Bernardo Bertolucci intervistato da Beppe Sebaste su la Repubblica, 18 giugno 2006
La terra, l’Emilia, il mondo contadino, la memoria. La Storia, le storie. Uomini e donne, i conflitti sociali, i fascisti come nel Macbeth, e un’epica intensa come il melodramma.
Un affresco da alcuni detto barocco, citazioni che fondono realtà e immaginazione, carne e utopia. Tutto questo, e altro, è Novecento di Bernardo Bertolucci, cinque ore e dieci minuti di film, finito di girare trent'anni fa. Sorta di "storia infinita" di cui si può parlare solo per associazioni di idee, cercando di catturare almeno alcuni dei tanti rivoli che vi scorrono.
Un affresco da alcuni detto barocco, citazioni che fondono realtà e immaginazione, carne e utopia. Tutto questo, e altro, è Novecento di Bernardo Bertolucci, cinque ore e dieci minuti di film, finito di girare trent'anni fa. Sorta di "storia infinita" di cui si può parlare solo per associazioni di idee, cercando di catturare almeno alcuni dei tanti rivoli che vi scorrono.
«La prima cosa che mi viene in mente - mi dice Bernardo Bertolucci - è il salame. Cioè l'uccisione del maiale, rito pagano che avveniva ogni anno durante i miei primi dodici anni passati in campagna vicino a Parma. C'erano due riti per me fondamentali, che aspettavo ogni anno con trepidazione: la morte del maiale e la trebbiatura. Entrambi sono in Novecento. Il mio secondo piccolo film, girato a sedici anni (e naturalmente a 16 mm), si chiamava La morte del maiale. Avevo filmato quegli strani uomini che arrivavano in bicicletta coi loro tabarri neri, e grandi borse da cui sbucavano dei coltellacci. Issarono tre pali creando una forca, poi entrarono nel porcile tenendo dietro la schiena l'arma con cui avrebbero ucciso il maiale (da noi si usava un anello a punteruolo, il coradòr, che il norcino gli infila nel cuore). Appena i norcini entrarono nel porcile i maiali si misero a urlare disperatamente: avevano intuito che non era il contadino che dava loro da mangiare. Il norcino, forse per l'emozione della cinepresa, sbagliò la mira, il maiale riuscì a divincolarsi e corse per l'aia piena di mele lasciando un filo di sangue sulla neve. Per fortuna il film era in bianco e nero, quindi meno truce. Poi c'era la trebbiatura, cerimonia meno pagana ma straordinariamente gioiosa: il rumore del trattore, le nuvole dello strame che volavano per aria. Io, figlio dei padroni, riuscivo a mimetizzarmi con la numerosissima famiglia dei nostri contadini, che davano anche a me qualche compito».
«Sempre per associazione mi viene in mente che l'idea di girare Novecento venne prima di Ultimo tango a Parigi, ma mi sarebbe stato impossibile trovare i finanziamenti dopo i miei film degli anni Sessanta, che non avevano avuto un grande successo popolare. Fu grazie a Ultimo tango che avvenne il miracolo, poter girare Novecento come sognavo: un'epopea, in qualche modo anche un musical, per ricordare al nostro paese, e anche fuori di esso, che la nostra cultura per secoli e secoli era nata nelle campagne, e che, se non i nostri padri, i nostri nonni lavoravano la terra».
- La percepivi già allora come una cultura in via di estinzione?
«Essendo vicino a Pasolini ero anch'io impressionato da quella cosa che un po' tutti sapevano, ma che lui aveva cosi drammaticamente indicato: il genocidio delle culture locali e popolari, tesoro che il “consumismo" (un termine di Pasolini) andava soffocando e distruggendo. Fu quindi per me una scoperta, già durante la preparazione del film, trovarmi in una campagna che in realtà non aveva ancora perduto la sua cultura. Sì, era cresciuta la dimensione dei trattori, e le macchine che lavoravano la campagna erano divenute enormi e sembrava governassero gli uomini che credevano governarle. Ma l'Emilia contadina era riuscita a proteggersi da quell'omologazione su cui Pasolini sanguinava nei suoi editoriali corsari, e questo grazie al comunismo e al socialismo radicati (come in Toscana o in Umbria), che fecero capire ai contadini che capitale fosse la loro cultura. Altrimenti, sarebbe stato come girare il film in un cimitero. La realtà che avevo davanti, che mettevo in costume come all'inizio del secolo o truccavo come una realtà di cinquant'anni prima, era ancora viva».
