venerdì 30 novembre 2007
Hollywood Party (1)
Solimano
Dopo il leone della Metro non ci sono i soliti titoli, comincia direttamente il film. Una lunga fila di soldati britannici, fra cui ci sono molti indiani col turbante, percorre un'arida valle forse dell'Afghanistan. Ci sono anche cavalli ed una banda militare.
Sulle balze sono appostati i ribelli, numerosi e bene armati, che contano sull'effetto sorpresa, ma un valoroso trombettiere indiano, pur ferito, è riuscito a salire lassù, e con il poco fiato che gli rimane suona la tromba, avvertendo così i suoi commilitoni che marciano nella valle.
Inizia la sparatoria, la sorpresa non è riuscita, però un ribelle individua il trombettiere e gli spara in pieno petto. Il trombettiere si accascia, noi non lo vediamo, è nascosto dalle rocce e certamente ormai morto.
E invece no! Sbuca prima il turbante, poi una mano, poi si vede il viso: ha la tromba sulle labbra, sebbene il fiato sia sempre meno. Ancora colpito, stavolta sarà morto per davvero. Ma si rialzerà otto o nove volte, e la smette solo quando il regista del film lo manda a quel paese. Quindi non stiamo vedendo un film, ma un film nel film. Mi sono informato: si tratta del The Son of Gugga Din, il remake di un vecchio film di George Stevens, che naturalmente si era ispirato a Kipling, come d'obbligo in questi film coloniali. Il trombettiere è l'attore indiano Hrundi V. Bakshi ( Peter Sellers) che per il momento si contenta di piccole parti, ma aspira a salire.
Vediamo subito dopo un'altra scena del film The Son of Gugga Din: Bakshi deve aggredire alle spalle un ribelle con barbone e turbante, ed interpreta assai bene, si noti lo sguardo assatanato, solo che proprio nel momento topico emerge un particolare che al regista non piace, quindi dà lo stop. Bakshi è sorpreso, pensava di aver fatto bene, ma il regista gli chiede: "Lo sai quando si svolge cronologicamente il film?" "Nel 1878!" "Appunto, non portavano orologi subacquei".
Bakshi ci rimane male, ma si tranquillizza perché il film è quasi finito. Manca solo la scena della esplosione della fortezza, scena che è costata tanti soldi nella costruzione e nell'approntamento, anche per gli esplosivi. Quindi si attende che tutto sia a posto e che il regista alzi il braccio per procedere. Nell'aria c'è tensione, perché la scena è facile, ma non può essere ripetuta, occorrerebbe ricominciare da capo, ricostruire la fortezza eccetera. Bakshi si è messo comodo, ai piedi ha un paio di sandali, di cui uno fa un piccolo inghippo abbastanza frequente: il cinturino posteriore scende sotto il tallone. Basta appoggiare il piede da qualche parte e rimetterlo a posto.
Solo che Bakshi sceglie di appoggiare il piede sullo scatolotto che serve per provocare l'esplosione (l'abbiamo visto in tanti film, specie se c'è un ponte da far saltare).
Il piede appoggia sulla leva, la leva scende e la fortezza esplode, fuori tempo.
Riporto poche righe del conseguente dialogo fra il regista e Bakshi:
Director: You.
Bakshi: Me?
Director: Yes, you. Get off of my set, and out of my picture. Off, off! You're washed up, you're finished! I'll see to it that you never make another movie again!
Bakshi: Does that include television, sir?
A questo punto il dialogo si interrompe perché il regista cerca di strozzare Bakshi, che però riesce a fuggire, forse per unirsi ai ribelli.
Cambio scena. Il megaboss della Major, Fred Clutterbuck (J. Edward McKinley) sta in un grande ufficio, e controlla la lista degli invitati al party che terrà in serata a casa sua. Squilla il telefono, è il regista del film che lo aggiorna sulla dolorosa novità della fortezza esplosa anzitempo, e gli chiede di segnarsi il nome di quell'indiano in modo che nessuno lo assuma in futuro. Fred è d'accordo, la cosa è gravissima, e prende nota del nome: Hrundi V. Bakshi, col regista che fa naturalmente lo spelling, questi indiani hanno dei nomi impossibili. Poi Fred si alza e se ne va, solo che non ha notato che il nome di Bakshi l'ha segnato su un pezzo di carta che è la lista degli invitati al party della sera: la sua solerte segretaria, appena lui esce, prende il foglio e si mette in moto per spedire gli inviti. A questo punto, dopo otto minuti e quaranta secondi dall'inizio del film, partono i titoli di testa, ma tutti sono già tranquilli: i soldi per il biglietto sono spesi bene, vedremo cosa combina nel film Hrundi V. Bakshi (...sempre Peter Sellers...)
(continua)
Narciso Nero
Giuliano
Un rajah indiano, che si fa chiamare “ il Generale “, decide che è ora di avere una scuola come si deve nel suo territorio; per questo contatta, tramite l’unico inglese che vive da quelle parti, le suore Serve di Maria, a Calcutta. Sono suore inglesi e irlandesi, e siamo in epoca coloniale; l’occasione che si presenta è unica e la suora anziana acconsente ad aprire un convento in quel posto sperduto. Ne prenderà la guida suor Clodagh (è un nome irlandese), che è molto giovane: sarà quindi la più giovane superiora del suo Ordine. Il convento (che il Generale ospita in una casa che era il suo harem) è a 2700 metri d’altitudine; le suore chiamate dal “Generale” partono da Calcutta. Vengono accolte da Mr. Dean (David Farrar), l’unico europeo sul posto, che si presenta vestito in modo anomalo: calzoni cortissimi che lasciano scoperte tutte le gambe, sandali e piedi nudi. Dean giunge su un minuscolo cavallino bianco (i piedi quasi toccano terra), non un pony ma un vero e proprio cavallo bianco, però piccolo. L’apparizione di Dean (un uomo giovane e prestante, che sarà di grande aiuto per le suore) ha un aspetto vagamente comico, qualcosa di straniante, quasi fosse l’improvvisa l’apparizione di un fauno, o di Dioniso in persona. Nei dintorni c’è anche un santone, un sadhu veneratissimo, zio del Generale, immobile da anni, seduto sotto una roccia, dentro il perimetro del convento.
Questo è l’inizio di uno dei più spettacolari, e famosi, film realizzati dal duo Michael Powell & Emeric Pressburger: i film li firmano sempre insieme, ma l’inglese Powell è più propriamente il regista, l’altro (ungherese d’origine) è lo scrittore. Ma poi è difficile capire dove inizia l’uno e dove finisce l’altro, e inoltre i due si avvalgono sempre di collaboratori di prim’ordine, a partire dallo scenografo e dagli artigiani che costruiscono materialmente il set. Si parte da un romanzo di Rumer Godden, una signora inglese che ha trascorso tutta la sua vita in India, autrice molto famosa in quei tempi, per raccontare questa storia fantastica e reale allo stesso tempo, favolosa verrebbe da dire: morbosa e fiabesca.
