Vera Drake, di Mike Leigh (2004) Con Imelda Staunton,Richard Graham, Eddie Marsan, Alex Kelly, Daniel Mays, Philip Davis, Lesley Manville, Sally Hawkins, Simon Chandler, Peter Wight Musica: Andrew Dickson, Edward Elgar: "Salut d'amour" Fotografia: Dick Pope (125 minuti) Rating IMDb: 7.8
Solimano
Essere ignoranti qualche volta conviene. Non sapevo nulla di questo film, se non che era di Mike Leigh, un regista che prediligo. Così, alla biblioteca di Lissone mi sono trovato in mano il DVD e l'ho preso in prestito. Se ne avessi conosciuto la trama, non l'avrei fatto, ed avrei perso la visione di un film forse pari a "Segreti e bugie", sempre di Leigh, il film che da solo è la risposta a chi dice che il grande cinema è finito con gli anni Ottanta. Perché il tema è l'aborto, ed è un tema da cui cerco di sfuggire. Dopo aver visto il film, ho guardato in rete, ed ho trovato, fra molte recensioni laudative, alcuni commenti in cui, pur di non mostrare il disagio interiore, si mente in modo spudorato dicendo che il film è brutto, noioso, falso, recitato male. E ci può stare, in questi tempi in cui spesso la pietà e la comprensione sembrano assenti ai vertici della Chiesa (ma la recensione commossa e partecipe di Famiglia Cristiana è un segno in controtendenza), ma purtroppo c'è anche un altro atteggiamento, che analogamente non condivido: quello dell'aborto inteso come diritto civile, come segno di libertà, per cui si rimprovera a Leigh di aver fatto un film di passione e di compassione, invece di un bel film polemico e urlato.
L'aborto è un dramma, e so quello che mi costò la decisione di votare a favore della legge di legalizzazione dell'aborto al tempo del referendum, tanti anni fa, legge che alcuni vorrebbero oggi rivedere, forse perché di mezzo oggi ci vanno quasi sempre persone che non hanno cittadinanza italiana. Viene esercitato un tacito ecchissenefrega! poi magari si parla ipocritamente di volontariato: se un problema è presente non ci si può comportare come se fosse assente. Quel voto al referendum segnò per me il distacco dal mondo cattolico di cui avevo fatto parte convintamente per anni.
Nella Londra del 1950 si svolge la vita di Vera Drake (Imelda Staunton). Fa la domestica ad ore con scrupolo, e vive felicemente da ventisette anni col marito Stan (Philip Davis) e con i figli Ethel (Alex Kelly) e Syd (Daniel Mays). La vita è difficile, il cibo razionato, per questo è festa grande quando possono sedersi a tavola e mangiare con parenti ed amici. Vera provvede anche alla madre, che non è autosufficiente. Da molti anni svolge una attività che tiene segreta a tutti: aiuta ad abortire donne in difficoltà. Non prende soldi, lo fa perché ritiene giusto farlo, forse per una sua esperienza giovanile che il film appena adombra. Un po' di soldi, due sterline - ma Vera non lo sa - li prende invece una donna che le segnala i casi e gli indirizzi. Nell'Inghilterra del 1950 c'era una legge che permetteva di abortire a certe condizioni, ma occorrevano avvocati, medici, psicologi, più di cento sterline, ed il film mostra uno di questi casi: una ragazza borghese che è rimasta incinta in un rapporto forzato. E' un dramma anche per lei, ma basta seguire bene la filiera avvocato-medico-psicologo, raccontare storie su una zia matta ed il caso è risolto, le cento sterline sono il meno. Ma le clienti di Vera non possono fare così, ed il film ce ne mostra alcuni casi: la donna rimasta incinta mentre il marito è in Corea, la madre di sette figli che ha il marito privo di senso di responsabilità e non vuole l'ottavo, la ragazza nera che non sa come fare, quella che abortisce regolarmente come se fosse una piccola tassa periodica, la ragazza che non vuole il figlio mentre il suo ragazzo lo vorrebbe, ci sono quelle che si appoggiano a Vera e quelle che la trattano in modo sprezzante. Con tutte, Vera ha un atteggiamento analogo, cerca di tranquillizzarle e di dire che cosa succederà quando farà effetto l'acqua saponata che inserisce con una siringa. Va in giro munita di una valigetta che contiene quelle quattro o cinque cose che le servono. Solo che una delle ragazze si sente male, viene ricoverata d'urgenza, finisce che qualcuno fa il nome e la polizia si presenta alla casa di Vera mentre è in corso una festa: Ethel e Reg (Eddie Marsan) si sono finalmente fidanzati, e tutti ne sono contenti. Apprendono nel giro di un giorno o due di che cosa è accusata Vera, e gli atteggiamenti sono diversi, il marito le è subito accanto, il figlio Syd no, così anche fra i parenti e gli amici. Ma tutti saranno presenti in tribunale quando, poche settimane dopo, Vera sarà condannata a due anni e sei mesi di prigione, e le è andata anche bene che quella ragazza si sia salvata.
Ma Leigh non gioca la carta dell'incomprensione crudele da parte della legge e della polizia: l'ispettore (Peter Wight) fa il suo dovere con umanità. L'atteggiamento di Vera è semplice: ritiene di aver fatto quello che sentiva di dover fare, ma rispetta ugualmente la legge ed il tribunale in cui si trova. Nelle ultime scene la si vede, con l'uniforme da carcerata, dialogare in prigione con detenute che hanno fatto come lei, magari per soldi o con mezzi diversi dai suoi. Perché ha taciuto con tutti, compreso il marito ed i figli? Perché l'avrebbero convinta a smettere e lei non voleva.
A vederli all'inizio dei suoi film, gli attori e le attrici di Mike Leigh appaiono brutti, i volti non sono noti, sembra che li prenda dalla strada. Non è così: tutta la naturalezza, la verità - diciamola la parola giusta - delle persone dei film di Leigh è frutto di studio rigoroso e di attori o teatrali o della TV di completa professionalità e dedizione. Così per gli arredi, i vestiti, le strade, le automobili, tutto. Nessuno direbbe di questo film che è un film in costume, invece lo è, racconta una storia di quasi cinquant'anni prima. Leigh riesce, con un lavoro coerente, ad evitare sia la freddezza che gli effetti facili, porta man mano noi spettatori in uno stato di coinvolgimento e di commozione crescenti, che percepiamo col vederli sempre meno brutti e più veri, i suoi interpreti. Uno che non vede i suoi film non riuscirebbe mai a capire quello che si prova a guardare il volto di Imelda Staunton, o di Philip Davis o di Daniel Mays, si rimane persino straniti incontrandoli in film in cui fanno altri personaggi. Non condivido quello che si dice, che Mike Leigh fa film di vecchio stile: non esiste nei film a cui lo assomigliano una autenticità come la sua. Per ottenerla sa che deve fingere in modo completo: è rigore nell'arte, coerenza rappresentativa, non naturalismo imitativo. Non credo di conoscere altri registi che così pienamente riescano a sciogliere gli attori nei personaggi. Per riuscirci ha una sola strada: trovare attori ed attrici disposti a seguirlo spogli di orpelli e di facili compensazioni sceniche. Il fatto straordinario è che ci riesce: su un tema del genere sa trovare le risposte giuste, non polemiche né sentimentali ma solamente, semplicemente, umane. Non è simpatia la sua, come qualcuno ha detto in modo ammirato ma riduttivo, ma comprensione piena, fingere in modo completo per giungere alla verità.
domenica 30 settembre 2007
L'isola
Seom, di Kim Ki-duk (2000) Con Jung Suh, Yoosuk Kim, Sung-hee Park, Jae-hyeon Jo, Hang-Seon Jang Musica: Sang-yun Jeon Fotografia: Sei-shik Hwang Rating IMDb: 7.0
Giuliano
E’ un film terribile, girato da un grandissimo regista. Mai viste così tante atrocità in un film solo; forse solo in Oshima. Però questo è grandissimo cinema, uno shock totale sul quale dovrò documentarmi. Per fortuna, c’è internet: su www.cinemacoreano.it trovo ben sei pagine , che si aprono con una citazione da Artaud; e già questo spiega tante cose. Riassumo: 1) Kim Ki-duk arriva al cinema a trent’anni compiuti, a Parigi, quasi per caso: prima, cinque anni nell’esercito coreano e un’infanzia violenta alle spalle. 2) E’ lui che fa le bellissime sculture con il filo metallico che abbiamo visto nel film. 3) “La crudeltà è il suo marchio di fabbrica”: appunto Antonin Artaud, grande e folle, e il suo“ teatro della crudeltà”. 4) “i film non possono cambiare la realtà, ma semmai lo stato di coscienza di un individuo” (Kim Ki-duk).
Il film è girato su acque fermissime, immobili, forse di un lago. Ci sono delle zattere, realizzate con bidoni di plastica legati fra di loro, con sopra una casetta sulla quale, a pagamento, si può andare a pescare, e anche portarvi una donna: sempre a pagamento, s’intende. Su questo universo maschile fa la guardia una ragazza, che abita sul molo e che porta i paganti sulle casette galleggianti. Da questa situazione evolve tutta la storia.
La ragazza, che a tratti ricorda Lea Massari, si chiama Jung Suh. La valenza simbolica è potentissima ed evidente: una traghettatrice, sulle acque. Un Caronte femmina, forse. Una ninfa, naiade, sirena? Uno spettro coreano? Sicuramente, qualcosa di forte e di distruttivo.
Il ragazzo è Yoosuk Kim (anche i nomi cinesi e coreani comportano grossi problemi di trascrizione: se non ho capito male, si inizia sempre dal cognome: Kim è l’equivalente del nostro cognome, e Ki-duk è il nome personale. Ma molto spesso, sono “raddrizzati” per non leggere a rovescia: su imdb riportano i nomi all’uso nostro, e poi non ci si capisce più niente).
E’ difficile parlare di questo film. Siamo di fronte ad un mondo completamente diverso da quello a cui siamo abituati a pensare, soprattutto dal punto di vista morale. Alcune scene sono così forti che mi sento di sconsigliarne la visione a chi soffre troppo il sangue e la violenza: perché qui non si scherza affatto. Eppure, il fascino rimane, ed è fortissimo. Nessun altro ha la potenza e l’originalità di Kim Ki-duk, nel cinema di oggi, e anche dal punto di vista tecnico, della bellezza delle immagini e del lavoro sugli attori, c’è di che rimanere sbalorditi.
Se ne potrebbe concludere, e non sarebbe la prima volta, che le scuole di cinema sono la rovina del cinema, e le scuole di scrittura sono una grande pialla, che livella tutto a un piattume uniforme. E’ una conclusione un po’ forte, e me ne scuso: ma è una cosa che penso da tempo, e oggi – complice Kim Kiduk – volevo proprio scriverla e farla leggere a qualcuno.
Giuliano
E’ un film terribile, girato da un grandissimo regista. Mai viste così tante atrocità in un film solo; forse solo in Oshima. Però questo è grandissimo cinema, uno shock totale sul quale dovrò documentarmi. Per fortuna, c’è internet: su www.cinemacoreano.it trovo ben sei pagine , che si aprono con una citazione da Artaud; e già questo spiega tante cose. Riassumo: 1) Kim Ki-duk arriva al cinema a trent’anni compiuti, a Parigi, quasi per caso: prima, cinque anni nell’esercito coreano e un’infanzia violenta alle spalle. 2) E’ lui che fa le bellissime sculture con il filo metallico che abbiamo visto nel film. 3) “La crudeltà è il suo marchio di fabbrica”: appunto Antonin Artaud, grande e folle, e il suo“ teatro della crudeltà”. 4) “i film non possono cambiare la realtà, ma semmai lo stato di coscienza di un individuo” (Kim Ki-duk).
Il film è girato su acque fermissime, immobili, forse di un lago. Ci sono delle zattere, realizzate con bidoni di plastica legati fra di loro, con sopra una casetta sulla quale, a pagamento, si può andare a pescare, e anche portarvi una donna: sempre a pagamento, s’intende. Su questo universo maschile fa la guardia una ragazza, che abita sul molo e che porta i paganti sulle casette galleggianti. Da questa situazione evolve tutta la storia.