«Dunque l'Emilia: la mia infanzia, mio padre, le sue poesie: "Emilia, ormai scurisce il tuo frumento / e il papavero esce a fare il bullo ( ... ). Emilia, la tua calma ci ha stregati”. Anche questi versi sono dietro a Novecento. Mio padre stava scrivendo il suo romanzo famigliare, La camera da letto, di cui mi era molto piaciuta una sequenza, il racconto del grande sciopero del 1908, quando i padroni, vedendo il grano marcire, si erano messi loro a mieterlo, quasi giocando, finendo col fare allegri picnic nella calura estiva della Bassa, al suono del pianto delle mucche nelle stalle: nessuno le mungeva, le mammelle si appesantivano fino a toccare il pavimento delle stalle ... »,
- E’ altro cinema quello che Bernardo sta snocciolando davanti a me. Il corto circuito tra riferimenti alla vita vissuta, e altri al cinema, alla pittura o alla letteratura, viene dalla speciale educazione del padre poeta Attilio Bertolucci, la cui poesia era risonanza del mondo circostante. Cinema, mi ha ripetuto spesso Bertolucci è “aprire gli occhi”.
«Mio padre tendeva a nutrirci di poesia, me e mio fratello Giuseppe, con una tale disinvoltura e leggerezza che non ce ne rendevamo conto. Una cosa che non mi stancherò mai di ripetere è di quando lessi La rosa bianca e corsi in fondo al giardino dove c'era la rosa bianca di quella poesia scritta per mia mamma, e la rosa della poesia era lì, visitata dalle ultime api dell'estate. Questa coincidenza mi fece guardare alle cose in modo diverso. E tutto questo è dietro Novecento. Il successo di Ultimo tango facilitò al produttore Grimaldi il finanziamento. Poco prima di iniziare scoprii che aveva venduto il film per tutti i paesi del mondo a tre grandi distribuzioni americane. Vivevo dentro di me una grande utopia: abbandonavo il cinema povero con cui si identifica di solito il cinema d'autore, e mi tuffavo nell'estasi di fare un film popolare. Pensavo a un film epico sul mondo contadino, ispirato da un lato al cinema americano, dall'altro a quello sovietico, e nella mia ingenuità febbrile mi illusi che con Novecento avrei costruito un ponte tra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Inizialmente volevo per il ruolo del contadino un attore russo, e per quello del padrone un attore americano. Detto così sembra un po’ semplice, ma è sulla semplicità che si costruiscono le storie epiche. Tra le prime critiche al film vi fu quella che fosse troppo manicheo, ma sentivo che a sostenere il peso di questo film ambizioso erano proprio i contrasti. Eravamo ancora vicini alla guerra nel '73-'74, e tutto veniva nutrito per me dall'idea del contrasto. Prima di tutto quello tra la poesia e la prosa (è un fìlm che vuole essere in prosa, ma anche in poesia); poi tra il cinema hollywoodiano e quello sovietico; tra gli attori americani e gli attori e non-attori italiani, contadini coi volti che ricordavo da quando ero piccolo, cercati e trovati uno per uno da un grande aiuto regista, Gabriele Polverosi, che aveva avuto l'ordine di scartare tutti i volti in qualche modo "moderni", cercare fisionomie antiche ... ».
(continua)
P.S. Nell'immagine c'è Bernardo Bertolucci col padre Attilio mentre gira Novecento.
«Sempre per associazione mi viene in mente che l'idea di girare Novecento venne prima di Ultimo tango a Parigi, ma mi sarebbe stato impossibile trovare i finanziamenti dopo i miei film degli anni Sessanta, che non avevano avuto un grande successo popolare. Fu grazie a Ultimo tango che avvenne il miracolo, poter girare Novecento come sognavo: un'epopea, in qualche modo anche un musical, per ricordare al nostro paese, e anche fuori di esso, che la nostra cultura per secoli e secoli era nata nelle campagne, e che, se non i nostri padri, i nostri nonni lavoravano la terra».
