in Italia, ma il titolo originale è incantevole) e moglie, anche con una ricerca delle radici nella casa del vecchio padre, mostra la ripetitività nevrotica, all'amplesso del ritrovamento seguono quasi subito disprezzo e maltrattamento. Più è incatenato, più odia le sue catene che si è cercato da solo. Finché - ed era ora - è lei, la giovane, che riesce a sottrarsi, a liberarsi, dovendosi nascondere per questo, l'uomo può diventare pericoloso. E' la storia di una sconfitta inevitabile, visto che quello che cerca il protagonista è il dominio e più lo cerca più è dominato non dalla giovane, che non chiederebbe nient'altro che di amare e di essere amata in santa pace, ma dalle proprie ossessioni. La moglie è a suo modo complice, aspetta che tutto si compia, ma ce ne vuole di tempo, e nella scena finale si vede la giovane, finalmente libera - e amata da un altro - che affronta giocosa le onde del mare mosso vicino alla spiaggia, quasi danzando sulla musica meravigliosa che è il canto di Eva, la prima donna del mondo, dall'oratorio La Creazione di Haydin. Marlène Jobert è molto bella, di una bellezza aspra che è diversa da quella di sua figlia, Eva Green, oggi ammiratissima dopo The Dreamers di Bernardo Bertolucci. Un film come questo sarebbe stato impossibile nella cultura italiana degli anni '70, forse anche in quella di oggi. I francesi da molti decenni sono credibili nel raccontare storie così: Resnais, Malle, Godard, Chabrol e Truffaut. Occorrerebbe capire il perché, credo sia meno facile di quello che sembra.

Amori in corso

Amori in corso di Giuseppe Bertolucci (1989) Interpreti: Francesca Prandi, Stella Wordemann, Amanda Sandrelli (82 minuti) Rating IMDb: 7.8
Solimano
E' un film alla cui sceneggiatura partecipò anche Lidia Ravera. Tre giovani donne in una casa di campagna attendono l'arrivo del mitico Cesare, da tutte e tre concupito. Cesare sta arrivando - ma non lo si vede - alla fine del film, quando ormai per lui è troppo tardi: Amanda Sandrelli, una vitalissima burina, se n'è andata in treno per raggiungere un capitano dell'Arma che l'ha messa incinta, mentre Francesca Prandi e Stella Wordemann sono divenute talmente amiche che quando sentono arrivare la macchina di Cesare si nascondono per non farsi trovare. Le rivalità, le complicità, le alleanze delle tre donne sono mostrate con grazia e verità rare. L'amicizia fra donne assomiglia ad una amorosa solidarietà. Uomini e donne, siamo nati per incontrarci senza comprenderci del tutto. Il "donna mistero senza fine bello" è bolso e stantio, ma la reciproca incomprensione fa parte delle due identità. Il richiamo fatto da alcuni a Rohmer è giusto e sbagliato; c'è la levità acuta dei dialoghi di Rohmer, però il di più di sentimento si paga con una lucidità minore. Ma la corrispondenza fra parole e gesti, fossero pure lo stirare o il portare una valigia, mi rese coinvolto e felicemente attento per tutta la sua breve durata, quando lo vidi per la prima volta. Ogni tanto me lo riguardo, ce l'ho su una vecchia cassetta VHS, finché dura. Si dovrebbe parlare più spesso di Giuseppe Bertolucci, troppo trascurato rispetto al più celebre fratello.

domenica 25 marzo 2007

Rashomon

Rashomon di Akira Kurosawa (1951) Toshiro Mifune, Machiko Kyo (88 minuti) Rating IMDb: 8.4
Ottavio

Se cerco nella mia memoria i titoli dei film che più hanno contribuito alla mia formazione, cioè a capire "come va il mondo", tra i primi cinque c’è sicuramente Rashomon. Come è noto è un film sulla relazione verità-menzogna, e sui meccanismi di interpretazione e rappresentazione individuale della realtà.
I fatti: un samurai e la moglie percorrono un sentiero nel bosco e vengono assaliti da un bandito. Questi uccide il samurai e violenta la moglie. Tempo dopo, durante un temporale, un monaco buddista e un boscaiolo rievocano la vicenda attraverso le dichiarazioni dei protagonisti al processo. Sia il bandito che la moglie del samurai, oltre al samurai defunto che viene fatto "parlare" attraverso una maga, forniscono una versione diversa dei fatti, ciascuno tendente a mettere nella miglior luce il proprio comportamento. Alla fine il boscaiolo confessa al monaco di aver assistito, non visto, al delitto, e fornisce la sua versione, "naturalmente" differente dalle tre precedenti.