“Narciso nero” è l’altro lato di Shangri-la. Non so se lo si possa definire come il lato oscuro della stessa medaglia, forse è troppo semplice come definizione. Ma certo quello che nel film di Frank Capra (precedente a questo, e tratto da “Orizzonte perduto” dell’inglese James Hilton) era un influsso positivo, qui si trasforma in disagio e malore, e lo splendore dell’Himalaya diventa quasi come la torbida Venezia di Thomas Mann. L’aria limpida, “chiara come il cristallo” (niente ombre: Powell ci sta attento), e il vento, rendono questo posto paragonabile all’Oceano di Solaris. Nel film di Tarkovskij, su un pianeta lontano un’entità misteriosa (che assomiglia ad uno dei nostri oceani) legge nelle nostre menti e ne materializza il contenuto, ricordi ed emozioni; anche in “Narciso nero” vengono ritrovati e ripresentati i nostri ricordi, il nostro io più profondo viene a galla, e non è detto che sia un io presentabile. Succede perfino alla più solida ed esperta delle sorelle, suor Philippa; succede a suor Clodagh, che riesce a controllarsi; e succede in modo devastante a suor Ruth, la novizia che non ha ancora pronunciato i voti. La pazzia di suor Ruth, interpretata in modo magistrale dall’attrice Kathleen Byron, è la più terrificante mai vista in cent’anni di cinema; e non bastano le parole per descriverla.
Le suore dovranno rinunciare, e ritornare a Calcutta. Il film finisce con l’inizio della stagione delle piogge, e con lo sguardo perduto di Dean. Il ruvido inglese aveva previsto fin dall’inizio il fallimento della spedizione, ma non aveva previsto suor Clodagh: “Narciso nero” è soprattutto la storia di un amore mancato.
“Narciso nero” è il profumo che porta il Piccolo Generale, figlio del rajah, interpretato da Sabu, un giovane attore anglo-indiano all’epoca molto famoso: racconta alle suore che lo fa venire apposta dai magazzini militari di Londra, spiega. E suor Philippa decide di chiamarlo così, Narciso Nero (non è nero, “ma a me sembrano tutti uguali”). Il Piccolo Generale verrà sedotto da una bellissima ragazza indiana, proprio nel convento; fuggiranno insieme e questo contribuirà al fallimento dell’impresa. La giovane indiana è Jean Simmons, col piercing al naso, che danza sensualissima, e conquista grazie all’ospitalità del convento il marito a cui non avrebbe mai potuto aspirare: “la storia di Cenerentola” commenta sarcastico Dean. Dean si era presentato ubriaco come Dioniso proprio la notte di Natale. Suor Clodagh lo scaccia e lui se ne va cantando “Oh, I cannot be a nun / ‘cause I’m so full of pleasure...”
La cosa più stupefacente di questo film, roba da non crederci, è che è stato girato quasi tutto in studio, e rimanendo sempre in Inghilterra. Metto qui di seguito quello che ne racconta Michael Powell:
- (...) Pressburger si era sposato e fu proprio sua moglie che, dopo aver letto il romanzo di Rumer Godden, ce ne parlò.
- Cosa l'aveva affascinata nella storia? Il confronto tra costumi occidentali e mondo orientale?
- Era una bellissima storia d'amore in un ambiente insolito. Ma non volevo andare a girare in India. I film di questo genere si sono sempre fatti così: con scene in studio e raccordi negli esterni reali, con veri attori e controfigure. Non mi piaceva assolutamente. Ero certo che si doveva girare o tutto in India o tutto negli studi.
- E lei l'ha fatto tutto negli studi.
- Tutto, tranne qualche scena. Sa, in Inghilterra si trova di tutto. Dal momento che abbiamo avuto per tanto tempo un impero, c'era sempre qualcuno che importava quantità di cose diverse dai quattro angoli del mondo: alberi, fiori, rocce! Cose straordinarie! Sono riuscito a trovare giardini enormi con rocce e montagne ai margini; e tutti i colori del mondo! E tutti i fiori dell’Himalaya! E gli alberi più antidiluviani, nel Sussex! Il resto è girato in studio. Abbiamo costruito il convento a Pinewood, all'esterno. Poi, Junge ha avuto un'idea. Ha fatto costruire tutto intorno a questa scena enorme un grande fondale di gesso, con un'angolazione di 20 gradi rispetto al sole. Così, tutto il giorno, con il sole che si muoveva, non c'era mai ombra sul fondale. Tutto il giorno era bene illuminato. E sul fondale abbiamo dipinto tutto l'Himalaya: l'Everest, le vallate, le foreste. Tutte illuminate dal sole! Ed era magnifico quando passava una nuvola! Semplicissimo. Alfred Junge è un grande maestro.
(intervista del 1979, alla rivista francese “Ecran”) (dal volume “Powell & Pressburger”, edito da Bergamo Film Meeting nel 1986)
Regia e sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger
Soggetto: Michael Powell ed Emeric Pressburger, dal romanzo di Rumer Godden.
Fotografia (col.): Jack Cardiff. Operatore: Ted Scaife. Montaggio: Reginald Mills.
Musica: Brian Easdale. Suono: Stanley Lambourne. Production designer: Alfred Junge. Costumi: Henri Heckroth.
Interpreti: Deborah Kerr (suor Clodagh), David Farrar (il signor Dean), Flora Robson (suor Philippa), Kathleen Byron (suor Ruth), Jenny Laird (suor Honey), Judith Furse (suor Briony), Sabu (il giovane generale), Esmond Knight (il vecchio generale), May Hallatt (Angu Ayah),
Shaun Noble (Con), Eddie Whaley (Joseph Anthony), Nancy Roberts (madre Dorothea), Jean Simmons (Kanchi).
Produzione: Michael Powell, Emeric Pressburger. Produttore associato: George R. Busby. Compagnia di produzione: The Archers. Durata: 100'.
giovedì 29 novembre 2007
I soggetti nel cinema: l'archeologo superstar
Andiamo decisamente meglio -almeno per i miei gusti- quando sullo schermo compaiono le avventure del fanta-archeologo James Spader in Stargate, curioso esperimento di mixer fra il genere Indiana Jones e la fantascienza stellare. Anche qui gli spunti faraonici non mancano, seppure proiettati su un pianeta lontano secoli-luce, accessibile solo attraverso la magica porta-delle-stelle ritrovata appunto in Egitto: e se i personaggi rispondono a clichés ben noti (il militare dagli occhi di ghiaccio ma dal cuore tenero, l'intellettuale occhialuto un po' imbranato ma geniale, le bella fanciulla depositaria della chiave del mistero, ecc.) gli interpreti risultano tuttavia accettabili grazie ad un'indubbia professionalità, senza contare il fascino dei sofisticatissimi effetti speciali.
Grandissima delusione, invece, per lo studioso criptologo di Tom Hanks nel Codice Da Vinci, eccessivamente strombazzata versione cinematografica del best-seller di Dan Brown. Invecchiato e decisamente imbolsito, accanto ad una Audrey Tautou desolatamente scialba, non mi è sembrato affatto incarnare il professor Robert Langdon, che lo stesso autore (tentando forse di dare suggerimenti per il futuro casting) descrive come fisicamente somigliante ad Harrison Ford. L'intero film non funziona bene quanto il romanzo, e a mezz'ora circa dall'inizio si sbadiglia già alla grande, cercando la posizione più comoda in poltrona per schiacciare un sano pisolino. Chissà cosa mai avranno trovato di così pericoloso, quelli della CEI, in una pellicola tanto soporifera? Ah, saperlo...