- La percepivi già allora come una cultura in via di estinzione?
«Essendo vicino a Pasolini ero anch'io impressionato da quella cosa che un po' tutti sapevano, ma che lui aveva cosi drammaticamente indicato: il genocidio delle culture locali e popolari, tesoro che il “consumismo" (un termine di Pasolini) andava soffocando e distruggendo. Fu quindi per me una scoperta, già durante la preparazione del film, trovarmi in una campagna che in realtà non aveva ancora perduto la sua cultura. Sì, era cresciuta la dimensione dei trattori, e le macchine che lavoravano la campagna erano divenute enormi e sembrava governassero gli uomini che credevano governarle. Ma l'Emilia contadina era riuscita a proteggersi da quell'omologazione su cui Pasolini sanguinava nei suoi editoriali corsari, e questo grazie al comunismo e al socialismo radicati (come in Toscana o in Umbria), che fecero capire ai contadini che capitale fosse la loro cultura. Altrimenti, sarebbe stato come girare il film in un cimitero. La realtà che avevo davanti, che mettevo in costume come all'inizio del secolo o truccavo come una realtà di cinquant'anni prima, era ancora viva».
«Dunque l'Emilia: la mia infanzia, mio padre, le sue poesie: "Emilia, ormai scurisce il tuo frumento / e il papavero esce a fare il bullo ( ... ). Emilia, la tua calma ci ha stregati”. Anche questi versi sono dietro a Novecento. Mio padre stava scrivendo il suo romanzo famigliare, La camera da letto, di cui mi era molto piaciuta una sequenza, il racconto del grande sciopero del 1908, quando i padroni, vedendo il grano marcire, si erano messi loro a mieterlo, quasi giocando, finendo col fare allegri picnic nella calura estiva della Bassa, al suono del pianto delle mucche nelle stalle: nessuno le mungeva, le mammelle si appesantivano fino a toccare il pavimento delle stalle ... »,
- E’ altro cinema quello che Bernardo sta snocciolando davanti a me. Il corto circuito tra riferimenti alla vita vissuta, e altri al cinema, alla pittura o alla letteratura, viene dalla speciale educazione del padre poeta Attilio Bertolucci, la cui poesia era risonanza del mondo circostante. Cinema, mi ha ripetuto spesso Bertolucci è “aprire gli occhi”.
«Mio padre tendeva a nutrirci di poesia, me e mio fratello Giuseppe, con una tale disinvoltura e leggerezza che non ce ne rendevamo conto. Una cosa che non mi stancherò mai di ripetere è di quando lessi La rosa bianca e corsi in fondo al giardino dove c'era la rosa bianca di quella poesia scritta per mia mamma, e la rosa della poesia era lì, visitata dalle ultime api dell'estate. Questa coincidenza mi fece guardare alle cose in modo diverso. E tutto questo è dietro Novecento. Il successo di Ultimo tango facilitò al produttore Grimaldi il finanziamento. Poco prima di iniziare scoprii che aveva venduto il film per tutti i paesi del mondo a tre grandi distribuzioni americane. Vivevo dentro di me una grande utopia: abbandonavo il cinema povero con cui si identifica di solito il cinema d'autore, e mi tuffavo nell'estasi di fare un film popolare. Pensavo a un film epico sul mondo contadino, ispirato da un lato al cinema americano, dall'altro a quello sovietico, e nella mia ingenuità febbrile mi illusi che con Novecento avrei costruito un ponte tra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Inizialmente volevo per il ruolo del contadino un attore russo, e per quello del padrone un attore americano. Detto così sembra un po’ semplice, ma è sulla semplicità che si costruiscono le storie epiche. Tra le prime critiche al film vi fu quella che fosse troppo manicheo, ma sentivo che a sostenere il peso di questo film ambizioso erano proprio i contrasti. Eravamo ancora vicini alla guerra nel '73-'74, e tutto veniva nutrito per me dall'idea del contrasto. Prima di tutto quello tra la poesia e la prosa (è un fìlm che vuole essere in prosa, ma anche in poesia); poi tra il cinema hollywoodiano e quello sovietico; tra gli attori americani e gli attori e non-attori italiani, contadini coi volti che ricordavo da quando ero piccolo, cercati e trovati uno per uno da un grande aiuto regista, Gabriele Polverosi, che aveva avuto l'ordine di scartare tutti i volti in qualche modo "moderni", cercare fisionomie antiche ... ».