La ragazza, che a tratti ricorda Lea Massari, si chiama Jung Suh. La valenza simbolica è potentissima ed evidente: una traghettatrice, sulle acque. Un Caronte femmina, forse. Una ninfa, naiade, sirena? Uno spettro coreano? Sicuramente, qualcosa di forte e di distruttivo.
Il ragazzo è Yoosuk Kim (anche i nomi cinesi e coreani comportano grossi problemi di trascrizione: se non ho capito male, si inizia sempre dal cognome: Kim è l’equivalente del nostro cognome, e Ki-duk è il nome personale. Ma molto spesso, sono “raddrizzati” per non leggere a rovescia: su imdb riportano i nomi all’uso nostro, e poi non ci si capisce più niente).
E’ difficile parlare di questo film. Siamo di fronte ad un mondo completamente diverso da quello a cui siamo abituati a pensare, soprattutto dal punto di vista morale. Alcune scene sono così forti che mi sento di sconsigliarne la visione a chi soffre troppo il sangue e la violenza: perché qui non si scherza affatto. Eppure, il fascino rimane, ed è fortissimo. Nessun altro ha la potenza e l’originalità di Kim Ki-duk, nel cinema di oggi, e anche dal punto di vista tecnico, della bellezza delle immagini e del lavoro sugli attori, c’è di che rimanere sbalorditi.
Se ne potrebbe concludere, e non sarebbe la prima volta, che le scuole di cinema sono la rovina del cinema, e le scuole di scrittura sono una grande pialla, che livella tutto a un piattume uniforme. E’ una conclusione un po’ forte, e me ne scuso: ma è una cosa che penso da tempo, e oggi – complice Kim Kiduk – volevo proprio scriverla e farla leggere a qualcuno.
sabato 29 settembre 2007
Sotto i tetti di Parigi
Sous les toits de Paris, di René Clair (1930) Con Albert Préjean, Pola Illéry, Edmond T. Gréville, Bill Bocket, Gaston Modot Musica: "Sous les toits de Paris" di René Clair, Raoul Moretti, René Nazalles cantata da Albert Préjean Fotografia: Georges Périnal, Georges Raulet (96 minuti) Rating IMDb: 7.9
Giuliano
Questo film è la felicità assoluta. La mano di René Clair, in quegli anni, era una mano benedetta: nessuno ha mai più girato film così belli e storie d’amore così dolci, sapendo toccare anche il tasto drammatico. Quando guardo ai suoi movimenti di macchina, più di settant’anni fa, e penso a quanto erano grosse e pesanti le macchine che si usavano per fare i film, ancora mi commuovo.
Perché non è tanto la storia e i personaggi (sia pure tutti molto belli) che esprimono l’amore e i sentimenti, e la bellezza: sono proprio i movimenti di macchina. Fin dall’inizio, dalle prime sequenze panoramiche sui tetti e sulle finestre, che finiscono poi nella strada da dove parte l’azione vera e propria, è come se fossero gli occhi di una persona (i nostri occhi) a scorrere su e giù per i tetti di Parigi, ad accarezzare con lo sguardo cose e persone, come se fossimo affacciati ad un balcone o come se fossimo lì, in mezzo agli altri personaggi.
Non ho più visto un film così, e sì che ne ho visti tanti. Nel frattempo le macchine da presa sono diventate sempre più leggere e agili, oggi una ripresa come queste del film di Clair può essere effettuata con una macchinetta che sta anche in tasca; eppure questa leggerezza (e questa profondità) io non l’ho più vista. C’è qualcosa di simile in Eisenstein, soprattutto nell’Alexander Nevskij, e anche in Hitchcock (La finestra sul cortile), e anche in Kubrick o in altri film più vicini a noi, ma hanno valori diversi, dall’epico al drammatico al cupo. Il tocco di René Clair esiste solo nei film di René Clair. In questo film, e in “Il milione”, che gli è vicinissimo nel tempo, ma anche in “La bellezza del diavolo” (il mito di Faust, con Gérard Philipe e Michel Simon) e in “Grandi manovre”, che appartengono già al cinema moderno.
Questo film è la felicità assoluta. La mano di René Clair, in quegli anni, era una mano benedetta: nessuno ha mai più girato film così belli e storie d’amore così dolci, sapendo toccare anche il tasto drammatico. Quando guardo ai suoi movimenti di macchina, più di settant’anni fa, e penso a quanto erano grosse e pesanti le macchine che si usavano per fare i film, ancora mi commuovo.
Perché non è tanto la storia e i personaggi (sia pure tutti molto belli) che esprimono l’amore e i sentimenti, e la bellezza: sono proprio i movimenti di macchina. Fin dall’inizio, dalle prime sequenze panoramiche sui tetti e sulle finestre, che finiscono poi nella strada da dove parte l’azione vera e propria, è come se fossero gli occhi di una persona (i nostri occhi) a scorrere su e giù per i tetti di Parigi, ad accarezzare con lo sguardo cose e persone, come se fossimo affacciati ad un balcone o come se fossimo lì, in mezzo agli altri personaggi.
Non ho più visto un film così, e sì che ne ho visti tanti. Nel frattempo le macchine da presa sono diventate sempre più leggere e agili, oggi una ripresa come queste del film di Clair può essere effettuata con una macchinetta che sta anche in tasca; eppure questa leggerezza (e questa profondità) io non l’ho più vista. C’è qualcosa di simile in Eisenstein, soprattutto nell’Alexander Nevskij, e anche in Hitchcock (La finestra sul cortile), e anche in Kubrick o in altri film più vicini a noi, ma hanno valori diversi, dall’epico al drammatico al cupo. Il tocco di René Clair esiste solo nei film di René Clair. In questo film, e in “Il milione”, che gli è vicinissimo nel tempo, ma anche in “La bellezza del diavolo” (il mito di Faust, con Gérard Philipe e Michel Simon) e in “Grandi manovre”, che appartengono già al cinema moderno.
La storia in sè è un curioso e dolcissimo anacronismo: il venditore di canzoni, per strada, e la sua storia d’amore con una ragazza. Credo proprio che di questo mestiere si sia persa del tutto la memoria, e che già all’uscita del film (primi anni ’30) fosse considerata una cosa del passato: quando non c’erano i dischi, si vendevano gli spartiti. Era un’industria fiorente, basti pensare all’epopea dei Ricordi e dei Sonzogno; ma qui siamo in un ambito più casalingo, si vendono canzoni, e la canzone è “Sotto i tetti di Parigi”. La ascoltiamo più volte, nel corso del film: il ragazzo che la intona (per vendere) è bravissimo, e la fisarmonica che lo accompagna è piacevolissima; per strada si forma un capannello di persone e gli affari vanno benone. Ma, come sempre in questi casi, c’è il borsaiolo in agguato che se ne approfitta: e, orrore, ruba il borsellino anche alla bella ragazza... Ma tutto si aggiusta, nei film di Clair: anche il borsaiolo non si rivelerà poi così cattivo, e sarà l’amore a trionfare.
Come dicevo, la bellezza del film sta nel gioco delle immagini. E’ una delizia, e se avete un po’ di sensibilità vi basteranno i primi cinque minuti per innamorarvi per sempre di René Clair.
Come dicevo, la bellezza del film sta nel gioco delle immagini. E’ una delizia, e se avete un po’ di sensibilità vi basteranno i primi cinque minuti per innamorarvi per sempre di René Clair.
Nata ieri
Born Yesterday, di George Cukor (1950) Commedia di Garson Kanin, Sceneggiatura di Albert Mannheimer Con Judy Holliday, Broderick Crawford, William Holden, Howard St. John, Frank Otto, Larry Oliver, Barbara Brown, Grandon Rhodes, Claire Carleton Musica: Frederick Hollander, Ludwig van Beethoven: Sinfonia n.2 Fotografia: Joseph Walker (103 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
Eppure Harry Brock (Broderick Crawford) poteva accorgersi prima che la sua amante da ormai sei anni, Emma "Billie" Dawn (Judy Holliday) non era stupida, ma solo ignorante. Bastava riflettere sul fatto che tutte le sere, quando loro due giocavano a gin rummy vinceva sempre lei. D'accordo, gin rummy non sarà il massimo, come gioco intellettuale, ma dimostrava che Judy era senz'altro meno stupida di lui. Se ci avesse pensato, avrebbe evitato di crearsi un bel problema, scritturando un giornalista, quel morto di fame di Paul Verrall (William Holden). Questi doveva sgrossare Billie, in modo che non facesse danni parlando con la gente che Harry doveva frequentare a Washington per combinare degli affari grossi nel ramo rottami, in cui Harry era competente fin da bambino. E sì che il suo consigliori Jim Devery (Howard St. John), un avvocato che gli costava 100.000 dollari l'anno, l'aveva avvertito di non svegliare il can che dorme, ma Harry non ci aveva badato, fiducioso di essere meno ignorante di Billie, solo perché sapeva che cosa significa "penisola", che Billie credeva fosse il nome di una medicina.
Il guaio fu che Verrall, invece di spiegare a Billie come parlare del tempo con le mogli dei deputati, le insegnò a leggere le prime pagine dei giornali, mentre prima leggeva solo i fumetti. Poi la portò a visitare la Corte Suprema e la statua di Thomas Jefferson, infine fece in modo che leggesse dei libri e che imparasse il significato un po' strano di parole come "democrazia", "popolo", "rappresentanza", "indipendenza", tutte cose che non servivano a nulla, se l'obiettivo era quello di non fare brutte figure con le mogli mentre lui combinava degli affari un po' così con i mariti. Oltre tutto, Harry aveva intestato a Billie proprietà sue, facendole mettere delle firme su delle carte, ma erano solo carte, il proprietario nei fatti era lui.
Adesso Billie ha imparato molte cose, e prima di firmare vuol sapere di che cosa si tratta, e, siccome può accedere all'archivio, sa dove sono le carte che ha già firmato, e sono delle buone carte, meglio addirittura di quelle di gin rummy. Così non c'è match quando i nodi vengono al pettine e Verrall e Billie si innamorano; Harry prova a comprarsi Verrall, come a suo tempo fece con Devery, e passa a vie di fatto con Billie per farle firmare altre carte, poi ci sono le minacce, ma Billie sa come bloccarlo: le carte già firmate adesso le ha lei, che gliele restituirà pian piano se lui non darà fastidio, una carta l'anno - le carte sono 126. Il saluto finale di Billie ad Harry, per chi non se lo ricordasse è questo: "Would you do me a favor, Harry?" "What?" "Drop dead!"
Di questo film, giustamente famoso, ci sono alcune cose che a rivederle non mi convincono più. La prima è la retorica patriottarda di quando vanno alla Corte Suprema, leggono la Dichiarazione di Indipendenza, parlano di deputati e senatori come se fossero persone al di fuori delle miserie umane. Un vezzo tipico dei film americani di allora, ma anche una convinzione molto forte dell'americano medio di oggi. Si stava preparando la tempesta McCarthy, e la stessa Judy Holliday fu interrogata, un anno dopo aver vinto l'Oscar con questo film. A differenza di altri non fece nessun nome, adottando di fronte alla Commissione l'ovvia (per lei) tecnica di fare la Billie prima della cura. Il proverbio: "Due soldi di stupido comprano il mondo" può essere molto vero.
Poi, si vede troppo che il film proviene da una commedia recitata per tre anni di seguito dalla stessa Judy Holliday: il dialogo non sbaglia una mossa, è troppo perfetto, mentre ora apprezziamo una maggiore casualità, un va e vieni più aderente alla vita.
