Looking for Richard, di Al Pacino (1996) Da "The Tragedy of Richard the Third" di William Shakespeare, Narrazione di Al Pacino e Frederic Kimball Con Penelope Allen, Harris Yulin, Alec Baldwin, Al Pacino, Kevin Conway, Kevin Spacey, Estelle Parsons, Winona Ryder, Julie Moret, Frederic Kimball, Aidan Quinn, Viveca Lindfors, Judith Malina, Kenneth Branagh, Kevin Kline, James Earl Jones, Peter Brook, Derek Jacobi, John Gielgud, Vanessa Redgrave Musica: Howard Shore Fotografia: Robert Leacock (112 minuti) Rating IMDb: 7.1
Solimano
William Shakespeare di per sé sarebbe un cinefilo, di quelli tosti:
694 volte è stato al cinema, cominciando con un King John del 1899 e finendo con quattro pre-produzioni che saranno ultimate nel 2008. Solo nel 2007 otto film sono usciti o stanno uscendo. Però se dovessimo dire i dieci film della nostra vita, non ce ne sarebbe nessuno tratto da Shakespeare, salvo forse
Ran o
West Side Story o i due di
Orson Welles. Lo stesso Henry V di
Laurence Olivier gode di ammirazione universale, ma di amore comandato. L'amore al cinema sappiamo tutti benissimo com'è, lo abbiamo provato e continuiamo a provarlo: è un coinvolgimento totale (però lucido) che fa sì che noi - e magari anche la persona seduta al nostro fianco - ci sentiamo lì su quel lenzuolo bianco su cui scorrono le immagini. E questo già la dice lunga sul problema, perché tale è: parrebbe che per fare un grande film da Shakespeare occorra in qualche modo essergli in parte infedeli. Il punto naturalmente non è Shakespeare, è il rapporto teatro-cinema, già di per sé conflittuale, ma per Shakespeare reso complicato dall'appropriazione che i teatri inglesi ne hanno fatto non per decenni ma per secoli. Così un magnifico uomo di teatro come
Kenneth Branagh ha fatto film ottimi: Molto rumore per nulla, Enrico V, Amleto, ma un po' patisce sulla sua pelle l'
imprinting iniziale di essere nato col teatro.
Al Pacino queste cose le sapeva benissimo, a parte l'esperienza teatrale e cinematografica, figuriamoci se un
Padrino come è stato lui poteva cadere in trappola. Ha sparigliato in modo geniale: ha dichiarato che stava facendo un documentario sul
Riccardo III, e non ha mentito, il documentario c'è, solo che è il
modo con cui ha veramente fatto il Riccardo III.
Si è messo a girare per New York con l'amico
Frederic Kimball e un operatore con la camera a mano a rompere le scatole a gente indaffarata per strada, ai semafori, nei bar, chiedendo com'è il loro rapporto con Shakespeare. Ne sono uscite alcune frasi geniali, molte sciocchezze ed un po' di menzogne, tipo uno che sembrava svenisse a sentire il nome di Shakesperare, solo che non è mai stato a teatro e le poche volte che Shakespeare compare in TV cambia canale, figuriamoci se l'ha letto!
Intanto Al Pacino comincia a crearsi uno spazio in cui inserire il tarlo non nella testa dei passanti di New York, ma nella nostra, che già eravamo pronti a gustarci il solito spettacolo in cui ammirazione fa rima con distrazione: per forza, Shakespeare di cose ne dice tante, o non ne ascolti qualcuna o perdi il filo. Al Pacino non va solo per strada, ha scritturato gli attori per il suo Riccardo III, e li riunisce attorno ad un tavolone. Come prima cosa se lo leggono insieme, ognuno la sua parte, ma anche scambiandosele. E questi attori, generalmente famosi, e tutti bravissimi, hanno una propria vita privata - non vivono d'aria - e si raccontano i fatti propri guardandosi un po' amorosamente un po' di sottecchi. La loro è arte, ma anche mestiere, guai se no. Un attore di teatro ha la trappola dell'eventuale successo: a quel punto gli tocca dire tutte le sere le stesse parole e fare gli stessi gesti per anni di seguito, in certe sere deve per forza supplire il mestiere. La sera dopo magari lo stato d'animo è invece tale che quelle parole sembrano pronunciate e pensate per la prima volta. L'impressione, a vederli e sentirli mentre si preparano parlando anche di sé, è di gente con una lunga coda di paglia, ma con una intelligenza, una furberia un po' gaglioffa, una
passione, eccola la parola, più grande persino del loro enorme narcisismo.