Alcuni critici hanno parlato di commedia della menzogna, nel recensire questo film. Di influenza dell’amor proprio nel "giudicare" i fatti e nella benevolenza nell’"interpretare" il nostro ruolo. Insomma di convenienza, interesse nel costruire la propria verità.
Io preferisco parlare di commedia della verità, se possiamo definirla commedia. Anche partendo da un’assunzione di obiettività, ciascuno di noi osserva la realtà, sia che ne sia direttamente coinvolto o che sia un osservatore "distaccato", interpretandola secondo le proprie convinzioni e i propri pregiudizi, cioè in base alla propria esperienza e formazione. Così si spiegano le reazioni diverse, anche opposte, di diverse persone di fronte allo stesso accadimento. Quello che è significativo, nella circostanza, è la mancanza di "dolo", cioè ciascuno è sinceramente convinto della "sua" verità. Potremmo a questo punto scontatamente concludere: ma la verità esiste o ne esistono tante? Io propendo per la seconda ipotesi, ma mi rimane un ragionevole dubbio che, come dice Brecht "tra le cose sicure è la più sicura".

Via col vento

Gone with te Wind di Victor Fleming (+ George Cukor, Sam Wood) (1939) Dal romanzo di Margaret Mitchell Interpreti: Vivien Leigh, Clarke Gable, Olivia de Havilland, Leslie Howard Musica: Max Steiner (222 minuti) Rating IMDb: 8.1
Manuela
Mettiamo le cose in chiaro: a me piacciono i film da donna. Se fanno piangere è meglio. Niente film armeni sottotitolati in turco, premi della critica ai festival underground, film erotici giapponesi, ecc. ecc. E incomincio da re dei polpettoni, premettendo un appello in difesa della sua colonna sonora abusata da un giornalista depravato: Via col Vento.
Succede in questo film, che quello che pretende di raccontare è molto diverso da quello che racconta per davvero, come se i personaggi acquisissero una vita indipendente dalle intenzioni degli sceneggiatori.
Rossella O’ Hara dovrebbe essere leggera, egoista, immorale e cattiva, ma ne esce il ritratto di una donna indipendente, coraggiosa, capace di tirarsi su le maniche e affrontare gli eventi. Capace, anche, di svelare l’ipocrita grettezza di una società che sta per morire.
Al suo confronto gli altri personaggi sono figurine di carta.
La buonissima, fedelissima, delicatissima, femminilissima Melania è come le donne dovrebbero essere nell’immaginario di un certo tipo di uomo: decisamente stucchevole e parassita.
E Ashley, che dovrebbe essere romantico, ma fa la figura di un perfetto stupido, porta fra l’altro su di sé la colpa di infliggere allo spettatore un film di quattro ore, solo perché non dice subito a Rossella che non l’ama. Giustamente, Rossella, alla fine del film sbotta: “Ma perché non me l’hai detto prima?”. Ce lo chiediamo anche noi.
Resta Rett Butler, tanto puttaniere quanto perbenista, che pur amando Rossella la disprezza. Troppo vile per essere un vero cinico o un vero eroe, si barcamena tra le due cose. Quando alla fine se ne va, lasciando sola Rossella, speriamo tutti per lei che non si faccia mai più rivedere..
Il film è incline agli stereotipi; non infierisco su Mamie e i poveri neri in genere, che parlano coi verbi all’infinito come se fossero appena stati tirati giù dagli alberi.
Resta lei, la protagonista, più moderna e viva di quanto si pensi. Che esce dalla catastrofe pubblica e privata con lo sguardo rivolto in avanti. Che se ne frega delle definizioni affibbiatole dalla buona società degli Stati Confederati, o dagli sceneggiatori e dai registi stessi*.