Infine, il film si regge tutto sulle spalle molto robuste di Judy Holliday: Broderick Crawford fa il prepotente in modo troppo sistematico, e William Holden fa la parte dell'angelo salvatore che non era la sua, l'attenzione è tutta per Judy Holliday, lui è solo una spalla, forse non delle migliori. Però dice ogni tanto alcune frasi memorabili, la più bella è questa: "A world full of ignorant people is too dangerous to live in". Il film ha quasi sessant'anni, ma la frase è ancora attualissima, purtroppo. Mentre è stata smentito dal tempo il consiglio che il padre di Billie le dava da bambina: "Never do nothing you wouldn't want printed on the front page of The New York Times." Oggi si consiglia esattamente l'opposto.
Judy Holliday. D'accordo, aveva recitato la commedia per tre anni di seguito, ma non sbaglia un gesto, un modo, un respiro. Non fa l'oca svampita che diventerà usuale in seguito con altre attrici. Fa la donna che ha vissuto a basso livello e crede che la vita sia così, salvo quello che le diceva il padre a cui è rimasta affezionata, vedendolo però come un povero illuso. Scopre che esistono altri libri, non si contenta dei due che le dà Verrall, se li cerca lei, ci si siede sopra - sono tanti e grossi. Con i libri se la prenderà Harry, non sapendo più come fare: questo non è solo un film brillante ma è anche drammatico, vedi la scena in cui Harry costringe Billie a firmare. I cinque minuti della partita a gin rummy non fanno solo ridere, è in corso una lotta, quei due fanno sul serio, lei che nella partita serale vede una rivalsa, lui che non si capacita di perdere.
Ma la scena più bella è quando Billie al mattino riceve Verrall nella sua camera. Sta leggendo il giornale che ha riempito di cerchietti, perché Verrall le ha detto di cerchiare quello che non capisce così poi glielo spiega. Billie, molto diretta, si dichiara a Verrall, che non sa cosa dire, è a libro paga di Harry, quindi sta sul vorrei e non vorrei, e Billie gli fa: "Ti faccio un bel cerchietto attorno".
venerdì 28 settembre 2007
Dracula in Brianza
Il Cav. Costante Nicosia demoniaco, ovvero: Dracula in Brianza, di Lucio Fulci (1975) Sceneggiatura di Mario Amendola, Pupi Avati, Bruno Corbucci Con Lando Buzzanca, Rossano Brazzi, Sylva Koscina, Moira Orfei, Christa Linder, John Steiner, Francesca Romana Coluzzi, Ciccio Ingrassia, Valentina Cortese, Carlo Bagno, Dori Dorika, Ilona Staller Fotografia: Sergio Salvati (100 minuti) Rating IMDb: 5.5
Brian sul suo blog Brianzolitudine
Il Cavalier Costante Nicosia,
demoniaco film, gran vecchio must
del trash quel Dracula in Brianza: cast
con Sylva Koscina e Ciccio Ingrassia,
sceneggia Pupi Avati e alla regia
c’è Lucio Fulci e poi ancora - last
but not least - Moira Orfei, dolce stardust.
Pare il maiale, non si butta via
nulla di questo film: Corbucci Bruno,
Brazzi Rossano col Buzzanca Lando
Valentina Cortese e Mario Amendola,
Ilona Staller, Christa Lind... Ma quando
ce l’hanno mai propinata, estraendola
dal water, questa trama al calor bruno?
Titolo del film:
Il Cavalier Costante Nicosia Demoniaco ovvero: Dracula In Brianza
Anno: 1975 – Distribuzione Titanus
La trama:
Il Cavalier Costante Nicosia, immigrato in Brianza dalla Sicilia, è divenuto un fortunato e rispettato industriale di dentifricio (detto "pasta del Colonnello" - PDC). Ospitato nel proprio castello dal conte Draculescu in occasione di un viaggio per affari nella Romania, Costante torna prima con il sospetto di essere divenuto omosessuale, poi con la certezza di trovare un particolare piacere nel sangue umano.
Aggredito dalla dipendente Vanda che gli domanda se la sua insaziabilità non giunga alla brama di sangue operaio, il cavaliere intuisce la soluzione per il vampirismo di cui è affetto e organizza l'autoemoteca Nicosia che i dipendenti della PDC frequentano grazie alle gratifiche che ne ricevono.
Il felice industriale si riconcilia in Brianza con la moglie Mariù e ottiene un figlio con vistosi canini sporgenti.
Il commento
C’e tutta la Brianza e l’Italia di oggi, in questo stupefacente film visionario, anticipatore e a suo modo profetico: la de-localizzazione produttiva brianzola nell’Europa dell’Est, l’immigrazione romena, le problematiche di sfruttamento lavorativo sanguìsugo nel terziario avanzato, simboleggiate dall’inquietante autoemoteca del Cav. Nicosia.
Ma soprattutto, c’è un Cavaliere brianzolo imprenditore, rampante e di successo. Poteva forse mancare?
Nella trama però, quel Cavaliere proviene dalla Sicilia. E, soprattutto, manca lo stalliere. Sostituito peraltro più che degnamente da una divina, avvenente, bionda e nascente starlet: la futura deputatessa Staller.
Sylva Koscina, in una immagine di studio fotografico
Brian sul suo blog Brianzolitudine
Il Cavalier Costante Nicosia,
demoniaco film, gran vecchio must
del trash quel Dracula in Brianza: cast
con Sylva Koscina e Ciccio Ingrassia,
sceneggia Pupi Avati e alla regia
c’è Lucio Fulci e poi ancora - last
but not least - Moira Orfei, dolce stardust.
Pare il maiale, non si butta via
nulla di questo film: Corbucci Bruno,
Brazzi Rossano col Buzzanca Lando
Valentina Cortese e Mario Amendola,
Ilona Staller, Christa Lind... Ma quando
ce l’hanno mai propinata, estraendola
dal water, questa trama al calor bruno?
Titolo del film:
Il Cavalier Costante Nicosia Demoniaco ovvero: Dracula In Brianza
Anno: 1975 – Distribuzione Titanus
La trama:
Il Cavalier Costante Nicosia, immigrato in Brianza dalla Sicilia, è divenuto un fortunato e rispettato industriale di dentifricio (detto "pasta del Colonnello" - PDC). Ospitato nel proprio castello dal conte Draculescu in occasione di un viaggio per affari nella Romania, Costante torna prima con il sospetto di essere divenuto omosessuale, poi con la certezza di trovare un particolare piacere nel sangue umano.
Aggredito dalla dipendente Vanda che gli domanda se la sua insaziabilità non giunga alla brama di sangue operaio, il cavaliere intuisce la soluzione per il vampirismo di cui è affetto e organizza l'autoemoteca Nicosia che i dipendenti della PDC frequentano grazie alle gratifiche che ne ricevono.
Il felice industriale si riconcilia in Brianza con la moglie Mariù e ottiene un figlio con vistosi canini sporgenti.
Il commento
C’e tutta la Brianza e l’Italia di oggi, in questo stupefacente film visionario, anticipatore e a suo modo profetico: la de-localizzazione produttiva brianzola nell’Europa dell’Est, l’immigrazione romena, le problematiche di sfruttamento lavorativo sanguìsugo nel terziario avanzato, simboleggiate dall’inquietante autoemoteca del Cav. Nicosia.
Ma soprattutto, c’è un Cavaliere brianzolo imprenditore, rampante e di successo. Poteva forse mancare?
Nella trama però, quel Cavaliere proviene dalla Sicilia. E, soprattutto, manca lo stalliere. Sostituito peraltro più che degnamente da una divina, avvenente, bionda e nascente starlet: la futura deputatessa Staller.
Remake e sequel
C'e' il remake e c'e' il sequel (non abbiamo una traduzione in italiano? sfruttiamo la potenza del blog per imporla: rifaciture e seguiti?). Ci sono poi diversi film tratti dallo stesso libro: a volte si tratta di remake, a volte sono film del tutto nuovi (i diversi "postini" che suonano tre volte: il primo e' quello di Visconti in Ossessione).
I grandi cicli affrescati con le storie del Nuovo Testamento sono remake uno dell'altro, anche se lo scopo della rifacitura era diverso.
Una delle ragioni per cui Hollywood fa i remake e' che il pubblico americano di massa odia i sottotitoli e i doppiaggi. Cosi' la Femme Nikita e' stato rifatto per il grande pubblico, dopo che il piccolo pubblico degli eurofili lo aveva visto sottotitolato. In sede di rifacimento, come spesso accade, al film vennero imposti alcuni stilemi tipicamente americani. Nulla deve essere dato per scontato, per esempio: il finale del remake e' quanto di meno misterioso ci possa essere, lontanissimo dall'originale francese, che era freddo, ma compatto.
Alle volte, invece, il remake serve a ringiovanire una storia del passato, magari "attualizzandola". In entrambi i casi il remake e' del tutto simile alla traduzione, piu' specificatamente alla traduzione poetica. C'e' dietro tutto un ottimismo molto illuminista sul predominio del contenuto sulla forma, cio' che e' assai americano.
I sequel rovesciano a volte le carte in tavola. Ricordo dall'infanzia alcuni film catastrofici giapponesi: Godzilla e King Kong (a sua volta remake di) erano cattivissimi, ma in Godzilla contro King Kong il primate diventava un eroe positivo (contiguita' genetica?).
Terminator presenta uno Schwarzenegger addirittura perfido, ma in Terminator II l'androide e' diventato buono, forse perche' il faccione di Schwarzy non poteva essere troppo a lungo associato a un personaggio negativo, visto che le attese dei teenager erano diverse.
In entrambi i casi, e ce ne sono altri, il sequel perde la carica innovativa o di sorpresa del primo prodotto nella serie, scivolando in una foschia cinematografica dove tutte le vacche sono grigie.
Il sequel o il remake "invecchiano peggio" dei loro antecedenti: ci paiono spesso piu' datati, anche se sono piu' recenti (magari molto piu' recenti). Anche questo effetto, curiosamente, e' condiviso dalle traduzioni poetiche e letterarie.
giovedì 27 settembre 2007
Ritratto di signora
The Portrait of a Lady, di Jane Campion (1996) Dal romanzo di Henry James, Sceneggiatura di Laura Jones Con Nicole Kidman, John Malkovich, Barbara Hersley, Mary-Louise Parker, Martin Donovan, Shelley Winters, Shelley Duvall, Viggo Mortensen, Valentina Cervi, John Gielgud Musica: Wojciech Kilar, Franz Schubert (Improvvisi 3 e 4 op. 90, Quartetto N. 14), Johann Sebastian Bach (Concerto N. 1 e Concerto N. 5), Johann Strauss, Mauro Giuliani Fotografia: Stuart Dryburgh (142 minuti) Rating IMDb: 5.8
Gabrilu sul suo blog NonSoloProust
Isabel Archer, la protagonista di Ritratto di signora di Henry James, diventata molto ricca grazie all'eredità ricevuta dallo zio Touchett, dopo aver rifiutato due ottimi e ricchi pretendenti (l'industriale americano Caspar Goodwood e l'inglese Lord Warburton) finisce per innamorarsi e sposare l'ambiguo Gilbert Osmond andando così incontro a una vita segnata da solitudine ed infelicità.
Come spesso accade nei romanzi di James, mentre ci sono momenti che vengono narrati con minuziosa analiticità, altri vengono invece completamente (e volutamente) taciuti. James non racconta, ad esempio, la scena del fidanzamento con Osmond, che risulterà fatale per Isabel. Per molti lettori rischia di rimanere così non del tutto comprensibile la motivazione profonda che porta una ragazza che respingendo la domanda di matrimonio di Goodwood aveva detto "Amo troppo la mia libertà. Se c'è qualcosa al mondo alla quale io sia attaccata [...] è la mia indipendenza personale" a cadere poi tanto ingenuamente nella trappola tesale da Osmond e dalla sua amica madame Merle.