Bongo e i tre avventurieri
Giuliano
Paperino, Topolino e Pippo salgono sul fagiolo magico, e lì incontrano il Gigante: non sono mica cose che capitano tutti i giorni, nemmeno nei cartoni animati. La favola del fagiolo magico forse non è una di quelle più belle, ma è certamente una di quelle che più si prestano ad essere raccontate, alle variazioni, alle imitazioni. Dietro c’è uno dei maggiori divertimenti, soprattutto per dei bambini di 4-5 anni: noi che diventiamo piccoli piccoli, e gli oggetti intorno a noi che diventano giganteschi, enormi e irraggiungibili. Perché nel castello del gigante, in cima alla pianta del fagiolo magico (cresciuta nottetempo a dismisura), tutto è grande, enorme, gigantesco, irraggiungibile: è il mondo come appare ad un bambino.
E’ una fiaba antica, parente della storia di Gargantua e Pantagruel, una storia dei tempi in cui fame e miseria non erano parole lontane, da rifilare a qualche paese africano o asiatico. E’ anche per questo che la favola del fagiolo magico è stata dimenticata, ed è un peccato perché è davvero divertente vedere Pippo che balla dentro la gelatina, e i suoi compagni che affondano nella crema della torta o dentro al formaggio, sulla tavola ricca e sfarzosamente imbandita del Gigante. La favola incomincia così: l’Arpa Magica rende fertile e felice la valle; ma un Gigante misterioso la rapisce, e arrivano fame e miseria. Da un fagiolo magico, risparmiato in tempo di carestia, nasce in una sola notte una pianta altissima; l’Eroe (un eroe piccolo ma furbo) ci si arrampica sopra, trova il castello del Gigante, lo sconfigge e libera l’Arpa. In casa Disney, l’Arpa Magica diventa una fanciulla bionda, e gli eroi sono tre: Pippo, Paperino, Topolino...
O forse pensavate davvero che io mi mettessi a parlare dell’orsetto Bongo, fuggito dal circo con la sua biciclettina da equilibrista, che incontra gli orsi veri grandi e grossi e li sconfigge vincendo l’amore di una bella orsettina? No, Bongo (che dovrebbe essere la vera star di questo film) è tanto carino e simpatico, gli invidio molto l’orsetta graziosa che riesce a conquistare, ma di fronte a Paperino che sogna di mangiarsi una mucca intera non c’è Bongo che tenga. Lo lascio lì felice con l’orsetta carina, e rimando i buffi orsi contro i quali si trova a combattere nel cartoon dove Paperino fa il ranger a Yellowstone, insieme a Cip e Ciop (ci sono anche loro, con tutti gli uccellini di Biancaneve), dove sicuramente si divertono di più.
Paperino, quello vero, è questo qui: quello degli anni 30-40. Dopo è cresciuto, è un po’ invecchiato, gli hanno messo giacca e cravatta, si fa tiranneggiare da Paperone, forse si è sposato con Paperina: insomma, non è più stato lo stesso. Forse è diventato un vicino di casa più affidabile, lui come Pippo, ma sono sicuro che questo Paperino qui lo rimpiangiamo ancora tutti.
Ah dimenticavo: il film inizia con il Grillo Parlante (“Jimini Cricket”), che fa da raccordo fra le varie storie: dal set di “Pinocchio” si porta dietro il pesciolino (era una pesciolina, se non ricordo male) e anche un gattaccio minaccioso che potrebbe essere lo stesso micino di Geppetto, ormai adulto. Il Grillo si muove fra curiosi reperti d’epoca, fonovaligie, radio d’epoca, album di dischi a 78 giri: ed è proprio da uno di questi lussuosi album che il Grillo tira fuori un disco dove la famosa Dinah Shore (chi sarà mai costei) canta e racconta la storia dell’orsetto Bongo. Poi ci trasferiamo nel salotto di una bella bambina bionda, che si chiama Luana Patten, che oggi avrà più o meno l’età di Solimano, e che forse era famosa ma io non ne so niente. (Forse Solimano se la ricorda?) (Forse hanno fatto merenda insieme qualche volta?).
A casa di Luana, nel suo salotto, c’è una presenza inquietante: il ventriloquo Edgar Bergen con due pupazzoni. E’ lui che racconta la storia del fagiolo magico, ed è una presenza della quale farei volentieri a meno (so che esistono delle versioni moderne in cui la sua parte è stata tagliata, che sollievo!).
Non so a voi, ma a me i pupazzoni dei ventriloqui hanno sempre fatto un po’ senso. Mi piacciono molto le marionette, delle quali sono parenti: ma questi due tizi (“Charlie” e “Mortimer”) che fanno compagnia alla piccola Luana sul divano sono veramente brutti.Meno male che poi alla fine arriva il Gigante: non è morto, non si è fatto quasi niente, e – come è ovvio, in casa Disney – non è nemmeno cattivo. Solo, vorrebbe sapere dove sono finiti quei tre piccoletti che gli hanno rovinato la cena....
PS: Anche altri cartoons si sono arrampicati sul fagiolo magico: Gatto Silvestro ci trova un Titti più grande di lui, e c’era da aspettarselo: è appeso ad un soffitto altissimo dentro la sua gabbietta enorme. Invece Bugs Bunny si ferma nell’orto, dove trova delle carote giganti: ne è entusiasta, ne rosicchia una e ci va ad abitare dentro, e sulle altre fa progetti grandiosi. Però arriva il cane del Gigante, ed è enorme anche lui: insegue furioso l’intruso, e alla fine, dopo tanto correre, Bunny ha un’idea geniale: si rifugia nel pelo dell’animale e comincia a grattare. Se avete un cane, o un gatto, lo sapete bene: una grattatina è la cosa che più desiderano al mondo, e se la fate bene li portate vicinissimi all’estasi. Il cane del Gigante diventa amico di Bunny, molto amico, amicissimo; e adesso il problema è come si fa ad andare via, dal Paradiso della Carota...
mercoledì 28 novembre 2007
The dreamers
Giuliano
Un attimo prima del maggio ’68, a Parigi, due ragazzi e una ragazza si trovano da soli in un appartamento, e fanno vita comune. Sembrerebbe un film come tanti, ma c’è molto di morboso in questa situazione, anche perché due di loro sono fratello e sorella. Ma non è questo il punto, e ho trovato fastidioso, quando è uscito il film, il troppo indulgere, anche del trailer, sulle scene di sesso. Si sa che Bertolucci dal sesso è molto attratto, e ci gioca parecchio, almeno dal tempo di “Ultimo tango a Parigi” che aveva questa stessa situazione decisamente claustrofobica, sia pure dentro una storia molto diversa. C’è anche, ed è importante, il gioco del cinema nel cinema: con molte citazioni importanti e con i tre ragazzi che rifanno la scena di “Jules e Jim” di Truffaut della corsa per i corridoi del Louvre. Ma, mi ripeto, non è questo il punto.
A me piace molto il modo di fare cinema di Bertolucci, che anche in questo film si conferma un maestro: nelle immagini, nel modo di raccontare, nel guidare gli attori. Insomma, questo è proprio un Bertolucci, con tutti suoi pregi e tutti i suoi difetti, compreso il troppo indulgere sul sesso. Il difetto vero del film è invece che per capirlo bene bisogna avere una certa età, e anche una certa formazione. Per esempio, nel film Bertolucci dà quasi per scontato che tutti conoscano Chaplin e Keaton: ahinoi, non è più così... Una volta i loro film erano programmati regolarmente in tv, ma per un ragazzo di 15-25 anni non è mica così scontato. Anzi, si potrebbe senz’altro dire che l’essere troppo appassionati di cinema, e in genere l’essere troppo appassionati di qualcosa che non sia la formula uno o il campionato di calcio o il festival di Sanremo, è diventato un handicap, un difetto grave dal quale bisogna emendarsi: è una spiacevole novità degli ultimi vent’anni, mentre non era così negli anni ’60 e ’70, dove uno poteva dire di ricordarsi di questo o quel film, o di questo o quel libro, senza doversene vergognare pubblicamente.