*Registi, plurale, che per un film di tal stazza non ne è bastato uno. “Ufficialmente la regia è attribuita a Victor Fleming, ma durante la produzione si sono succeduti Gorge Cukor e Sam Wood” (Fonte: Wikipedia).

venerdì 23 marzo 2007

Volver


Volver di Pedro Almodovar (2006) Con Penelope Cruz e Carmen Maura Musica di Alberto Iglesias (121 minuti) Rating IMDb: 7.8
Lodes
Voglio parlarvi di Almodovar. L’altra sera siamo andati in un cinema all’aperto convinti di goderci, una volta tanto, un buon film, non uno dei soliti filmacci americani (anche loro non sanno più fare i bei film di una volta… ih! ih!ih!). Facevano “Volver” . Non so se ha partecipato a qualche concorso, so però che Almodovar è un regista di successo e che i suoi film fanno sempre discutere. E invece nada! Niente, peggio di così non poteva andare. Tutta la storia si basa sul problema del rapporto tra madre e figlia con la pretesa di parlarne al femminile. Poteva anche essere un argomento capace di sviluppare un discorso intrigante, invece l’unica cosa chiara è che il regista ha un problema irrisolto con la madre e, detto tra noi, chi se ne frega? Per non parlare delle figure maschili, per altro presenti solo nei ricordi delle protagoniste, che, padri o mariti che siano, hanno provveduto a stupri, incesti con le proprie figlie. Almodovar prova ad imitare Fellini e la scena del funerale è una… caricatura… ma quale Fellini... si vede subito che il tentativo è abortito in una sequenza senza anima e quasi ridicola. Nel complesso una storia senza capo ne coda, dove i rapporti tra tutte queste donne non si capisce dove vogliono portare. Alla fine lo schermo si è fatto scuro e non è rimasto altro che dire…una boiata pazzesca! Il bello è stato dopo, infatti il gestore aveva organizzato un intrattenimento dopo film con un terzetto (piano, contrabbasso, batteria) che ha suonato magnificamente musica jazz. Abbiamo fatto l’una di notte... dilettanti, ma molto bravi: questa è l’Italia che mi piace!

giovedì 22 marzo 2007

Citizen Kane

Citizen Kane di Orson Welles (1941) Orson Welles, Agnes Moorhead, Joseph Cotten (119 minuti) Rating IMDb: 8.6
Solimano
La scritta Rosebud mentre la slitta brucia. Il fumo del camino. Il grande palazzo con sopra il camino che fuma. La scritta NO TREPASSING. Le seggiole sui tavoli del bar dove parla la seconda moglie. La grande scalinata del palazzo. L'enorme quantità di oggetti di ogni tipo lasciati da Kane. Mille dollari al maggiordomo. L'esibizionismo della seconda moglie: meglio, di Kane riguardo la seconda moglie. Kane che legge il suo giornale, la prima moglie che legge il Chronicle. La foto di gruppo dei giornalisti del Chronicle che diventa realtà sei anni dopo. L'amico addormentato con la testa sulla macchina per scrivere. Togliere le virgolette a "singer". I letti ed i mobili nella sede del giornale. La dichiarazione di principi inviata per posta. La vertiginosa altezza delle sale del palazzo. L'enormità del camino. Il puzzle della seconda moglie fatto e rifatto. La gente in treno che legge il giornale di Kane. La pietà per il politicante ricattatore. Il primo incontro tra Kane e la seconda moglie. Mai sentimentalismo, sempre passione. Come è più forte di Chaplin! Kane è Macbeth. Un'opera che ha prosciugato l'autore. Il pic nic con ospiti obbligati. L'enorme girarrosto. La seconda moglie che lo lascia e sciupa i soldi. La vertigine delle inquadrature che salgono nel palazzo, nel teatro, durante il comizio. Il macchinista di scena che si tappa il naso. Kane che non comincia lui ad applaudire la moglie a teatro. Le leggerezze: l'istruttore di canto nella buca del suggeritore, il vecchio amico/nemico che cerca sigari. La grande sala con le memorie riservate del magnate che istruì Kane. Durante tutto il film si ricerca il significato dell'ultima parola detta da Kane: Rosebud. Alla fine lo scoprono gli spettatori, ma non il reporter, non i personaggi del film.