Ho rivisto proprio qualche giorno fa il bel film che dal libro ha tratto Jane Campion, in cui all'eccellente Isabel Archer di Nicole Kidman si affianca il diabolico Gilbert Osmond di John Malkovich. Continuo a pensare che Jane Campion abbia fatto un ottimo lavoro e che sia riuscita a cogliere in pieno l'atmosfera del romanzo di James pur reinterpretandone radicalmente, nel finale, il senso complessivo. Credo però anche che la difficoltà di concentrare nel tempo di un film le circa seicento pagine di analisi psicologica di James l'abbia in qualche modo costretta a semplificare il personaggio di Osmond, presentato forse un po' troppo superficialmente come "cacciatore di dote". Osmond è certamente attratto dalla ricchezza di Isabel ma nel romanzo questo elemento --- pure molto importante --- risulta --- anche se può sembrare paradossale --- quasi in secondo piano rispetto ad altre caratteristiche che rendono lui personaggio molto più inquietante e mortifero che nel film e la sua relazione con Isabel molto più complessa.
L'Osmond di Campion-Malkovich è, inoltre, così evidentemente malvagio e insopportabile fin dall'inizio che davvero risulta difficile credere come Isabel, per quanto "di poca esperienza" e con "la sua innocenza confidente ad un tempo e dogmatica" ma descritta anche come "molto intelligente" e con "un irresistibile bisogno di stimarsi" se ne possa innamorare. Il fatto è che se da una parte Isabel, come scrive James "nelle situazioni più gravi, quando avrebbe avuto bisogno di usare soltanto della sua ragione, doveva pagare il fio di aver sempre dato via libera alla facoltà di vedere senza giudicare" è altrettanto vero che l'Osmond del romanzo si svela molto più lentamente e soprattutto si comporta sempre, formalmente, in modo assolutamente ineccepibile e corretto.
Mi sono in un certo modo divertita a tratteggiare un identikit di Gilbert Osmond servendomi di quello che di lui ci svela Henry James.
Osmond fa la sua comparsa a circa un terzo del romanzo. Ha quarantanni, James descrive il suo aspetto fisico con molta precisione. A poco a poco, nel corso della lettura, emergono anche le sue caratteristiche interiori che sono quelle di un uomo che "aveva sempre di mira l'effetto", che "sotto la maschera di occuparsi solo dei valori interiori [...] viveva esclusivamente per il mondo". "Qualsiasi cosa facesse era posa, posa così sottilmente studiata, che, se uno non fosse stato più in guardia, l'avrebbe senz'altro scambiata per spontaneità". "La sua ambizione non era di piacere al mondo; ma di piacere a se stesso con l'eccitarne la curiosità, senza soddisfarla. Ingannare così il mondo gli dava sempre un senso di grandezza".
Osmond non è un sadico, ma Isabel lo percepisce sempre più come un essere mortifero che possiede "la facoltà [...] di fare appassire qualsiasi cosa toccasse, di guastar [...] qualsiasi cosa guardasse". "Era come s'egli avesse avuto il malocchio, come se la sua presenza fosse stata un contagio e il suo favore una disgrazia". Nella lunga notte insonne che Isabel trascorre a riflettere sul marito, pensa a proposito dei suoi comportamenti che "Non si trattava di misfatti, di turpitudine: ella non poteva accusarlo di nulla, o poteva accusarlo di una cosa sola, che non era un delitto. Non poteva dire ch'egli avesse fatto alcun male: non era violento, non era crudele; ella credeva semplicemente che la odiasse.Questo era tutto ciò di cui lo accusava, e ciò che rendeva più disperata la sua causa era il fatto che questo non era un delitto, perchè contro un delitto ella avrebbe potuto trovare soccorso"
Ma perchè Osmond, che all'inizio era stato molto piacevolmente colpito dalla bellezza e dalla intelligenza di Isabel tanto che se ne era effettivamente innamorato, ha finito per odiarla? James ce lo dice attraverso i pensieri della stessa Isabel, che ricorda:
"Egli le aveva detto un giorno che aveva troppe idee e che doveva liberarsene. Le aveva detto questo già prima del loro matrimonio, ma allora ella non ci aveva fatto caso: più tardi soltanto le era tornato in mente [...] Questo egli aveva voluto dire: gli sarebbe piaciuto che ella non avesse nulla di suo, tranne la graziosa apparenza. Ella aveva sempre saputo di avere troppe idee: ne aveva anche di più di quel che egli avesse supposto, di più di quel ch'ella gli avesse espresso quando egli le aveva domandato di sposarlo"
Nel romanzo ci sono tre colloqui fondamentali per comprendere Osmond e la sua relazione con Isabel.
Quello tra Isabel e la sua amica, la giornalista Henrietta. Quando questa le chiede: "Che cosa ti fa lui?" Isabel risponde: "Nulla, ma non mi ama".
Quello tra Osmond e Madame Merle, in cui ad un certo punto lui si lamenta: "Domandavo assai poco: domandavo soltanto che lei mi volesse bene [...] che ella mi adorasse, se vuoi. Oh, si, ne avevo bisogno"
Il terzo, drammatico colloquio si svolge tra Isabel ed Osmond che le dice (e qui le sue parole sono veramente illuminanti: "Io ho un'idea precisa di quel che dovrebbe essere una moglie, di quel che mia moglie dovrebbe o non dovrebbe fare [...] tu sorridi in modo molto espressivo quando parlo di "noi": ma ti assicuro che "noi", "noi", signora Osmond, è tutto quel che conosco. Io prendo sul serio il nostro matrimonio, ma sembra che tu abbia trovato il modo di far diversamente [...] può essere una vicinanza sgradevole, ma l'hai scelta tu, di tua libera volontà. Non ti piace che te lo rammenti, lo so; ma io te lo voglio rammentare perchè [...] perchè penso che dobbiamo accettare le conseguenze delle nostre azioni, poichè quello che io pregio maggiormente nella vita è l'onore"
Ed è questo appello alla responsabilità la vera trappola che distrugge Isabel. La quale infatti, pur avendone la possibilità, si rifiuta di abbandonare Osmond e ad Henrietta che le chiede: "Perchè non lo lasci?" risponde appunto "Dobbiamo accettare le conseguenze dei nostri atti. L'ho sposato davanti a tutto il mondo: ero perfettamente libera, non avrei potuto fare qualcosa più di proposito. Non si può cambiare in questo modo".
E così la volontà di controllo totale di Osmond si salda con il senso di responsabilità di Isabel, che si sente "colta in una rete di fila sottilissime" e sa "di aver buttata via la sua vita".
The portrait of a lady è dunque un romanzo di formazione che descrive minuziosamente la manipolazione umana ed una acuta analisi di quale orrenda trappola possa diventare il conformismo: agito e adorato da Osmond, accettato e subito da Isabel Archer. Lo stesso James affermò in seguito che "L'idea di fondo è che la poverina, la quale, coi suoi sogni di libertà e di nobiltà, crede di aver compiuto un gesto generoso, spontaneo ed avveduto, si ritrova in realtà schiacciata dagli ingranaggi del convenzionale" ed in un passaggio del romanzo avverte il lettore, difendendo la sua Isabel: "vi prego di non sorridere di questa giovane donna [...] era una creatura piena di buona fede e se c'era qualche follia nella sua saggezza, quelli che volessero giudicarla severamente potranno aver la soddisfazione di constatare che più tardi ella rinsavirà, ma solo a prezzo dell'accumularsi di altre follie che quasi reclameranno di venir compatite".
Jane Campion termina il film alla penultima pagina del romanzo di James, cambiando così completamente il senso della storia. Si tratta di una modifica apparentemente leggera ma che invece pesa profondamente su tutto il film. Nell'ultima pagina del testo di James, infatti, Isabel, rientrata in Inghilterra per vegliare il cugino Ralph gravemente malato, assisterà alla sua morte e, consapevole di averlo sempre amato, tornerà alla sua prigione romana, sapendo di avere sbagliato tutto. James non spiega perchè Isabel firmi così la sua condanna, e conclude il racconto con un sacrificio borghese. Nel film invece la Campion taglia il suo ritorno dal marito lasciandoci intravedere la possibilità che lo abbandoni definitivamente ed offrendole in questo modo un'opportunità di riscatto.
Io non sono qui
I'm not there, di Todd Haynes (2007) Sceneggiatura di Tod Haynes, Oren Moverman Con Christian Bale, Cate Blanchett, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger, Ben Whishaw, Charlotte Gainsbourg, Julianne Moore Fotografia: Edward Lachman (135 minuti) Rating IMDb: 8.6
Giuliano
All’inizio del film, Bob Dylan è un tredicenne nero, che viaggia sui vagoni come un vagabondo degli anni ’30 e dice di chiamarsi Woody Guthrie. Poi è un giovane bianco, sui vent’anni, che dice di chiamarsi Arthur Rimbaud. E infine, dopo una mezz’ora abbondante, è interpretato da una giovane donna che gli somiglia in modo impressionante; ed è a questo punto che ho smesso di chiedermi cosa volesse fare il regista, e ad amare questo film.
La giovane donna che interpreta Bob Dylan in questo modo miracoloso è Cate Blanchett, ed è una di quelle interpretazioni da non perdere assolutamente. Sembrerà strano che sia una donna ad essere, alla fine, quella che più somiglia a Dylan: ma se prendete le foto di Dylan negli anni ’60 troverete molto di femminile nella sua figura, molto esile, e del resto anche nella sua voce ci sono toni femminili. E Cate Blanchett è bravissima nel prendere questo lato femminile del personaggio e usarlo per la sua interpretazione. Va da sè che la Blanchett rimane sempre se stessa, soprattutto nei primi piani, e che il trucco è scopertissimo: ma è così per tutto il film, anche con gli altri attori, ed è questa la chiave narrativa scelta da Todd Haynes per raccontarci Dylan.
Giuliano
All’inizio del film, Bob Dylan è un tredicenne nero, che viaggia sui vagoni come un vagabondo degli anni ’30 e dice di chiamarsi Woody Guthrie. Poi è un giovane bianco, sui vent’anni, che dice di chiamarsi Arthur Rimbaud. E infine, dopo una mezz’ora abbondante, è interpretato da una giovane donna che gli somiglia in modo impressionante; ed è a questo punto che ho smesso di chiedermi cosa volesse fare il regista, e ad amare questo film.
La giovane donna che interpreta Bob Dylan in questo modo miracoloso è Cate Blanchett, ed è una di quelle interpretazioni da non perdere assolutamente. Sembrerà strano che sia una donna ad essere, alla fine, quella che più somiglia a Dylan: ma se prendete le foto di Dylan negli anni ’60 troverete molto di femminile nella sua figura, molto esile, e del resto anche nella sua voce ci sono toni femminili. E Cate Blanchett è bravissima nel prendere questo lato femminile del personaggio e usarlo per la sua interpretazione. Va da sè che la Blanchett rimane sempre se stessa, soprattutto nei primi piani, e che il trucco è scopertissimo: ma è così per tutto il film, anche con gli altri attori, ed è questa la chiave narrativa scelta da Todd Haynes per raccontarci Dylan.
E a questo punto devo parlare dei difetti del film, che sono pochi ma importanti: questo è un film per iniziati, e gli altri rischiano di non capirci nulla, perché tutto qui è raccontato per allusioni e per indizi. Un metodo molto poetico, che dà risultati di grande bellezza, ma per questo film sarebbero necessarie le note a piè di pagina, e non è che sia il massimo della vita, per uno spettatore. Oltretutto, io non sono un fan di Dylan. Dylan non mi appartiene molto, in parte per ragioni anagrafiche, in parte perché Dylan non mi ha mai chiamato: e si sa che bisogna essere chiamati, con il nostro nome, per amare veramente qualcuno – uomo o donna o scrittore che sia. Mi sono perciò arrangiato con quel che sapevo: moltissime cose mi sono rimaste oscure, e continuo a chiedermi se Dylan abbia mai avuto una moglie francese (la interpreta Charlotte Gainsbourg, ed è un’interpretazione notevole), al momento non lo so e non so nemmeno se ci farò sopra una ricerca. Però so dello spaventoso incidente di moto, nei primi anni ’60, dal quale uscì bene ma solo dopo una lunga degenza, e che gli cambiò la vita; e so anche delle polemiche che seguirono il suo abbandono del folk puro e semplice, il passaggio dalla chitarra acustica a quella elettrica, con rock band al seguito, che gli fece dare del traditore e del venduto (venduto al commercio: secondo i fans di Woody Guthrie, Dylan aveva scelto la via più facile e redditizia – e probabilmente è vero). La ricostruzione degli eventi degli anni ’60 è ottima e istruttiva, ma chissà quanti si ricordano di Johnson e delle Black Panthers. E, quando nella seconda metà del film si vede un grosso ragno peloso passare sullo schermo, posso dirvi che è un riferimento al libro scritto da Bob Dylan negli anni ’60 e che si intitola, per l’appunto, “Tarantola”.