Ma non vorrei parlare troppo di queste cose, non oggi: perché questo è un film da vedere, e perché – oltre alla bella confezione – contiene un messaggio importante (il famoso "messaggio": una volta si usava, oggi invece è diventata una parola sconveniente...). Il messaggio è questo: che non bisogna chiudersi in se stessi, e che le società che si chiudono su se stesse finiscono per morire. Morire per asfissia, e infatti è questa la decisione che prende nel finale la protagonista; ed è grazie a un intervento da fuori (dalla vita vera), cioè un sasso che rompe il vetro, che viene evitata la morte dei tre ragazzi per asfissia, perché la ragazza aveva chiuso tutto e aperto il gas. In questa chiave vanno lette anche le cose che hanno disturbato molti degli spettatori del film: l'incesto, la masturbazione, e tutto quel rinchiudersi (al cinema prima, e poi nell'appartamento). E poi il finale: anche la violenza (la violenza dentro il '68 francese) è un richiudersi su se stessi, un negarsi al dialogo. Nel libro da cui è tratto il film, il finale era diverso e il ragazzo americano moriva colpito da un proiettile vagante; ed quindi è un gran bel messaggio che ci manda Bertolucci, e molto attuale. Peccato che poi in tv e sui giornali si parli soltanto delle scene di sesso...
Le coppie nel cinema: L'amante
Solimano
Nel 1929 la ragazza (Jane March) ha quindici anni. Vive in Indocina con la madre (Frédérique Meininger) e con i due fratelli (Arnaud Giovaninetti e Melvin Poupaud). Appartiene ad un famiglia francese che era ricca, ma ha perso quasi tutto perché, dopo la morte del padre, la madre si è avventurata in speculazioni sbagliate e si è fatta menare per il naso dai funzionari coloniali. Malgrado la povertà, che è quasi miseria, la famiglia conserva il senso di superiorità verso i vietnamiti ed anche verso la minoranza cinese, che si occupa di affari immobiliari e di commerci. Dei due fratelli, il maggiore è un oppiomane, giocatore e violento, il minore è un debole, a cui la ragazza è affezionata. La madre prende sempre le parti del fratello maggiore pur sapendo che la deruba per pagarsi i debiti di gioco.
La ragazza va a Saigon e dorme nel pensionato scolastico; a scuola va bene senza fatica, perché sa scrivere naturalmente bene. Ogni tanto viaggia per tornare a casa e deve prendere il traghetto sul fiume Mekong. Un giorno conosce sul traghetto un cinese (Tony Leung Ka Fai), che ha trentadue anni ed è di famiglia molto ricca, viaggia in una bella macchina con autista e non ha niente da fare tutto il giorno; inoltre è appena tornato da Parigi dove la famiglia lo ha mandato a studiare, ed ha imparato molto sul modo di vivere dei bianchi. La ragazza è piuttosto magra, ma desiderabile, anche per il modo trascurato di vestire che paradossalmente la fa notare da tutti: ha ancora le trecce, porta un cappello da uomo, ai piedi scarpe con gli strass da cabaret, un vestituccio da niente, che però fa vedere che non è magra dappertutto. E' bianca, quindi i vietnamiti girano alla larga, ma con i cinesi il rapporto è diverso, perché sono disprezzati come inferiori dai bianchi, però capita che ci siano dei cinesi molto ricchi. Il cinese, quando il traghetto arriva, offre alla ragazza un passaggio sull'auto, la ragazza accetta senza nessuna difficoltà. Durante il viaggio parlano, si vede che lui è molto preso da lei, che tranquilla segue gli eventi. Non ha ancora avuto esperienze sessuali, salvo abbracci intimi con una sua compagna di scuola sotto la zanzariera del dormitorio, però di esperienze vorrebbe averne, anche se sa che le regole del gioco sono di non avere nessun rapporto con vietnamiti e cinesi e comunque di sposarsi vergini.
Il cinese si dà timidamente da fare, ma è lei che lo incoraggia, baciando il vetro dell'auto ad occhi chiusi, quando lui viene a prenderla a scuola. Finché il cinese la porta nella sua garçonniere del quartire malfamato di Cholon: tutti i giovani cinesi ricchi ne hanno una, perché, prima di sposare con matrimoni combinati ragazze che non hanno mai visto, debbono avere un posto dove portare le amanti, generalmente donne a pagamento. Ma il cinese non farebbe niente, frenato dal suo essere innamorato e dall'età acerba di lei, è la ragazza a spingerlo, dicendogli di fare con lei come fa con le altre donne che porta nella garçonniere, un posto piuttosto squallido, in cui la porta dà direttamente sulla strada. Lì si troveranno spesso, facendo l'amore con godimento reciproco, lui sempre più innamorato, lei che lo fa perché le piace farlo e che dice a sé stessa ed al cinese che lo fa perché avere un amante ricco è conveniente. Ma le piace gridare per il piacere che lui sa darle, anche se lo deride un po' per il suo innamoramento. In famiglia, pian piano lo apprendono, ed hanno due tipi di reazioni: si vergognano, perché la ragazza non deve andare con uomini, tanto meno con un cinese, ma ne approfittano, perché di soldi c'è sempre bisogno, quindi fanno finta che non sia successo niente. Superbi e ruffiani. Finché il cinese porta tutta la famiglia a pranzo nel posto più caro di Saigon: paga tutto lui, ma lo trattano come se fosse un loro servo, addirittura la ragazza -per sfregio- si mette a ballare stretta con il suo fratello minore. Quando si ritroveranno nella garçonniere, il cinese la schiaffeggerà e la prenderà peggio che se fosse una prostituta, e la ragazza gli chiederà cinquecento piastre.
Finché il cinese si sposa con la cinese che ha scelto suo padre, anche i cinesi hanno le loro regole, e la ragazza segue a distanza dal pontile la cerimonia del lussuoso matrimonio. Prima però il cinese ha pagato tutti i debiti del fratello maggiore nelle case da gioco, ed ha sovvenzionato la famiglia, così possono mandare la ragazza a studiare a Parigi. Da tempo la ragazza non vede più il cinese, ormai sposato, il giorno che parte il piroscafo si sporge per guardare quello che succede sulla banchina del porto, e vede che c'è la macchina, davanti l'autista, dietro lui, che è venuto senza dirle niente per esserci quando lei parte. La sera, nel piroscafo, la ragazza pensa a tutta la sua storia. Un pianista sta suonando un valzer di Chopin (op.69 n.2) e la ragazza si mette a piangere. Adesso può dire a sé stessa la verità: lo ha amato anche lei, per tutto quel tempo, quando stavano insieme e quando non ci stavano, l'ha amato, quel cinese così gentile e continuamente innamorato, solo che non c'è niente da fare: lui sposato come da regola, lei a Parigi come da regola, pagata con i soldi di lui. Trent'anni dopo, divenuta scrittrice molto nota, sposata e divorziata, riceverà una telefonata. E' il cinese, che è a Parigi con moglie e figli, le dice soltanto che ha continuato ad amarla sempre allo stesso modo per tutto il tempo che è passato, dalla volta che la vide su quel traghetto sul fiume Mekong, nel 1929.
