Solimano
Ho suddiviso il post sul film Marianna Ucrìa in due parti, altrimenti sarebbe stato lungo come testo e folto di immagini. Il confine l'ho messo temporalmente nel passaggio di testimone fra le due interpreti: Eva Grieco ed Emmanuelle Laborit, che fanno Marianna in due periodi della sua esistenza. Metto qui una immagine del nonno (Philippe Noiret) nel lussuoso bordello uscendo dal quale sarà ucciso in un vicolo. Il nonno è uno dei due personaggi maschili di evidente positività -l'altro è il precettore Grass (Bernard Giraudeau) che però, allontanato dalla famiglia, è presente solo nella corrispondenza che si scambia con Marianna.
Il rischio in cui il film ogni tanto cade è quello della esemplarità della figura di Marianna, e credo che anche nel romanzo sia così. E' inevitabile che in storie del genere le scrittrici inseriscano un atteggiamento di révanche verso l'universo maschile, succedeva anche prima di Jane Austen ed è un segno non di strettezza mentale, ma di affermazione della centralità femminile tante volte affermata a parole e negata nei fatti. Per questo Marianna prende una decisione del tutto inconsueta nella famiglia, quella di allattare ed allevare lei i suoi figli.
In tal modo si ottiene l' esclusione cronica del padre, Pietro (Roberto Herlitzka) dal mondo della famiglia: lui vive a Palermo, Marianna ed i figli -quattro nel film- vivono in campagna. Pietro, che è il fratello della madre di Marianna (Laura Morante) , è un debole violento, un tristo mai amato nella sua vita, a partire da sua madre finendo alla famiglia che si è costruito forzosamente. Finirà per morire all'aperto raccontando di sé, perso nell'inseguire la capretta che da vecchio può finalmente tenere per sé, la madre da piccolo gliela aveva tolta. Un personaggio molto vero, anche per la recitazione giustamente dura di Roberto Herlitzka. Sono sempre esistite ed esistono tuttora figure maschili che celano sotto violenza ed arroganza l'incapacità di costruirsi una vita degna di essere vissuta.
Marianna ha saputo leggere e capire, non solo, riesce a trasmettere ciò che impara ai figli. Dopo la morte del marito assume con decisione la conduzione del feudo di famiglia, schiodando violenze secolari, vietando impiccagioni e liberando contadini incatenati in mezzo ai porci. L'aiutano in questo i due servi Fila (Selvaggia Quattrini) e Saro (Lorenzo Crespi), da cui si fa sempre accompagnare. Succede che Saro si innamora di lei e trova modo di rivelarsi. Marianna prende l'unica decisione che le è possibile: ordina a Saro di sposarsi, in modo da togliersi il problema, ma Fila, gelosa del fratello, di Marianna, della moglie del fratello, impazzisce, ed uccide il figlio neonato e la moglie di Saro. Sarà rinchiusa in un manicomio, in cui le violenze sui ricoverati e tra i ricoverati sono merce quotidiana. A quel punto Marianna cura Saro, rimasto ferito, e conoscerà finalmente che l'amore fisico non è solo la violenza bieca che aveva praticato con lei il marito. Scoprirà anche quale è la causa per cui non parla e non sente: una violenza infantile subita dallo zio Pietro, poi costretto dalla famiglia a sposarla. La madre glielo confermerà e le due finalmente si abbracceranno. Ci sarebbe da aspettarsi che il film finisca qui, nella raggiunta consapevolezza di Marianna e in una gestione felice della mente, dei sensi e degli affetti. Marianna prosegue invece il suo percorso conoscitivo, ed alla fine del film la si vede partire con Fila, che ha fatto uscire dal manicomio.
Resterà nel feudo il deluso Saro e Marianna andrà in Francia, per vedere ciò di cui finora ha potuto solo leggere, nella strettezza dei condizionamenti allora insuperabili. Il suo, usando la terminologia a cui oggi siamo abituati, ed a cui Dacia Maraini ha sicuramente pensato, è la storia di un difficile processo di individuazione, che una volta intrapreso non ha una meta finale se non con la fine stessa della vita. Per questo trovo giusto che il finale sia aperto.
Il film è costellato di morti: l'impiccagione iniziale, il nonno ucciso nel vicolo, la morte desolatamente arida di Pietro, lo zio, violentatore e poi marito di Marianna, la follia di Fila, che uccide la moglie del fratello ed il neonato. Non solo, compaiono anche scene di gravità cimiteriale ossessiva, come gli scheletri rivestiti in pompa magna nelle tombe di famiglia. Si potrebbe dire: "Come al solito! Quando il tema è la Sicilia la presenza della morte pensata ed agita è inevitabile". Eppure nel film di Roberto Faenza non è così: la storia dura del film trasmette una sensazione di vitalità, malgrado i difetti di letterarietà, di troppa carne al fuoco, di esemplarità. Oltre che dalla capacità rappresentativa di Faenza (aiutato dai costumi di Donati e dalle musiche di Piersanti) credo che giochi anche che non c'è il consueto discorso, mille volte fatto, comprese le più sontuose, della Sicilia che è sempre quella, piena di intelligenza che sembra avere il solo scopo di perpetuarsi com'è. Qui si sente l'aria del nuovo che il Settecento portava, quando poteva incontrarsi con una persona come Marianna, capace di uscire dall'angolo della sofferenza e dell'isolamento per costruirsi una vita piena, non con la facile e inutile scorciatoia della ribellione sterile, ma cogliendo nella quotidianità accettata semi, fiori e frutti delle opportunità che ci stavano, bastava accorgersene. Aiuta anche il paesaggio, su cui forse tornerò: non avevo mai visto una Sicilia che esploda ogni tanto in ricchezza vegetale l'abituale secchezza, una Sicilia in cui di veda così il mare, fra rupi rocciose eppure verdeggianti, persino una Sicilia innevata: sta nevicando, quando parte la carrozza per il lungo viaggio all'estero, e Marianna e Fila si guardano e si capiscono.
P.S. E' del tutto evidente che Roberto Faenza, nella scena in cui Marianna offre il seno a Saro ferito, abbia ben presente un racconto di circa duemila anni fa: la storia di Cimone e di sua figlia Pero, poi denominata "Carità romana".
Scrive Valerio Massimo nel De pietate, che il vecchio Cimone era rinchiuso in carcere e che non gli davano da mangiare. La figlia Pero ottenne di visitarlo e di nascosto dai carcerieri lo nutriva col latte del suo seno. Questo tema -che aveva in sé anche dell'ambiguità, ma l'ambiguità chi vuole la trova dappertutto- ispirò molti artisti e qui metto due immagini tratte da Caravaggio e Rubens. Spesso erano opere con destinazione chiesastica, ad esempio il Caravaggio usa la storia di Cimone e Pero per rappresentare una delle sette opere di misericordia, il dar da mangiare agli affamati. L'opera del Caravaggio è tuttora nella Chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli.
Sarebbe bene che qualcuno, afflitto da verecondia di tipo bigotto, si ricordasse o imparasse la grande storia delle immagini nel mito cristiano. Quattrocento anni fa, artisti come Caravaggio e Rubens, di religiosità diversa ma profonda, non si facevano nessuno scrupolo, erano anzi spronati a simili rappresentazioni.
Chiesa del Pio Monte della Misericordia, Napoli