Detto questo, il film si apre con dei paesaggi meravigliosi, di quelli che aprono l’anima: paesaggi di campagna, con gialli e verdi molto caldi (il giallo dell’estate piena, ormai verso l’autunno, ma ancora con tanto verde intorno), i treni sono una meraviglia, e il sapore di vecchio West emerge finalmente nella seconda metà del film, con l’apparizione di Richard Gere.
Richard Gere è un altro dei motivi per i quali questo film è da non perdere. Come Kate Blanchett, Gere è semplicemente meraviglioso. Con gli anni, invecchiando, sta diventando sempre più bravo; e non era così scontato. Il tono western, quello del ricordo, è giustificato da “Pat Garrett and Billy the Kid”, il film di Sam Peckinpah che ebbe Dylan fra i suoi interpreti (in un ruolo minore), e per il quale Dylan scrisse una colonna sonora molto bella, compresa la famosa “Knockin’ on heaven’s door”.
A me personalmente, passato lo sconcerto iniziale, è piaciuta molto l’idea di far interpretare Dylan da attori diversi, e con nomi diversi, a seconda del passare del tempo. Non è solo Dylan che avrebbe bisogno di un simile trattamento, anche noi siamo diversi da come eravamo a tredici, a ventidue, o a trent’anni; e questo è forse quello che ci vuol dire Todd Haynes. E, per finire, consiglio a tutti la colonna sonora: le canzoni sono scelte molto bene, e non sono tutte interpretate da Dylan – il che per me è un vantaggio, perché non ho mai amato la sua voce. (Vi raccomando l’ultima sui titoli di coda, appunto “Knockin’ on heaven’s door”, interpretata finalmente da un cantante degno di questo nome).
Detto questo, il film si apre con dei paesaggi meravigliosi, di quelli che aprono l’anima: paesaggi di campagna, con gialli e verdi molto caldi (il giallo dell’estate piena, ormai verso l’autunno, ma ancora con tanto verde intorno), i treni sono una meraviglia, e il sapore di vecchio West emerge finalmente nella seconda metà del film, con l’apparizione di Richard Gere.
Richard Gere è un altro dei motivi per i quali questo film è da non perdere. Come Kate Blanchett, Gere è semplicemente meraviglioso. Con gli anni, invecchiando, sta diventando sempre più bravo; e non era così scontato. Il tono western, quello del ricordo, è giustificato da “Pat Garrett and Billy the Kid”, il film di Sam Peckinpah che ebbe Dylan fra i suoi interpreti (in un ruolo minore), e per il quale Dylan scrisse una colonna sonora molto bella, compresa la famosa “Knockin’ on heaven’s door”.
A me personalmente, passato lo sconcerto iniziale, è piaciuta molto l’idea di far interpretare Dylan da attori diversi, e con nomi diversi, a seconda del passare del tempo. Non è solo Dylan che avrebbe bisogno di un simile trattamento, anche noi siamo diversi da come eravamo a tredici, a ventidue, o a trent’anni; e questo è forse quello che ci vuol dire Todd Haynes. E, per finire, consiglio a tutti la colonna sonora: le canzoni sono scelte molto bene, e non sono tutte interpretate da Dylan – il che per me è un vantaggio, perché non ho mai amato la sua voce. (Vi raccomando l’ultima sui titoli di coda, appunto “Knockin’ on heaven’s door”, interpretata finalmente da un cantante degno di questo nome).
mercoledì 26 settembre 2007
Un'anima divisa in due
Un’anima divisa in due, di Silvio Soldini (1993) Sceneggiatura di Silvio Soldini, Roberto Tiraboschi Con Fabrizio Bentivoglio, Maria Bakò, Philippine Leroy-Beaulieu, Jessica Forde, Felice Andreasi, Silvia Mocci, Edoardo Moussanet, Patrizia Punzo, Renato Scarpa, Luigi Sponzilli, Moni Ovadia Musica: Giovanni Venosta Fotografia: Luca Bigazzi (124 minuti) Rating IMDb: 7.1
Giuliano
Mi si è rotto il disco fisso del pc: capita, mi direte. Sono d’accordo, e poi non ho perso quasi niente perché sono stato bravo e ho fatto tanti backup; però il mio hard disk non si è rotto in un giorno qualsiasi, ma esattamente tre anni dopo l’acquisto, cioè alla scadenza esatta della garanzia. Tre anni e una settimana, per la precisione. Una coincidenza? Può darsi, ne succedono tante: ma chissà perché mi è tornato subito in mente un film di Silvio Soldini, “Un’anima divisa in due”. E’ un bel film, su un soggetto molto scabroso (perciò non aspettatevi di rivederlo sulle reti Rai e Mediaset): un uomo, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, si innamora di una giovane zingara che ha sorpreso a rubare in un supermercato. Se ne innamora, e lei lo lascia fare: va a vivere con lei, prova la vita del nomade. L'incontro fra le due culture è spiazzante: l’uomo è scandalizzato quando la ragazza gli spiega, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, che rubare è un’azione lecita. Anzi, non è nemmeno rubare: è che “gagio scemo ha lasciato qui la sua roba e io l’ho raccolta”. Gagio, per uno zingaro, siamo noi: noi “persone normali”, insomma. Per uno zingaro, chi non è zingaro è gagio. Il gagio scemo, che non prende le necessarie precauzioni, se abbandona qualcosa o si dimentica di proteggerla significa che non ne aveva più bisogno, e dunque la si può prendere. Bentivoglio, nel film, interpreta una guardia giurata: quindi è più che sconvolto da questo ragionamento, ma la ragazza non capisce perché se la prenda tanto. Per lei è assolutamente normale, che cosa vuole da lei quest’uomo?
La reazione di Bentivoglio è la nostra reazione naturale, di noi che siamo cresciuti in una società civile dove l’onestà è un valore; e può far sorridere vedere questa situazione in un film. Almeno, così ragionavo nel 1993 quando uscì il film: oggi non sono più tanto sicuro di quel che succede, e mi sembra che questo ragionamento “da zingaro” abbia preso piede. Mi perdonino per la metafora gli zingari onesti, ma trovo che oggi “gagio scemo” siamo noi tutti, e che gli zingari abbiano preso il potere. Noi siamo tutti “gagi scemi”, cioè vacche da mungere, per le compagnie telefoniche, elettriche, assicurative, bancarie, eccetera, in questo mondo sempre più liberista, consumista e privatizzato dove c’è sempre una polizza da pagare, un abbonamento che scade, una gabella, una multa, un’offerta miracolosa con uno sconto allegato che saremmo stupidi a lasciar perdere, e dove non si può star tranquilli perché c’è sempre qualcuno che vuole mirare al tuo portafogli, e dove se non spendi non servi a nulla.
In più, ci tocca anche vedere lo spettacolo dei politici locali che sponsorizzano le violenze contro i campi nomadi, e che presenziano feroci e contenti al loro smantellamento, anche se si tratta di campi controllati dalla Caritas (cioè dalla chiesa cattolica, dal Vescovo e dal Papa). Nessuno spiega che, quand’anche si sia d’accordo, smantellare un campo nomadi significa solo spostare il problema di qualche chilometro. Ne traggono sollievo i vicini, ma i nomadi andranno altrove e altri contrasti nasceranno. Ma, se io sono assessore a Milano e gli zingari vanno in un altro Comune, eccomi sollevato dal problema: io prenderò tanti voti alle prossime elezioni, ci ho fatto un figurone, adesso se la sbrighi qualcun altro, magari l’assessore del Comune che confina col mio... Un saluto a Silvio Soldini: questo film è davvero bello, si meriterebbe di essere più famoso di quello che è, famoso almeno come “Pane e tulipani”.
Giuliano
Mi si è rotto il disco fisso del pc: capita, mi direte. Sono d’accordo, e poi non ho perso quasi niente perché sono stato bravo e ho fatto tanti backup; però il mio hard disk non si è rotto in un giorno qualsiasi, ma esattamente tre anni dopo l’acquisto, cioè alla scadenza esatta della garanzia. Tre anni e una settimana, per la precisione. Una coincidenza? Può darsi, ne succedono tante: ma chissà perché mi è tornato subito in mente un film di Silvio Soldini, “Un’anima divisa in due”. E’ un bel film, su un soggetto molto scabroso (perciò non aspettatevi di rivederlo sulle reti Rai e Mediaset): un uomo, interpretato da Fabrizio Bentivoglio, si innamora di una giovane zingara che ha sorpreso a rubare in un supermercato. Se ne innamora, e lei lo lascia fare: va a vivere con lei, prova la vita del nomade. L'incontro fra le due culture è spiazzante: l’uomo è scandalizzato quando la ragazza gli spiega, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, che rubare è un’azione lecita. Anzi, non è nemmeno rubare: è che “gagio scemo ha lasciato qui la sua roba e io l’ho raccolta”. Gagio, per uno zingaro, siamo noi: noi “persone normali”, insomma. Per uno zingaro, chi non è zingaro è gagio. Il gagio scemo, che non prende le necessarie precauzioni, se abbandona qualcosa o si dimentica di proteggerla significa che non ne aveva più bisogno, e dunque la si può prendere. Bentivoglio, nel film, interpreta una guardia giurata: quindi è più che sconvolto da questo ragionamento, ma la ragazza non capisce perché se la prenda tanto. Per lei è assolutamente normale, che cosa vuole da lei quest’uomo?
La reazione di Bentivoglio è la nostra reazione naturale, di noi che siamo cresciuti in una società civile dove l’onestà è un valore; e può far sorridere vedere questa situazione in un film. Almeno, così ragionavo nel 1993 quando uscì il film: oggi non sono più tanto sicuro di quel che succede, e mi sembra che questo ragionamento “da zingaro” abbia preso piede. Mi perdonino per la metafora gli zingari onesti, ma trovo che oggi “gagio scemo” siamo noi tutti, e che gli zingari abbiano preso il potere. Noi siamo tutti “gagi scemi”, cioè vacche da mungere, per le compagnie telefoniche, elettriche, assicurative, bancarie, eccetera, in questo mondo sempre più liberista, consumista e privatizzato dove c’è sempre una polizza da pagare, un abbonamento che scade, una gabella, una multa, un’offerta miracolosa con uno sconto allegato che saremmo stupidi a lasciar perdere, e dove non si può star tranquilli perché c’è sempre qualcuno che vuole mirare al tuo portafogli, e dove se non spendi non servi a nulla.
In più, ci tocca anche vedere lo spettacolo dei politici locali che sponsorizzano le violenze contro i campi nomadi, e che presenziano feroci e contenti al loro smantellamento, anche se si tratta di campi controllati dalla Caritas (cioè dalla chiesa cattolica, dal Vescovo e dal Papa). Nessuno spiega che, quand’anche si sia d’accordo, smantellare un campo nomadi significa solo spostare il problema di qualche chilometro. Ne traggono sollievo i vicini, ma i nomadi andranno altrove e altri contrasti nasceranno. Ma, se io sono assessore a Milano e gli zingari vanno in un altro Comune, eccomi sollevato dal problema: io prenderò tanti voti alle prossime elezioni, ci ho fatto un figurone, adesso se la sbrighi qualcun altro, magari l’assessore del Comune che confina col mio... Un saluto a Silvio Soldini: questo film è davvero bello, si meriterebbe di essere più famoso di quello che è, famoso almeno come “Pane e tulipani”.