P.S. Marguerite Duras polemizzò in modo deciso ma generico prima e dopo l'uscita del film. Non ne ho capito il motivo, sia perchè in generale credo che se uno cede i diritti del libro deve incassare i soldi e disinteressarsi del film, ma anche per un altro motivo: perché ho letto il libro della Duras ed ho visto il film, che trovo molto vicino al romanzo. Senza fare confronti - comunque preferirei rivedere il film che rileggere il libro - credo che i motivi della polemica fossero due, entrambi non detti. Il primo è che il romanzo della Duras è assolutamente autobiografico, quasi a livello cronachistico, quindi la scrittrice, che si era esposta molto col libro, non gradisce che sia qualcun'altro ad esporla. Il secondo è che Marguerite Duras è stata molto presente nel mondo del cinema, e probabilmente avrebbe preferito che, visto che il film si faceva, fosse lei a tirarne le fila. Jean-Jacques Annaud ha fatto benissimo a tenere il controllo, e tutto nel film è coerente: l'esotismo, i rapporti razziali, i modi in cui si trucca da bordello un amore grande. Il film è molto diretto, ci sono cinque scene di sesso esplicite, ma mai come in questo caso la materia lo richiedeva: il sesso è l'alibi per mantenere in vita un rapporto altrimenti impossibile. Così è anche nel romanzo, ma le parole scritte su una pagina sono altra cosa rispetto alle immagini sullo schermo. Toni Leung Ka Fai, cinese di Hong Kong, è bravissimo nell'esprimere una passione forte e silenziosa. Jane March ha dimostrato negli anni successivi di non essere un'attrice di rilievo, ma qui, grazie ad Annaud, è una immagine indimenticabile. Le musiche del libanese Gabriel Yared sono splendide, il valzer di Chopin sembra scritto apposta per il momento che la ragazza vive quella sera sul piroscafo. L'amore, o comunque vogliamo chiamarlo, è qualcosa di molto strano, può essere grande persino nelle situazioni più degradate: le utilizza per continuare ad avere spazio di esistenza.
martedì 27 novembre 2007
Anthony Burgess, l'arancia e il cinema (3)
Anthony Burgess è scomparso nel 1993; Stanley Kubrick sei anni dopo, nel 1999. Il libro è del 1962, il film è del 1971: ne è passata di acqua sotto i ponti, eppure Arancia Meccanica continua a fare notizia. Quando ne parlava, come nell’articolo che abbiamo messo qui sul blog qualche mese fa, Burgess non sembrava molto contento del perdurare nella memoria collettiva di questa sua invenzione, tra i tanti libri che aveva scritto. Non per altro, ma perché ogni volta gli toccava ribadire e ripetere i ragionamenti che c’erano dietro al libro; e la stessa sorte è toccata a Kubrick con il film.
E’ per questo che pensiamo di fare cosa utile riportando altre riflessioni di Burgess in proposito.
Qui Burgess ammette il suo errore, quello più grande: la pia illusione che ci sia ancora gente che sta a perdere tempo ad ascoltare, a seguire un discorso, a leggere un libro o guardare un film dall’inizio alla fine, magari seguendo il ragionamento e i rimandi dell’autore...
Anthony Burgess
"Arancia meccanica è violenta? Sì, sono colpevole"
Ccorriere della Sera 25 marzo 1993
Anche se Evelyn Waugh affermò che il cambiamento è una caratteristica dell'esistenza umana, le sue rigide opinioni non furono mai addolcite da questa massima. Ci sono alcune convinzioni alle quali ci aggrappiamo e a cui non permettiamo di abbandonarci: alla mia età, l'abbandono di una convinzione che faceva parte del mio essere deve essere considerato una sorta di indulgenza. Parlo della convinzione che le arti, incluse quelle minori, fossero inviolabili: che esse non potessero mai venire accusate di esercitare un'influenza morale o immorale e che esse fossero incorrotte, incapaci di corrompere e incorruttibili. Ho cambiato opinione in proposito abbastanza di recente.
Questo atteggiamento protettivo nei confronti dell'arte in realtà non era altro che un mio desiderio di giustificare gli elementi corrotti esistenti nella più grande letteratura di tutti i tempi, quella del palcoscenico elisabettiano. Era un desiderio quello dì non considerare Shakespeare uno scrittore violento. Una delle sue tragedie che probabilmente non vedremo mai più rappresentata sui palcoscenici e che, dì certo, non vedremo mai adattata sul piccolo schermo, è «Tito Andronico». Con i suoi stupri di gruppo, le mutilazioni, le scene di cannibalismo e con la carneficina finale, essa raggiunge un livello confacente solo al più depravato film pornoviolento dei giorni nostri: il fatto che essa sia il prodotto dello scrittore più stimato che sia mai vissuto non mitiga l'opportunismo dozzinale di questa opera. Anche in «Re Lear», l'asportazione degli occhi del Conte Gloucester sembra una concessione gratuita alla depravazione degli spettatori («Fuori, vile gelatina»).
Nella «Tragedia spagnola», Thomas Kyd a Hieronimo fece tagliare a colpi di morsi la propria lingua anche se questo era un gesto troppo inverosimile per essere preso sul serio. La «Tragedia spagnola» in ogni caso è la progenitrice, assieme al latino Seneca, della tradizione della Tragedia del Sangue, alla quale «Re Lear» e «Amleto» appartengono. E più grande dramma di tutti i tempi fu immerso nel sangue e storpiato dalla violenza.
Si può affermare l'impossibilità dell'esistenza di un dramma che non contenga la violenza. Una rappresentazione teatrale, persino una commedia, si basa sul gioco degli antagonismi e quest'opposizione può essere omicida. L'antagonismo deve essere risolto attraverso il pianto o il riso: è solo questo che costituisce la trama. I romanzi melliflui di Jane Austen o di una Barbara Pym si basano su un'opposizione civile che può essere risolta attraverso la ragione; il concepimento di una trama nella quale gli antagonismi si accendono senza che un solo atto violento venga sferrato richiede un'immensa integrità artistica. Nella nostra era, almeno, la violenza fisica è monopolio dell'artista minore.
Affronterò adesso un argomento per me delicato. Riconosco di essere stato responsabile, come chiunque altro, del culto della violenza che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni. Nel 1962 pubblicai un romanzo intitolato «Arancia meccanica» in cui l'interesse era rivolto ai metodi di repressione della violenza giovanile piuttosto che alla glorificazione dell'atto aggressivo. Dieci anni dopo la pubblicazione anni caratterizzati da critiche perplesse e da un esiguo numero di lettori ‑ Stanley Kubrick adattò il libro al grande schermo piuttosto brillantemente. La sua versione differiva dall'originale in quanto il regista enfatizzava l'aspetto visivo mentre io ero stato particolarmente attento a convertire in sonorità ‑ nello specifico, i suoni di una lingua inventata ‑ i cliché della confusione e dei delitto.
Sia nel libro sia nel film il protagonista, attraverso il lavaggio del cervello, veniva trasformato da un individuo amante della violenza in un automa che vomita al solo comparire di un pensiero violento. La domanda era questa: è ammissibile sopprimere la libera volontà per assicurare la stabilità della società?