E tu, prima sei stato messo
in medias res dalle interviste stradaiole, ora ti ci appassioni a questa compagnia, in cui vedi i volti noti ed amati di Kevin Spacey, Winona Ryder, Alec Baldwin. Il Padrino, intendo Al Pacino, a quel punto sa che può fare di noi quello che vuole, e spariglia ancora: perché far parlare solo l'attrice Penelope Allen? Stiamo scherzando, nel Richard è
Queen Elizabeth, ed eccola, conciata da Queen Elizabeth che fa le sue tirate, dice il perché e il per come, conduce la sua lotta di potere. Così il
Buckingham di Kevin Spacey e l'
Hastings di Kevin Conway e gli altri e le altre.
Crea confusione? No, perché il Padrino sa che il
Richard non c'è bisogno di cercarlo perché la storia la conosciamo tutti, con la successione dei delitti:
Clarence, Hastings, i figli piccoli di
King Edward. Sappiamo anche i delitti precedenti, i parenti di
Lady Anne trucidati da Richard, compreso il marito, il figlio dell'ultimo re Lancaster. Sappiamo come Richard riesce a comprarsi le quattro donne, in particolare come riesce a sedurre Lady Anne, davanti alla bara del marito, ucciso da chi la seduce. Sappiamo l'abilità di Richard nell'intromettersi negli odi reciproci, eliminando chi gli fa ombra per interposta persona, non si rendono conto che è lui a condurre il gioco: fino all'ultimo suo fratello Clarence crede che sia lui a difenderlo da King Edward. E Hastings passa in pochi minuti dal Consiglio Reale alla mannaia (fatto storicamente vero).
Al Pacino gioca altre due carte, i luoghi e i libri, anzitutto: stiamo facendo un documentario, e facciamolo fino in fondo, andiamo a Stratford-on-Avon nella casa di William, facendo pure scattare l'allarme così arrivano i pompieri. E prendiamoli, tocchiamoli, quei grandi libri rilegati con l'opera omnia e le illustrazioni.
Non basta ancora: ci sono i famosi attori e registi, i grandi critici, ed arrivano
John Gielgud,
Vanessa Redgrave,
Peter Brook,
Kenneth Branagh, così si può anche discutere sul complesso che gli americani hanno riguardo a Shakespeare, perché lo fanno poco e quello che hanno gli inglesi, perché lo fanno troppo. Al Pacino non fa il super partes: americano è, e crede ad un modo di essere irriverenti verso Shakespeare, ma per un di più di rispetto: Shakespeare è uno di noi, non una sublimità che finisce in accademia.
Queste apparenti contraddizioni sono rese coerenti dal disordine studiatissimo con cui si presentano, creando un continuo effetto sospresa. Finché, con alcune grandi scene, specie quella con Lady Anne, quella con Hastings e quella con Buckingham appare chiaro il senso che Al Pacino ha voluto dare al suo Richard: non il malvagio assoluto, ma la conquista del potere. Richard è sostenuto dalla coerenza nel cercare sempre la leva opportuna e l'alleanza giusta, ma Richard non è il malvagio istrionico, la quintessenza di quello che non vogliamo essere. Il Richard che ha fatto Al Pacino è una metafora incarnata del potere, come si manifesta oggi, perché non è solo Richard a godere della seduzione di Lady Anne, è l'attore Al Pacino, perfettamente identificato in quel momento, a fregarsi le mani ed a gridare il suo
Ah! di gioia feroce, in quel momento è un
Ah! di verità totale. Dieci minuti dopo ci sarà modo di farsi un drink con Winona Ryder, parlando e sparlando insieme, ma in quel momento preciso c'è solo da dire
Ah! Bocca aperta ed occhi trionfanti che ci guardano, pienamente coinvolti e - in quel momento - completamente dalla sua parte. Poi, il 22 agosto 1485, in una brevissima battaglia a Bosworth, Richard, senza cavallo, perderà giustamente il trono e la vita, a 34 anni. Il fascino del potere, e l'autodistruzione della persona quando il suo mondo è fatto solo di potere: persino nella splendida compagnia che si è fatta Al Pacino le vediamo in azione, queste pulsioni inevitabili, salvo che pochi minuti dopo si è in grado di ridersi addosso. Ma dopo aver visto "
Looking for Richard" non si può credere che esista un grande attore o autore senza una fortissima e consapevole pulsione per il potere: come farebbe a sedurci così, altrimenti?