I diabolici
Les Diaboliques, di Henry-Georges Clouzot (1955) Dal romanzo "Celle qui n'était plus" di Pierre Boileau e Thomas Narcejac, Sceneggiatura di Jérome Géronimi, Henry-Georges Clouzot, Frédéric Grendel, René Masson Con Simone Signoret, Véra Clouzot, Paul Meurisse, Charles Vanel, Jean Brochard, Pierre Larquey, Michel Serrault, Thérèse Dorny, Noel Roquevert Musica: Georges Van Parys Fotografia: Armand Thirard (114 minuti) Rating IMDb: 8.3
Solimano
I categoristi asseriscono che questo film è uno dei più tipici noir. Io, che categorista non sono, per una volta sono d'accordo: per nero è nero. Nero è l'inizio, in cui piove a nuvole basse, quelle giornate che sembrano tutte un crepuscolo. Si vedono le gocce fitte sulle pozzanghere, si vede anche uno stagno, peggio, una marcita con erbe guaste (si scoprirà poi che è una piscina a manutenzione carente). Nero è anche l'ambiente all'interno dell'edificio: si tratta di una scuola privata piuttosto maltenuta, come corridoi, aule, dormitorio e refettorio. Nere le persone, persino i ragazzi che frequentano la scuola sono più succubi che ribelli, poi c'è il corpo insegnante, dominato dal direttore, Michel Delassalle (Paule Meurisse), un uomo violento di pensieri, di parole e di mani, che schiaccia la moglie Christina (Véra Clouzot) che è la proprietaria della scuola (Delassalle l'ha sposata per i soldi). Poi c'è la professoressa Nicole Horner (Simone Signoret), che è al tempo stesso l'amante picchiata di Delassalle e l'amica e confidente di Christina. Squallidi gli altri che siedono con loro al tavolo nel refettorio, il professor Drain (Pierre Larquey) che sa di latino, ma non di umanità, e il sorvegliante Raymond (Michel Serrault), appiattito su qualsiasi decisione che prenda Delassalle.
C'è un pranzo, che è una delle scene più crudeli mai viste al cinema: servono del pesce marcio (Delassalle taglia le spese da ogni parte), Christina, che è debole di carattere e sofferente di cuore, non vorrebbe mangiarne, Delassalle la costringe ad inghiottire boccone dopo boccone. Christina e Nicole, pur tra mille esitazioni (Christina è religiosa) decidono che è ora di finirla, col loro persecutore Delassalle. Si fanno un piano per cui andranno a Niort, nella casa di Nicole, durante un fine settimana. Lì le raggiungerà Delassalle fuori di sé, perché le due donne sono partite di nascosto, lì loro gli faranno bere del vino drogato e lo immergeranno in una vasca da bagno. Una volta esanime, lo caricheranno nell'auto e tornaranno alla scuola, per buttare il corpo nascostamente nella piscina.
Il piano riesce, e lì finisce la prima parte del film. La seconda parte non la racconto, per rispetto a chi il film non l'ha visto, ed è una parte in cui il pubblico faceva di tutto: abbassava lo sguardo, si metteva le mani sugli occhi, abbrancava i braccioli delle sedie. Quando il film uscì, non si poteva entrare durante la proiezione, ma solo prima, con caldi inviti al pubblico uscente di non svelare il finale al pubblico entrante. Sono passati più di cinquant'anni, e di finestre che si socchiudono, di mani sui pomelli delle porte, di corridoi in penombra, di colpi di scena ne abbiamo visti tanti, e quasi tutti hanno imparato da "I diabolici", quindi, a parte che si sa come va a finire, questi strumenti per creare tensione li conosciamo prima che vengano usati. Ma ancora oggi il colpo di scena del ticchettìo sulla macchina per scrivere, e Christina che va a vedere chi c'è: non c'è nessuno, ma si trova di fronte alla macchina che ha un foglio inserito in cui è stato appena scritto diverse volte "Michel Delassalle", e sui tasti della macchina trova i guanti di Delassalle, questa è ancora oggi una scena da cuore in gola.
Ma perché rivederlo oggi, questo film, al di là del meccanismo oliatissimo ma che sa un po' di déja vu? Perché è un grande film, con una visione nerissima delle persone: uomini, donne, ragazzi, delle cose: strade, case, stanze, persino della natura. Il film è praticamente privo di musica, c'è solo alla fine dei titoli di testa e prima dei titoli di coda, un caso raro od unico. Fra le persone, si salva il commissario in pensione Alfred Fichet (Charles Vanel) che arriva a capire il perché e il percome, ma ormai a cose fatte.
C'è chi dice che, siccome questo è un film che non utilizza i mezzucci del paranormale, uno spettatore accorto avrebbe potuto individuare l'unica soluzione possibile. Una cosa giusta, ma il film non va più visto come noir, ma come esemplare rappresentazione di come i rapporti fra persone possano essere crudeli, di una crudeltà in cui lo schiaffo in faccia è la cosa minore. Una immersione in un inferno dei sentimenti che è il caso di fare, perché l'inferno dei sentimenti esiste, e qualche volta bisogna farci i conti.
Solimano
I categoristi asseriscono che questo film è uno dei più tipici noir. Io, che categorista non sono, per una volta sono d'accordo: per nero è nero. Nero è l'inizio, in cui piove a nuvole basse, quelle giornate che sembrano tutte un crepuscolo. Si vedono le gocce fitte sulle pozzanghere, si vede anche uno stagno, peggio, una marcita con erbe guaste (si scoprirà poi che è una piscina a manutenzione carente). Nero è anche l'ambiente all'interno dell'edificio: si tratta di una scuola privata piuttosto maltenuta, come corridoi, aule, dormitorio e refettorio. Nere le persone, persino i ragazzi che frequentano la scuola sono più succubi che ribelli, poi c'è il corpo insegnante, dominato dal direttore, Michel Delassalle (Paule Meurisse), un uomo violento di pensieri, di parole e di mani, che schiaccia la moglie Christina (Véra Clouzot) che è la proprietaria della scuola (Delassalle l'ha sposata per i soldi). Poi c'è la professoressa Nicole Horner (Simone Signoret), che è al tempo stesso l'amante picchiata di Delassalle e l'amica e confidente di Christina. Squallidi gli altri che siedono con loro al tavolo nel refettorio, il professor Drain (Pierre Larquey) che sa di latino, ma non di umanità, e il sorvegliante Raymond (Michel Serrault), appiattito su qualsiasi decisione che prenda Delassalle.
C'è un pranzo, che è una delle scene più crudeli mai viste al cinema: servono del pesce marcio (Delassalle taglia le spese da ogni parte), Christina, che è debole di carattere e sofferente di cuore, non vorrebbe mangiarne, Delassalle la costringe ad inghiottire boccone dopo boccone. Christina e Nicole, pur tra mille esitazioni (Christina è religiosa) decidono che è ora di finirla, col loro persecutore Delassalle. Si fanno un piano per cui andranno a Niort, nella casa di Nicole, durante un fine settimana. Lì le raggiungerà Delassalle fuori di sé, perché le due donne sono partite di nascosto, lì loro gli faranno bere del vino drogato e lo immergeranno in una vasca da bagno. Una volta esanime, lo caricheranno nell'auto e tornaranno alla scuola, per buttare il corpo nascostamente nella piscina.
Il piano riesce, e lì finisce la prima parte del film. La seconda parte non la racconto, per rispetto a chi il film non l'ha visto, ed è una parte in cui il pubblico faceva di tutto: abbassava lo sguardo, si metteva le mani sugli occhi, abbrancava i braccioli delle sedie. Quando il film uscì, non si poteva entrare durante la proiezione, ma solo prima, con caldi inviti al pubblico uscente di non svelare il finale al pubblico entrante. Sono passati più di cinquant'anni, e di finestre che si socchiudono, di mani sui pomelli delle porte, di corridoi in penombra, di colpi di scena ne abbiamo visti tanti, e quasi tutti hanno imparato da "I diabolici", quindi, a parte che si sa come va a finire, questi strumenti per creare tensione li conosciamo prima che vengano usati. Ma ancora oggi il colpo di scena del ticchettìo sulla macchina per scrivere, e Christina che va a vedere chi c'è: non c'è nessuno, ma si trova di fronte alla macchina che ha un foglio inserito in cui è stato appena scritto diverse volte "Michel Delassalle", e sui tasti della macchina trova i guanti di Delassalle, questa è ancora oggi una scena da cuore in gola.
Ma perché rivederlo oggi, questo film, al di là del meccanismo oliatissimo ma che sa un po' di déja vu? Perché è un grande film, con una visione nerissima delle persone: uomini, donne, ragazzi, delle cose: strade, case, stanze, persino della natura. Il film è praticamente privo di musica, c'è solo alla fine dei titoli di testa e prima dei titoli di coda, un caso raro od unico. Fra le persone, si salva il commissario in pensione Alfred Fichet (Charles Vanel) che arriva a capire il perché e il percome, ma ormai a cose fatte.
C'è chi dice che, siccome questo è un film che non utilizza i mezzucci del paranormale, uno spettatore accorto avrebbe potuto individuare l'unica soluzione possibile. Una cosa giusta, ma il film non va più visto come noir, ma come esemplare rappresentazione di come i rapporti fra persone possano essere crudeli, di una crudeltà in cui lo schiaffo in faccia è la cosa minore. Una immersione in un inferno dei sentimenti che è il caso di fare, perché l'inferno dei sentimenti esiste, e qualche volta bisogna farci i conti.
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Solimano
martedì 25 settembre 2007
Ricordati di me
Ricordati di me, di Gabriele Muccino (2003) Sceneggiatura di Heidrun Schleef, Gabriele Muccino Con Fabrizio Bentivoglio, Laura Morante, Nicoletta Romanoff, Monica Bellucci, Silvio Muccino, Gabriele Lavia, Enrico Silvestrin, Amanda Sandrelli, Pietro Taricone, Andrea Roncato Musica: Paolo Buonvino, Canzoni cantate da Elisa, Françoise Hardy, Geri Halliwell Fotografia: Marcello Montarsi (125 minuti) Rating IMDb: 6.6
Solimano
Mi sono messo comodo davanti alla TV ed ho fatto partire il videoregistratore, ma dopo dieci minuti ho deciso di tornare al menù e di guardarmi "Ricordati di me" con i sottotitoli, naturalmente in italiano come il parlato. Parlavano così velocemente, specie al telefonino, che spesso non riuscivo a capire quello che dicevano. Non avrei perso molto, il gesticolare dei corpi e l'espressione dei visi la sostanza la dice, ma credo di non avere fatto male: ho capito meglio quello che c'era da capire. Questo correre delle frasi e delle parole non è dovuto ad incuria, men che meno ad ingenuità (in Muccino poi...), in fondo è simile a quello che facevano certi appassionati di motocicletta: una bella sgassata al motore cosi' non si poteva fare a meno di accorgersi della loro esistenza.
Questo è il principe dei problemi per i quattro Ristuccia, Carlo (Fabrizio Bentivoglio) il padre, Giulia (Laura Morante) la madre, Valentina (Nicoletta Romanoff) la figlia, Paolo (Silvio Muccino) il figlio: per sentirsi a posto occorre che qualcuno glielo confermi, non bastano a se stessi. Il tema è vero perché una situazione del genere è la norma, non l'eccezione: l'ansia di riconoscimento domina nella vita sociale, compresa la rete. Ed è inutile spiegare che l'autostima è la prima cosa, che l'opinione altrui è solo l'opinione di un altro: per saltarci fuori (quasi) occorre che sbattano il grugno di brutto, cosa che prima o poi succederà. Così Carlo lavora in una finanziaria, ma scrive un libro in cui è fermo da anni all'ultimo capitolo, Giulia insegna, ma più che a spiegare Dante aspira a fare l'attrice teatrale, come voleva una volta, e mentre Paolo ha il problema di piacere ad una ragazza, Valentina mira alto: fare la velina in TV.