Tra gli spettatori del film non furono in molti che si resero conto dell'interrogativo: la maggior parte era troppo eccitata dalla violenza per riflettere sulla filosofia del concetto.Come sappiamo, Kubrick e incidentalmente io stesso fummo accusati di aver raffazzonato qualcosa che assomiglia alla pornografia violenta; Kubrick ricevette dure minacce da alcuni nemici della violenza; in Gran Bretagna, diversamente dagli altri Paesi, il film venne ritirato e, non essendo stato possibile vederlo, «Arancia meccanica» si è guadagnato una reputazione ancor peggiore di quella che merita. Ma, soprattutto, un grande artista cinematografico ha ammesso dinnanzi al mondo che l'arte può essere dannosa.
Se «Arancia meccanica» può corrompere, perché non lo possono fare la Bibbia e Shakespeare? E, invero, perché no? Ricordo di essere tornato a Londra da New York con un paio di premi ricevuti dal New York Critic's Circle e di essere stato inviato a difendere il film in un programma radiofonico condotto da Sir James Savile, ai quei tempi un ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico. Notate che l'unico tipo di approccio al film fu di attacco o di difesa: un sereno giudizio estetico allora sembrava essere fuori luogo. La mia linea di difesa fu che l'azione era anteriore all'arte, che l'aggressività era insita nell'uomo e che, quindi, non poteva essere insegnata da un libro, da un film, o da un dramma.
Se si desiderava credere che un libro potesse istigare alla violenza, allora la Bibbia, considerata l'espressione della Parola di Dio, poteva costituire il primo esempio. Dagli USA giungeva la notizia secondo la quale gruppi di quattro giovani vestiti bizzarramente come i protagonisti di «Arancia meccanica» avevano stuprato delle suore a Poughkeepsie, mentre a Indianapolis avevano picchiato degli anziani. Continuai a negare la possibilità che il film avesse potuto istigare i giovani alla violenza, ma non ero del tutto sincero: era Shakespeare che stavo difendendo.
Dal film "Arancia meccanica" la gioventù non apprese l'atto aggressivo: essa era già aggressiva. Ciò che imparò fu uno stile di aggressione, un modo nuovo di abbigliarsi per far violenza, una salsa piccante per condire un'insalata fatta di calci, percosse e colpi di lama di rasoio. Un prodotto artistico ha una qualità autorevole, uno slancio giustificativo che garantisce virtù all'imitazione. Noi sappiamo, anche se non lo vorremmo, che l'offerta di Abramo di sacrificare il proprio figlio al Signore è stata adottata per giustificare l'infanticidio e che l'atto dei pluriomicida Haigh di bere il sangue delle proprie vittime aveva le sue origini in una devozione maniacale nel sacramento dell'Eucaristia. Forse una persona può vedere «Amleto» e poi fare cosa ha rimandato di fare: uccidere, cioè, il proprio zio. Non sappiamo se «Il silenzio degli innocenti» abbia promosso il cannibalismo o la folle carneficina dei suo protagonista.
Ci inchiniamo adesso, in ogni caso, dinnanzi a una tesi che pensavo non avrei mai accettato, quella della pericolosità dell'arte. Ai tempi dei Moors Murders (Assassini delle paludi), quando l'omicida Brady ammise di poter essere stato influenzato da «Justine» del Marchese de Sade, l'ultima Lady Snow disse che se il rogo di tutti i libri esistenti al mondo fosse stato necessario per risparmiare la morte di un bambino, noi non avremmo dovuto esitare ad incendiarli (naturalmente, le pellicole cinematografiche produrrebbero una fiamma migliore).
Il discorso sta andando troppo oltre: ma io sto iniziando ad accettare il fatto che, quale romanziere, appartengo al rango dei pericolosi. Ero solito considerarmi un innocuo arrivista della penna.
Composta prevalentemente da film narrativi e dal libero sfogo dell'impressionante, l'interrogativo su fino a che punto la televisione possa essere un agente di corruzione è divenuto pressante. Con la sua trasformazione in una sorta di museo dei film e in bacheca per telefilm prodotti con pochi soldi, il mezzo di comunicazione televisivo ha già tradito parte della sua funzione iniziale.
Negli Anni 50 la Bbc trasmetteva drammi, non lungometraggi. Gli spettacoli principali della serata erano Checov, Rattigan o persino Shakespeare, recitati dal vivo a intervalli. Il teatro veniva portato nei salotti e il teatro non ha mai permesso gli eccessi del cinema. I polizieschi americani che adesso affollano le ore oziose prima di andare a letto devono essere violenti ma la violenza dei cattivo è bilanciata da quella del buono. Eppure dubito che la violenza di tali sceneggiati abbia un impatto reale: non ci sono esseri umani, ma solo assassini e poliziotti.
Di principio ‑ ed è un principio che sono stato disposto ad accettare oltrepassati i cinquanta ‑sono favorevole alla censura ai danni dei piccolo schermo, anche se ritengo che il pubblico si sia già sensibilizzato nei confronti della violenza in tv, una sensibilità che nella parte finale del film è pronta a dire: «Ne ho abbastanza, basta». E' improbabile che alcuni degli eccessi cinematografici vengano riprodotti sul piccolo schermo.
Devo confessare che negli ultimi vent'anni ho guardato la televisione in Francia e in Svizzera, con soggiorni occasionali a New York. La televisione, come è risaputo, è migliore in Gran Bretagna, ma non esiste una grande differenza qualitativa se uno attraversa l'Atlantico o le Alpi. La televisione mondiale è omogenea, impregnata cioè di innocui sceneggiati americani. Come gli alimenti che mangiamo a colazione, essa è melliflua e il suo aspetto negativo non è nella somministrazione di acute stoccate di violenza o di stimoli sessuali quanto piuttosto nei fatto che la televisione è un mezzo di espressione che può essere o non essere volgare. Quale semplice visitatore della Gran Bretagna sono spaventato dalla violenza della pubblicità che paga ciò che viene trasmesso prima o dopo, dall'avvilimento del linguaggio, dallo humour così scadente da far arrossire. Si rimpiangono i vecchi tempi, l'unico canale della Bbc, le rappresentazioni tranquille, la ruota della fortuna, il mulo Muffin. Adesso, invece, il desiderio di foraggiare cromaticamente ogni minuto della trasmissione porta a fare uso della violenza a basso costo. Non penso però ci sia nulla da temere.
Il pericolo della tv, soprattutto se i suoi standard vengono stabiliti virtualmente dagli interessi commerciali, è che essa sia agente del degrado sociale. Questo è ancor più spaventoso dell'eventualità che «Arancia meccanica» raggiunga lo schermo.
Traduzione di Rossana Rapisarda
lunedì 26 novembre 2007
I triangoli nel cinema: Sorrisi di una notte d'estate
sa che Fredrik sta guardando col binocolo l'amante Desirée
Solimano
Apparentemente, Sorrisi di una notte d'estate di Ingmar Bergman (1955), ha una struttura che richiama un po' quella de La ronde (Strindberg/Ophuls), ma vediamo di ricostruire i fatti, ci troveremo delle sorprendenti differenze.