(continua)
P.S. Nell'immagine c'è Bernardo Bertolucci col padre Attilio mentre gira Novecento.
2 commenti:
Alle tre di un pomeriggio d’inverno
sangue di porco il macellaio ha sparso
con l'antica e rodata procedura
nel cortile, sull’aia. Unghie metalliche
hanno scuoiato il corpo del suino
prima gemente ed ora steso inerme
(quasi un paziente anestetizzato)
sotto i ferri affilati di un chirurgo
freddo e accorto. Staccano abili mani
dalla carcassa ormai squartata carni
diverse, che il garzone alto dispone
in buon ordine su un piano di marmo.
Muto io osservo, in piedi. Alza lo sguardo
il macellaio e incontra il mio. Sorride.
Brian
Inserisco, in omaggio a Brian, con cui ci siamo capiti, la mia Novelletta degli Odori numero 14, quella a cui sono più affezionato, delle 54 che ho scritto:
"14. Sus domesticus
Per mesi gli avevo visto solo il grugno, lo vidi tutto intero solo nel suo ultimo giorno di vita. Parlo del maiale - sus domesticus - che il babbo allevò per un anno, a Fiorenzuola d’Arda, in un localuccio adattato a porcile, di là dai binari quasi di fronte al casello in cui abitavamo. Viveva in penombra, contornato di assi di legno fra cui sporgeva il truogolo, ed era lì che gli vedevo il grugno, quando la mamma versava o un pastone di crusca o quello che era rimasto in tavola o qualsiasi cosa che si potesse mangiare. Quando noi entravamo nel porcile, faceva rumore di zoccoli, grugniva anche, però con toni bassi, educatamente. Il porcile era ben tenuto dal babbo, che aveva la canna per far scorrere l’acqua, credo tirasse anche qualche secchiata ogni tanto, ma non ne sono sicuro, io entravo solo al seguito della mamma. Avevo sette anni e la forza di quell’odore la ricordo bene. Non era malaccio come si potrebbe credere, sulla esperienza degli allevamenti reggiani o mantovani - decine di migliaia di maiali - che sono diventati una specie di calamità olfattiva, tollerata però, vista la generale convenienza dei popoli. Il nostro maiale era solo al mondo col suo porcile e il suo truogolo, puzzava il giusto, non di più, c’era mischiato anche l’odore del pastone. Non ne ero per niente infastidito, perché coglievo nel babbo e nella mamma una reverente attenzione a quel prodigio che cresceva a vista d’occhio. Qualche volta per conto mio sbirciai fra le assi, intravidi un po’ di schiena, anche la coda. Venne infine il giorno in cui lo vidi tutto, il giorno in cui fu ucciso. Un mattino freddo, si era d’inverno, io e mia sorella eravamo stati portati dalla mamma, e altre mamme erano lì con i figli, per vedere ammazzare il maiale. Si faceva così perché si era sempre fatto così, punto e basta. Proprio un gran bel maiale, anche se non grandissimo. Della uccisione ricordo solo la mossa del macellaio per tenergli piegata una delle zampe anteriori perché non scappasse col coltello infilzato. Poi, il lavorìo di ore ed ore per utilizzarlo tutto, e, coprolalicamente, l’abilità nel pulire le budella, utilizzate poi per insaccare salami e le altre delizie, che alla sera vidi appese ad una trave, in alto. Ci mettemmo alcuni mesi a finirlo tutto, il nostro maiale. Nella testa ero ancora contadino, quindi non soffrii per niente, e rimasi stupito nel vedere la bambina con le trecce coprirsi gli occhi, non mi ricordo il nome, il cognome sì, ma non lo dico."
saludos
Solimano
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