Solimano
Mi sono messo comodo davanti alla TV ed ho fatto partire il videoregistratore, ma dopo dieci minuti ho deciso di tornare al menù e di guardarmi "Ricordati di me" con i sottotitoli, naturalmente in italiano come il parlato. Parlavano così velocemente, specie al telefonino, che spesso non riuscivo a capire quello che dicevano. Non avrei perso molto, il gesticolare dei corpi e l'espressione dei visi la sostanza la dice, ma credo di non avere fatto male: ho capito meglio quello che c'era da capire. Questo correre delle frasi e delle parole non è dovuto ad incuria, men che meno ad ingenuità (in Muccino poi...), in fondo è simile a quello che facevano certi appassionati di motocicletta: una bella sgassata al motore cosi' non si poteva fare a meno di accorgersi della loro esistenza.
Questo è il principe dei problemi per i quattro Ristuccia, Carlo (Fabrizio Bentivoglio) il padre, Giulia (Laura Morante) la madre, Valentina (Nicoletta Romanoff) la figlia, Paolo (Silvio Muccino) il figlio: per sentirsi a posto occorre che qualcuno glielo confermi, non bastano a se stessi. Il tema è vero perché una situazione del genere è la norma, non l'eccezione: l'ansia di riconoscimento domina nella vita sociale, compresa la rete. Ed è inutile spiegare che l'autostima è la prima cosa, che l'opinione altrui è solo l'opinione di un altro: per saltarci fuori (quasi) occorre che sbattano il grugno di brutto, cosa che prima o poi succederà. Così Carlo lavora in una finanziaria, ma scrive un libro in cui è fermo da anni all'ultimo capitolo, Giulia insegna, ma più che a spiegare Dante aspira a fare l'attrice teatrale, come voleva una volta, e mentre Paolo ha il problema di piacere ad una ragazza, Valentina mira alto: fare la velina in TV.
Qui inserisco il primo paradosso: il film apparentemente è contro la TV commerciale ed i suoi meccanismi di selezione, ma è prodotto dalla Medusa; non solo, quando uscì il film, Muccino per quindici giorni andò in TV da un programma all'altro per pubblicizzarlo. D'accordo, così fan tutti, ma lui si infilò in tutti i buchi, purché fossero sopra una livello certo di audience.
Ecco un altro paradosso, che potrebbe essere involontario: il titolo. Dire ricordati di me è come dire devi amarmi o non essere timido, è una ingiunzione paradossale più ultimativa dei nontiscordardime che crescono nei prati. Non si può chiedere ciò che per sua natura è spontaneo.
C'è anche un terzo paradosso: Muccino fa come De Sica, che prendeva gli attori dalla strada. Il gruppone dello studio televisivo e delle selezioni è costituito da aspiranti veline che fanno appunto le aspiranti veline, e Taricone fa Taricone come ciliegione sulla torta.
Muccino lavora per obiettivi, e ne ha due: il pubblico dei quarantenni e il pubblico dei ventenni. Mostra come sono e fa capire che non c'è alternativa, non possono essere che così. L'assenza di personaggi in qualche modo positivi, a parte forse Alessia (Monica Bellucci), ne è la conferma palese. Ma Alessia, un amore di ritorno di Carlo, è in qualche modo un personaggio collaterale. Non è che io spasimi per la presenza dei personaggi positivi, però ogni tanto, nella vita reale, capita di incontrarne qualcuno, in questo film no.
Quello che vorrei capire è come il pubblico dei ventenni vede il personaggio di Valentina, che è chiarissimo: pur di arrivare, pratica non sensualità, neppure sessualità, ma ginnastica erotica nei letti che le sono utili. Non solo nei letti, ma dove capita, à la guerre comme à la guerre. Credo che l'apprezzino più di quell'insicuro di suo fratello Paolo: Valentina lavora per obiettivi, proprio come il regista e il suo obiettivo lo ottiene. Difatti, verso la fine del film, si vede tutta la famiglia radiosamente di fronte alla TV per vedere l'esordio di Valentina in Alì Baba. Sanno benissimo come ha fatto Valentina per arrivarci, ma gli va bene lo stesso.
Il rapporto fra Carlo ed Alessia nel finale rimane volutamente aperto: dapprima Carlo, un po' vigliacchetto, cerca di non farsi vedere al supermercato, poi, nella sera di Natale trova modo di telefonarle per rivedersi, ma la telefonata è breve, c'è da brindare e da fare delle foto insieme, è arrivata anche Valentina con un bel regalo.
"Il mondo è quello che è", diceva Moravia. Muccino ha citato Hegel: " La verità si trova sulla superficie". Ma il cinico vero - che serve - è uno che scava, non sta in superficie, come vanta Muccino. Hanno parlato di nuova commedia all'italiana, secondo me si ride poco e si pensa ancor meno. Muccino lo spazio ce l'ha e ce l'avrà, è pure bravo, nel suo genere: mostrare bene una agitazione che ha il solo scopo di essere agitata. Amo ogni tanto inserire delle citazioni, qui ne inserisco una brevissima in chiusura, un dialoghetto fra Valentina e il fratello Paolo:
Paolo:Valentina, dimmi la verità, che pensi di me? Come sono visto da fuori?
Valentina: Lo sai cosa penso di te.
Paolo: Dimmelo ancora.
Valentina: Penso che sei anonimo e inespressivo, quando parli sembra che c'hai uno strofinaccio in bocca e non si capisce un cazzo, non ti lavi e ti vesti da sfigato di sinistra quando il mondo va tutto da un'altra parte. Questo penso.
Paolo: Nient'altro?
Valentina: No, a posto così.
Ecco un altro paradosso, che potrebbe essere involontario: il titolo. Dire ricordati di me è come dire devi amarmi o non essere timido, è una ingiunzione paradossale più ultimativa dei nontiscordardime che crescono nei prati. Non si può chiedere ciò che per sua natura è spontaneo.
C'è anche un terzo paradosso: Muccino fa come De Sica, che prendeva gli attori dalla strada. Il gruppone dello studio televisivo e delle selezioni è costituito da aspiranti veline che fanno appunto le aspiranti veline, e Taricone fa Taricone come ciliegione sulla torta.
Muccino lavora per obiettivi, e ne ha due: il pubblico dei quarantenni e il pubblico dei ventenni. Mostra come sono e fa capire che non c'è alternativa, non possono essere che così. L'assenza di personaggi in qualche modo positivi, a parte forse Alessia (Monica Bellucci), ne è la conferma palese. Ma Alessia, un amore di ritorno di Carlo, è in qualche modo un personaggio collaterale. Non è che io spasimi per la presenza dei personaggi positivi, però ogni tanto, nella vita reale, capita di incontrarne qualcuno, in questo film no.
Quello che vorrei capire è come il pubblico dei ventenni vede il personaggio di Valentina, che è chiarissimo: pur di arrivare, pratica non sensualità, neppure sessualità, ma ginnastica erotica nei letti che le sono utili. Non solo nei letti, ma dove capita, à la guerre comme à la guerre. Credo che l'apprezzino più di quell'insicuro di suo fratello Paolo: Valentina lavora per obiettivi, proprio come il regista e il suo obiettivo lo ottiene. Difatti, verso la fine del film, si vede tutta la famiglia radiosamente di fronte alla TV per vedere l'esordio di Valentina in Alì Baba. Sanno benissimo come ha fatto Valentina per arrivarci, ma gli va bene lo stesso.
Il rapporto fra Carlo ed Alessia nel finale rimane volutamente aperto: dapprima Carlo, un po' vigliacchetto, cerca di non farsi vedere al supermercato, poi, nella sera di Natale trova modo di telefonarle per rivedersi, ma la telefonata è breve, c'è da brindare e da fare delle foto insieme, è arrivata anche Valentina con un bel regalo.
"Il mondo è quello che è", diceva Moravia. Muccino ha citato Hegel: " La verità si trova sulla superficie". Ma il cinico vero - che serve - è uno che scava, non sta in superficie, come vanta Muccino. Hanno parlato di nuova commedia all'italiana, secondo me si ride poco e si pensa ancor meno. Muccino lo spazio ce l'ha e ce l'avrà, è pure bravo, nel suo genere: mostrare bene una agitazione che ha il solo scopo di essere agitata. Amo ogni tanto inserire delle citazioni, qui ne inserisco una brevissima in chiusura, un dialoghetto fra Valentina e il fratello Paolo:
Paolo:Valentina, dimmi la verità, che pensi di me? Come sono visto da fuori?
Valentina: Lo sai cosa penso di te.
Paolo: Dimmelo ancora.
Valentina: Penso che sei anonimo e inespressivo, quando parli sembra che c'hai uno strofinaccio in bocca e non si capisce un cazzo, non ti lavi e ti vesti da sfigato di sinistra quando il mondo va tutto da un'altra parte. Questo penso.
Paolo: Nient'altro?
Valentina: No, a posto così.
Il mondo
Shijie, di Jia Zhang-ke (2004) Con Thao Zhao, Taiseng Chen, Jue Jing, Zhong-wei Jiang, Yi-qun Wang, Hong Wei Wang, Jing Dong Liang Musica: Giong Lim Fotografia: Nelson Yu Lik-wai (140 minuti) Rating IMDb: 7.1
Giuliano
Il “mondo” è un parco tematico, una specie di Swiss Miniatur a Pekino, dove ci sono tutti i monumenti del mondo, dalla Tour Eiffel alla Torre di Pisa. Il regista, cinese-cinese (è di Pekino), classe 1970, ci racconta la vita di chi ci lavora, ragazzi e ragazze molto giovani e le loro famiglie.
Jia Zhang-ke non nasconde niente: sa essere positivo e felice, ma la fotografia che fa al mondo del lavoro è disperata e angosciante. Racconta di amori e di speranze, ma anche di incidenti mortali sul lavoro, e lo fa con una lucidità che nel nostro cinema si è persa da tempo. Per i film di Jia si è parlato di una specie di neorealismo cinese. C’è molto di vero, ma è diverso l’approccio, diversissimo: Rossellini e De Sica non erano così duri e così spietati. Diversissimo è anche l’approccio visivo di Jia Zhang-ke: quasi tutti campi lunghi e lunghissimi, primi piani quasi inesistenti, il che comporta difficoltà serie non solo nel guardare il film, ma anche nel riconoscere i protagonisti e distinguerli l’uno dall’altro; e forse è proprio questo che cerca di dirci l’autore. Un destino collettivo, noi che ci illudiamo di avere una vita, un destino nostro personale, e invece siamo come pesci in un acquario? Può darsi, ma non mi azzardo a continuare nella mia analisi perché due difficoltà insormontabili mi si pongono davanti: non ho diciott’anni e non sono cinese. Alla seconda posso cercare di supplire in qualche modo, alla prima no; e quindi cedo volentieri la parola a qualcun altro che possa commentare questo film meglio di me. Per parte mia, mi limito a sottolineare l’enorme talento di Jia Zhang-ke.
Però di Jia ho visto anche un’intervista in tv, trasmessa ovviamente alle tre di notte (è così che si fa cultura, in Italia). L’intervista è del 2004, da Venezia, ed è realizzata con l’aiuto di un’interprete italiana della quale ci si potrebbe anche innamorare. Jia sembra un ragazzo anche lui, è di bell’aspetto, molto fine, piccolo di statura e minuto, quasi un bambino; e invece ha già 34 anni. Parla in cinese, sottovoce, e l’interprete traduce velocemente. L’intervista è anche disturbata da una lampada mal messa, molto fastidiosa; ma quello che dice Jia mi convince ad ascoltare e a prendere nota.
Jia dice, per l’appunto, che i film con cui è cresciuto non parlavano mai della vita reale; e la vita reale è questa, le fanciulline coi telefonini e le morti sul lavoro, anche in Cina 2004. Dice cose molto belle, che ne dimostrano la preparazione e la personalità. dice che alla scuola di cinema erano tutti figli di registi, e che per questo lui l’ha abbandonata presto e crede così tanto nel cinema indipendente. Dice di aver girato i suoi film in maniera “illegale”, clandestini o quasi; che sono stati girati in dvd e poi riversati su 35mm; che gli fa piacere che i suoi film, mai distribuiti ufficialmente, circolino con ogni mezzo, comprese le copie pirata. Dice anche, ed è importante, che oggi il digitale costringe a rivedere l’estetica del cinema, a ripensare tutto, dalle luci alla recitazione, e che è un passaggio come quello dal muto al sonoro, o dal bianco e nero al colore.