La Contessa Charlotte Malcolm (Margit Carlqvist) ama suo marito, il Conte Carl Magnus Malcolm (Jarl Kulle), ma è un amore sofferto, perché sa che Carl è l'amante di Desirée Armfeldt (Eva Dahlbeck), celebre attrice, che è divisa fra Carl e Fredrik Egerman (Gunnar Bioernstrand), ricco e maturo (Desirée, non sposata, ha un figlio piccolo, che si chiama, vedi caso, Fredrick). A sua volta, Fredrick, dopo che è rimasto vedovo, si è risposato con Anne (Ulla Jacobsson), molto giovane, che è ancora illibata, per timidità sua e rispetto di Fredrick, che aspetta paziente che la giovane si svegli.
mentre Henrik abbraccia vergognoso la chitarra,
non potendo abbracciare né Anne né Petra
Anne è quasi maternamente amica di Henrik (Bjorn Bjenvelstam), il figlio di primo letto di Fredrick, studente in teologia, che ha la stessa età di Anne, e quindi il maternamente non gli starebbe bene. Però Henrick è attratto dalla cameriera di Anne, che si chiama Petra (Harriet Andersson), ragazza assai vivace, che si diverte a menare per il naso Henrik, senza dargli mai completa soddisfazione. Intanto Petra conosce il cocchiere Frid (Ake Fridell) che le piace molto, è vivace e disinibito come lei, che lo vorrebbe sposare.
Fin qui, la struttura è come quella de La ronde, salvo il fatto che sono amori in cui non c'è sempre il sesso, ma ci sono sentimenti, passioni, inibizioni; inoltre c'è che questa Ronde non si chiude, perché non lo vedo proprio il cocchiere Frid con la contessa Charlotte, non avrebbero niente da dirsi e da darsi (per quanto... in queste cose non si sa mai...)
non sa che Charlotte sta cercando di ingelosirlo, e che Anne,
la moglie di Fredrik, è appena scappata con Henrik
Più che di una Ronde, si tratta di una serie di triangoli, che hanno l'un con l'altro un lato in comune. La trama del film è il racconto di come questi lati comuni non ci siano più: quello che è oscuro si chiarisce, quello che è inibito si sveglia, quello che è vivace si regolarizza in un rapporto di coppia, che forse durerà forse no, fatto sta che alla fine del film i personaggi soffrono meno che all'inizio, un gran bel risultato. Così Charlotte e Carl ristabiliranno fra di loro una pace amorosa seppure armata (amano sparare entrambi), Anne ed Henrick fuggiranno insieme all'alba di quella magnifica notte di sorrisi, fuggiranno sulla carrozza approntata da Petra e Frid, che durante la notte si sono amati. Fredrick, abbandonato da moglie e figlio, preso in giro dal Carl con una falsa roulette russa, all'inizio del film era il più sicuro di sé, alla fine sembra lo sconfitto, ma il rapporto con Desirée non sarà per lui una consolazione da poco. Tutto si aggiusta, quindi, anche se tutto rimane come prima: i personaggi resteranno alle prese con l'impermanenza dell'amore e degli amori, con l'ansia di possesso ed il rischio di perdita. Ma sapranno tutti, uno per uno, che senza amore ed amori non si può stare: si vive quando si ama - e quando si è amati, se possibile.
In questo film prodigioso, che rivelò al mondo il talento di Ingmar Bergman al festival di Cannes di quell'anno, diversi critici trovarono un fondo cinico, qualcuno disse addirittura che era un film amarissimo. Ma quando mai. Quasi tutti, allora, avevano una visione dell'amore statica, regolamentata, doveva essere un amore privo di durata, che vivesse nell'eternità fittizia della costanza dei sentimenti, e nella sicurezza di una monogamia che è più dei piccioni che degli esseri umani. Questo film racconta il passaggio da amori celati, inquinati, contraddetti dalle situazioni concrete, ad amori palesi, schietti, che vivono non in una bloccata eternità, ma nell'intensità del qui e ora, sapendo benissimo di essere esposti a due venti: il vento della noia e quello della opportunità. La regola del non esserci regole ha persino questo di bello, che un amore, se basato più sul rapporto che sul legame, può essere nuovo ogni giorno per anni ed anni. Ma questo piccolo pensiero grande nel 1955 non era quasi possibile, e al di là delle apparenze è minoritario anche oggi. La insincera certezza, basata su quotidiane menzogne, è come una assicurazione, l'amore giorno per giorno (magari sempre rivolto alla stessa persona) è un rischio che è meglio non correre.
Allora, Bergman non si è ispirato a Strindberg ed a Ophuls? Credo proprio di no, al di là delle apparenze: quando rivedo questo film penso a "Le nozze di Figaro" di Mozart ed in particolare al personaggio di Cherubino: "Voi che sapete che cosa è amor" e "Non so più cosa son cosa faccio". Ci trovo la stessa felicità lievemente turbata, quindi ancora più vera.
si lascerà trovare, la notte d'estate è troppo bella
Scarpette rosse
Giuliano
- ... le scarpette rosse non sono mai stanche, la ragazza continua a danzare, il tempo fugge, l’amore fugge, la vita fugge, ma le scarpe continuano a ballare...
- E poi come va a finire?
- Oh, alla fine lei muore.
“Scarpette rosse” inizia con una sequenza che a me è particolarmente cara: l’ingresso al loggione, cioè il posto su in alto, vicino al soffitto, dove nei teatri ci sono i posti che costano di meno. L’ho fatto tante volte, non al Covent Garden ma alla Scala: era proprio come si vede nel film, con la corsa su per le scale per aggiudicarsi il posto migliore. Io ero più tranquillo, non correvo più di quel tanto anche perché l’essere alti di statura in questi casi serve (qui come in metropolitana) per vedere meglio, e non solo per prendere testate contro le travi dei sottotetti. L’ingresso al loggione (la Scala è meno comoda del Covent Garden che si vede nel film), 45 minuti prima dello spettacolo, come si usava nei tempi civili e come adesso non si usa più.
E’ un film che è stato famoso, famosissimo, e che oggi è stato quasi dimenticato: ed è un vero peccato. E’ un film sul balletto, ma detto questo non si è detto niente. E’ un film sul Teatro, ma anche questo non basta per definire il film.
Il film è firmato da Michael Powell ed Emeric Pressburger, insieme: sono la coppia vincente del grande cinema inglese, un perfetto punto d’incontro tra l’arte e il grande artigianato. (In quel periodo, in Inghilterra, lavoravano anche altri grandi di questo tipo: Alfred Hitchcock era uno di quelli, e non era il solo).
Le “scarpette rosse” vengono da una fiaba di Andersen, una di quelle più impressionanti: come la Sirenetta o la Piccola Fiammiferaia. C’è una ragazza che indossa un paio di scarpette rosse, per lei appositamente create da un misterioso personaggio; appena se le mette comincia a danzare, e non smette più. Il tempo passa, la vita passa, le scarpe continuano a far muovere la ragazza, fino alla morte. Powell e Pressburger costruiscono questa storia attorno al mito dei “Ballets russes” di Sergej Diaghilev, che ad inizio Novecento (quindi poco prima del film) sconvolsero l’Europa per la loro forza e novità. Al posto di Diaghilev mettono una figura decisamente più inquietante, e gli danno il nome di un grande scrittore russo: Lermontov.
Lermontov è interpretato da un attore straordinario, austriaco di nascita, che si chiama Anton Walbrook. Non credo che questo film, così come l’avevano in mente gli autori, potesse essere realizzato con un altro attore. Walbrook è enorme. Distante, glaciale, possessivo e ossessivo, grande e generoso: un mostro, in tutti i sensi. Costruisce e distrugge, vede l’arte come una religione, la suprema rinuncia, e gli artisti come monaci. Quando la sua prima ballerina si sposa, Lermontov la scarica subito e la cancella dalla sua vita. Al suo posto trova una ragazza molto giovane: la interpreta Moira Shearer, che è una vera danzatrice classica allora all’inizio della carriera. Ne fa la sua stella, per lei inventa un balletto nuovo e la porta al successo; ma anche lei cadrà nell’errore di innamorarsi e di sposarsi, e sarà un errore fatale.