Playtime

Playtime di Jacques Tati (1973) Musica di Francis Lemarque (126 minuti) Rating IMDb: 7.8
Giuliano
A notte fonda, come si conviene ormai con i capolavori, grazie al mio obsoleto videoregistratore a cassette, ho registrato Playtime di Jacques Tati (1967), e adesso me lo sto guardando. Per fortuna, quantomeno, era su Raitre: e quindi senza interruzioni pubblicitarie. Era da così tanto tempo che non vedevo Playtime che mi sono chiesto, escludendo per forza di cose l'averlo visto al cinema, se questa fosse la prima volta che lo vedevo a colori; e forse è davvero così. Ma i colori sono azzurrini, grigini, trasparenti, volutamente asettici (tranne qualche autobus di color verdone), e forse non è questo l'essenziale. Mi sono ricordato subito di un vecchio luogo comune: Tati non fa ridere. Lo dicevano sempre, quando passava in tv, anche comici importanti. E forse è vero, ma io sono divertito molto nel rivedere le sue piccole gags stravaganti. Certamente, Tati non fa sganasciare dalle risate: ma il suo Monsieur Hulot, gentile corpo estraneo in una società d'indaffarati, forse un antropologo educato capitato per caso in un mondo alieno, è stato modello e punto di riferimento per tanti, e anche fonte d'ispirazione se non addirittura vittima di veri e propri furti d'idee... Il primo nome che mi viene in mente, verso il basso, è Mr.Bean (un Tati più volgare e cattivo); verso l'alto, invece, direi Jean Michel Folon (che non è un comico ma il grande pittore che apre il nostro diario quotidiano). Ma davvero Jacques Tati è uno dei punti fermi nella storia del cinema e della comicità, e anche se gli anni passano sarebbe un peccato dimenticarlo, come si sta facendo. Per intanto, mi fermo e riprendo a consultare il palinsesto dei nostri tremilaseicento canali tv, alla ricerca di qualche altro angolino dimenticato dove recuperare qualche capolavoro perduto. Sarà una lunga ricerca, e difficile.

mercoledì 21 marzo 2007

La nobildonna e il duca

L'Anglaise e le Duc, di Eric Rohmer (2001) Dalle memorie di Grace Elliot, Sceneggiatura di Eric Rohmer Con Lucy Russel, Jean-Claude Dreyfus, Alain Libolt, Charlotte Véry, Léonard Cobiant, François Marthouret, Caroline Morin, Héléna Dubiel, Marie Rivière Fotografia: Diane Baratier Film Editing: Mary Stephen (129 minuti) Rating IMDb: 6.8
Solimano
E' il giorno in cui la condanna a morte di Luigi XVI sarà eseguita. Grace Elliott è con la sua cameriera su una altura non lontana da Parigi. La cameriera guarda attraverso il cannocchiale verso la piazza in cui sta per avvenire l'esecuzione, riuscendo a vedere al massimo il rosso ed il blu delle divise. Grace si rifiuta di guardare, e rivolge lo sguardo dall'altra parte. A un certo punto si sente un grido della folla, breve e molto forte.

Questo è il modo di raccontare di Eric Rohmer, uno dei tanti che ha adottato nella sua storia di regista. Un altro , che è durato per diversi film, è quello di non dare agli attori la sceneggiatura, ma “la situazione”, cioè cosa si aspettava che accadesse nella scena. In genere, delle diverse versioni, la migliore era la prima. In questo modo spesso i suoi dialoghi seguono più i meandri di una possibile vita autentica che la linea breve di una vita artefatta. E niente è più inutile del discutere se il suo L'Anglaise et le Duc sia di destra o di sinistra. Rohmer smonta la storia, ogni storia, per mostrare come la persona, quella persona, riesce a trovare uno spazio in una storia che non è sotto il suo controllo, che quindi è disumana. Ad esempio, come fa Grace Elliott per dire la sua sulla situazione politica? “Fa le carte” ai suoi illustri amici. Anche l'Oracolo di Delfi faceva così.