“Red shoes”, di Andersen, è appunto il soggetto che Lermontov sceglie per la sua nuova stella. Ne affida la musica a un giovane, uno di quelli che avevamo visto correre su per le scale del loggione: non lo conosce affatto, ma Lermontov ha il colpo d’occhio e l’intuito necessario per capire che quel ragazzo ha del talento. Siamo all’inizio del film: il giovane compositore era andato a teatro non per il balletto, ma per ascoltare la nuova musica composta dal suo insegnante di Conservatorio. Con sorpresa, scopre che si tratta in gran parte di musica sua: il suo maestro l’ha inserita nella partitura senza dirgli niente, e ci ha messo sopra il suo nome. Il ragazzo scrive una lettera a Lermontov denunciando l’accaduto; poi gli dispiace e chiede se può riaverla indietro. Ma l’impresario l’ha già letta: “Bisogna vergognarsi di rubare, non di essere derubati”, dice Lermontov al giovane, e lo invita a lasciar correre. Si fa suonare qualcosa, sembra quasi non ascoltare, e invece gli fa subito un contratto. Poi il film inizia per davvero, e siamo nel bel mezzo del palcoscenico, delle prove. Vediamo all’opera vere e proprie stelle internazionali, nomi che diranno poco a chi non ha mai seguito la danza ma che sono ben conosciuti ancora oggi: il coreografo è Leonid Massine, la prima ballerina che poi si sposerà è Ludmilla Tcheyrina.
Appena iniziano le sequenze delle prove, con Moira Shearer tra le quinte, come tante, ad aspettare il suo turno, viene spontanea (tra rabbia compressa e sospiri profondi) una domanda. Quanto è stato rubato da questo film? Dozzine di film, telefilm, programmi tv, da “Saranno famosi” agli spettacolini pomeridiani di Canale 5, hanno rubato e rubano in continuazione da “Scarpette rosse”. E’ così che il piacere di rivedere queste scene si attenua molto, e ci vuole un po’ di tempo per tornare di nuovo al film. E’ come se ci avessero rubato qualcosa, questo film è diventato come un oggetto prezioso pieno di ditate e di macchie d’unto, ed è un vero e proprio danno del quale vorrei essere risarcito...
Il film continua, la storia entra nel vivo. E’ un film morboso, sontuoso, gotico, onirico, espressionista: non ho parole. I colori sono meravigliosi, da favola. Da qui in avanti vi lascio il piacere di ripensarlo, o di andarlo a cercare, magari su vhs o su dvd.
Basta poco, a Powell e Pressburger, per ricavare un effetto enorme. Uno sbuffo di vapore è un treno, anche se questo non è un film povero c’è invenzione in ogni inquadratura. Dietro c’è un background che oggi si è perso, una enorme capacità artigianale, manuale; ed è per questo che non si fanno più film così. Oggi costruire una scena è molto più facile, non serve più il legno, non serve più nemmeno il polistirolo: basta un computer e anche un bambino può girare un film, ma non è la stessa cosa. Questo film vecchio, ormai vecchissimo, ha però uno spessore, un’altezza, una profondità, è come la bottega di un ebanista o di un falegname: ha anche un odore, l’odore del teatro, del legno e della polvere, e dei velluti. Sembra di essere lì, come nelle migliori occasioni: dentro al film, e dentro al teatro.
Non c’è grande musica, in “Scarpette rosse”: Brian Easdale non è Stravinskij e nemmeno Gershwin, però ruba molto da tutti e due (Petrushka, e un po’ di swing.). La grande musica entra solo di sbieco, nel resoconto della carriera della giovane ballerina, con Respighi-Rossini (La bottega fantastica), con la Coppelia di Delibes (ad anticipare il futuro “Racconti di Hoffmann”), con Stravinskij, Ciaikovskij... La musica di Brian Easdale, abituale collaboratore di Powell e Pressburger, è diretta da sir Thomas Beecham: peccato che non lo si veda nel film. Bisogna però dire che è musica perfetta per il film, piacevole e molto funzionale. Non ci potrebbe essere musica diversa da questa, in “Scarpette rosse”.
Due parole ancora per Moira Shearer: bellissima, rossa e scozzese, alta e atletica, ben lontana dalla ballerina anoressica che siamo abituati ad immaginare. Un po’ anonimo Marius Goring, che interpreta il compositore Julian Craster, suo innamorato. E ancora una menzione per Walbrook, monumentale, elegante e affilato, che somiglia molto al grande tenore Alfredo Kraus.
E molto più di una parola per il Balletto, che occupa una parte consistente del film: ovviamente, è “Scarpette Rosse”, coreografia di Leonid Massine. C’è anche un momento quasi di animazione, quasi come Luzzati, nel balletto (un momento soltanto: la scena estatica)
Al cinema, e nelle narrazioni, non si può barare (e nemmeno quando si raccontano le barzellette). Il soggetto va sempre affrontato: lo si dichiara in partenza e non lo si può più eludere, come il drago di Sigfrido o come le Sirene. Se si nomina il drago, il Drago ci deve essere; e deve essere fatto a meraviglia. Qui sei arrivato, e qui devi saltare; e Powell-Pressburger saltano, eccome se saltano. Un film come questo non può prescindere dal Ballo, e il Ballo c’è, ed è grande e meraviglioso. Bello anche per chi non ama il balletto, e tutto da vedere anche dopo sessant’anni.
Regia e sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger.
Soggetto: Emeric Pressburger, ispirato alla fiaba di Hans Christian Andersen.
Fotografia (colori): Jack Cardiff. Operatore: Christopher Challis. Effetti speciali: F. George Dunn, D. Hague. Montaggio: Reginald Mills.
Musica: Brian Easdale. Direzione musicale: Brian Easdale, Sir Thomas Beecham.
Suono: Charles Poulton. Cantante: Margherita Grandi.
Production designer e costumi: Hein Heckroth. Scenografia: Arthur Lawson. Coreografia: Robert Helpmann. Ballerino: Alan Carter.
Interpreti: Marius Goring (Julian Craster), Anton Walbrook (Boris Lermontov), Moira Shearer (Victoria Page), Jean Short (Terry), Gordon Littman (Ike), Julia Lang (appassionata del balletto), Bill Shine (il suo compagno), Leonid Massine (Ljubov), Austin Trevor (il professor Palmer), Esmond Knight (Livy), Eric Berry (Dimitri), Irene Browne (Lady Neston), Ludmilla Tcheyrina (Irina Boronskaja), Jerry Verno (l'usciere dell'entrata degli artisti), Robert Helpmann (Ivan Boleslawsky), Albert Basserman (Sergej Ratov), Derek Elphinstone (Lord Oldham), Madame Rambert (se stessa), Joy Rawlins (Gladys), Marcel Poncin (Boudin), Michel Bazalgette (Rideaut), Yvonne André (la cameriera di Victoria), Hay Petrie (Boisson), George Woodbridge (il portiere). Produzione: Michael Powell, Emeric Pressburger. Produttore associato: George R. Busby.
Compagnia di produzione: The Archers. Durata: 133'.