Ripensandoci, Frank Capra non aveva fatto studi di cinema, e nemmeno Orson Welles, o Fellini, o Rossellini, Billy Wilder, Blake Edwards... Erano tutti venuti su da soli, le scuole di cinema le hanno inventate dopo. Forse è per questo che i film occidentali recenti sembrano tutti uguali, e che per trovare cose nuove dobbiamo andare così lontano, in Corea o in Iran o giù giù fino a Pechino...
Giuliano
Il “mondo” è un parco tematico, una specie di Swiss Miniatur a Pekino, dove ci sono tutti i monumenti del mondo, dalla Tour Eiffel alla Torre di Pisa. Il regista, cinese-cinese (è di Pekino), classe 1970, ci racconta la vita di chi ci lavora, ragazzi e ragazze molto giovani e le loro famiglie.
Jia Zhang-ke non nasconde niente: sa essere positivo e felice, ma la fotografia che fa al mondo del lavoro è disperata e angosciante. Racconta di amori e di speranze, ma anche di incidenti mortali sul lavoro, e lo fa con una lucidità che nel nostro cinema si è persa da tempo. Per i film di Jia si è parlato di una specie di neorealismo cinese. C’è molto di vero, ma è diverso l’approccio, diversissimo: Rossellini e De Sica non erano così duri e così spietati. Diversissimo è anche l’approccio visivo di Jia Zhang-ke: quasi tutti campi lunghi e lunghissimi, primi piani quasi inesistenti, il che comporta difficoltà serie non solo nel guardare il film, ma anche nel riconoscere i protagonisti e distinguerli l’uno dall’altro; e forse è proprio questo che cerca di dirci l’autore. Un destino collettivo, noi che ci illudiamo di avere una vita, un destino nostro personale, e invece siamo come pesci in un acquario? Può darsi, ma non mi azzardo a continuare nella mia analisi perché due difficoltà insormontabili mi si pongono davanti: non ho diciott’anni e non sono cinese. Alla seconda posso cercare di supplire in qualche modo, alla prima no; e quindi cedo volentieri la parola a qualcun altro che possa commentare questo film meglio di me. Per parte mia, mi limito a sottolineare l’enorme talento di Jia Zhang-ke.
Però di Jia ho visto anche un’intervista in tv, trasmessa ovviamente alle tre di notte (è così che si fa cultura, in Italia). L’intervista è del 2004, da Venezia, ed è realizzata con l’aiuto di un’interprete italiana della quale ci si potrebbe anche innamorare. Jia sembra un ragazzo anche lui, è di bell’aspetto, molto fine, piccolo di statura e minuto, quasi un bambino; e invece ha già 34 anni. Parla in cinese, sottovoce, e l’interprete traduce velocemente. L’intervista è anche disturbata da una lampada mal messa, molto fastidiosa; ma quello che dice Jia mi convince ad ascoltare e a prendere nota.
Jia dice, per l’appunto, che i film con cui è cresciuto non parlavano mai della vita reale; e la vita reale è questa, le fanciulline coi telefonini e le morti sul lavoro, anche in Cina 2004. Dice cose molto belle, che ne dimostrano la preparazione e la personalità. dice che alla scuola di cinema erano tutti figli di registi, e che per questo lui l’ha abbandonata presto e crede così tanto nel cinema indipendente. Dice di aver girato i suoi film in maniera “illegale”, clandestini o quasi; che sono stati girati in dvd e poi riversati su 35mm; che gli fa piacere che i suoi film, mai distribuiti ufficialmente, circolino con ogni mezzo, comprese le copie pirata. Dice anche, ed è importante, che oggi il digitale costringe a rivedere l’estetica del cinema, a ripensare tutto, dalle luci alla recitazione, e che è un passaggio come quello dal muto al sonoro, o dal bianco e nero al colore.
Ripensandoci, Frank Capra non aveva fatto studi di cinema, e nemmeno Orson Welles, o Fellini, o Rossellini, Billy Wilder, Blake Edwards... Erano tutti venuti su da soli, le scuole di cinema le hanno inventate dopo. Forse è per questo che i film occidentali recenti sembrano tutti uguali, e che per trovare cose nuove dobbiamo andare così lontano, in Corea o in Iran o giù giù fino a Pechino...
lunedì 24 settembre 2007
Cobra Verde
Cobra Verde, di Werner Herzog (1987) Racconto di Bruce Chatwin, Sceneggiatura di Werner Herzog Con Klaus Kinski, King Ampaw, José Lewgoy, Salvatore Basile, Guillermo Coronel, Nana Agyefi Kwame II, Benito Stefanelli, Nana Fedu Abodo Musica: Popol Vuh Fotografia: Victor Ruzicka (111 minuti) Rating IMDb: 7.0
Giuliano
Cobra Verde è un bandito terribile e crudele, in Brasile; al suo apparire tutti corrono a nascondersi, e basta il suo nome a seminare terrore. Un fazendero ricchissimo lo assume nella sua coltivazione, senza conoscerne l’identità, perché ne ha visto il valore; però Cobra Verde, alias Francisco Manuel, gli mette incinte tutte e tre le figlie, e quindi diventa un problema, anche perché ormai la sua vera identità è nota. Che fare? Di concerto con gli altri latifondisti, si decide di far finta che vada tutto bene, e di mandare l’uomo in Africa, dal re folle di Abomey, nel Benin, per far riprendere il commercio degli schiavi – con la speranza che muoia nell’impresa, e che non lo si veda mai più. Cobra Verde riuscirà invece nell’impresa, ma ormai non è più tempo di schiavi: tutti i principali governi (siamo a metà Ottocento) hanno messo al bando quest’attività, e chi la pratica viene ricercato come un criminale.
E’ il soggetto di un libro di Bruce Chatwin, “Il vicerè di Ouidah”, così come è stato adattato da Werner Herzog: « Ouidah, nel sud del Benin, fu tra il ‘600 e il ‘700 una delle capitali del commercio di schiavi. La piazza buia dove gli schiavi venivano stipati dopo essere stati marchiati a fuoco si chiama Zomaii, “là dove non penetra la luce”.» Sembra che la schiavitù passi ancora di qui, nell’anno 2007, soprattutto per i bambini e le bambine il cui commercio è ancora redditizio.
Il film è girato in Ghana e in Colombia, e anche se è sempre un film di Herzog, con moltissime sequenze memorabili, qualcosa comincia a scricchiolare. E’ il Tempo a giocare qualche scherzo a Herzog: Klaus Kinski ha sessant’anni, li porta molto bene ed è sempre di un’aderenza meravigliosa al personaggio, ma è ormai troppo vecchio per la parte, e soprattutto all’inizio è poco credibile come bandito che fa scappare tutti al solo sentirlo nominare. Ma il Tempo non è passato solo per Kinski: se nel 1972, con Aguirre, il fascino dell’esotico e dell’inesplorato era ancora fortissimo, e se nel 1981, con Fitzcarraldo, giocava molto il fascino del ricordo e della ricostruzione d’epoca, con Cobra Verde siamo ormai entrati in un’epoca in cui con l’esotico e il selvaggio non si può più giocare come un tempo. Non solo gli europei hanno preso a viaggiare e vedere il mondo come mai si era fatto prima, ma è il mondo (l’Africa e il Sud America, per l’appunto) che è venuto qui da noi a trovarci e a farsi conoscere. E quindi se “Cobra Verde” delude un po’, la colpa non è né di Herzog né di Kinski, sempre bravissimi, ma del mondo che è cambiato. Un po’ la stessa ragione per cui non si girano più western, e quei pochi che si girano hanno un sapore diverso.
Ma “Cobra Verde” merita di essere visto. E’ forse l’ultimo grande film “a soggetto” di Herzog, che da qui in poi si dedicherà quasi esclusivamente ai documentari e ai cortometraggi; ed è anche il suo ultimo film con Klaus Kinski. Kinski con la feluca napoleonica è imperdibile. L’espressione feroce del suo volto è sempre la stessa, e anche l’agilità fisica (la ferocia fisica, da animale feroce, con cui si muove) è immutata. E la scena finale, anche qui come in “Aguirre”, è dedicata a lui; ed è quasi altrettanto memorabile. Cobra Verde è solo su una spiaggia, con l’unica compagnia di un ragazzo poliomielitico che il bandito neppure degna di uno sguardo. C’è una barca, ma è troppo pesante da spostare. Ormai è finita, il tempo per l’avventura se ne è andato per sempre.
Giuliano
Cobra Verde è un bandito terribile e crudele, in Brasile; al suo apparire tutti corrono a nascondersi, e basta il suo nome a seminare terrore. Un fazendero ricchissimo lo assume nella sua coltivazione, senza conoscerne l’identità, perché ne ha visto il valore; però Cobra Verde, alias Francisco Manuel, gli mette incinte tutte e tre le figlie, e quindi diventa un problema, anche perché ormai la sua vera identità è nota. Che fare? Di concerto con gli altri latifondisti, si decide di far finta che vada tutto bene, e di mandare l’uomo in Africa, dal re folle di Abomey, nel Benin, per far riprendere il commercio degli schiavi – con la speranza che muoia nell’impresa, e che non lo si veda mai più. Cobra Verde riuscirà invece nell’impresa, ma ormai non è più tempo di schiavi: tutti i principali governi (siamo a metà Ottocento) hanno messo al bando quest’attività, e chi la pratica viene ricercato come un criminale.
E’ il soggetto di un libro di Bruce Chatwin, “Il vicerè di Ouidah”, così come è stato adattato da Werner Herzog: « Ouidah, nel sud del Benin, fu tra il ‘600 e il ‘700 una delle capitali del commercio di schiavi. La piazza buia dove gli schiavi venivano stipati dopo essere stati marchiati a fuoco si chiama Zomaii, “là dove non penetra la luce”.» Sembra che la schiavitù passi ancora di qui, nell’anno 2007, soprattutto per i bambini e le bambine il cui commercio è ancora redditizio.
Il film è girato in Ghana e in Colombia, e anche se è sempre un film di Herzog, con moltissime sequenze memorabili, qualcosa comincia a scricchiolare. E’ il Tempo a giocare qualche scherzo a Herzog: Klaus Kinski ha sessant’anni, li porta molto bene ed è sempre di un’aderenza meravigliosa al personaggio, ma è ormai troppo vecchio per la parte, e soprattutto all’inizio è poco credibile come bandito che fa scappare tutti al solo sentirlo nominare. Ma il Tempo non è passato solo per Kinski: se nel 1972, con Aguirre, il fascino dell’esotico e dell’inesplorato era ancora fortissimo, e se nel 1981, con Fitzcarraldo, giocava molto il fascino del ricordo e della ricostruzione d’epoca, con Cobra Verde siamo ormai entrati in un’epoca in cui con l’esotico e il selvaggio non si può più giocare come un tempo. Non solo gli europei hanno preso a viaggiare e vedere il mondo come mai si era fatto prima, ma è il mondo (l’Africa e il Sud America, per l’appunto) che è venuto qui da noi a trovarci e a farsi conoscere. E quindi se “Cobra Verde” delude un po’, la colpa non è né di Herzog né di Kinski, sempre bravissimi, ma del mondo che è cambiato. Un po’ la stessa ragione per cui non si girano più western, e quei pochi che si girano hanno un sapore diverso.
Ma “Cobra Verde” merita di essere visto. E’ forse l’ultimo grande film “a soggetto” di Herzog, che da qui in poi si dedicherà quasi esclusivamente ai documentari e ai cortometraggi; ed è anche il suo ultimo film con Klaus Kinski. Kinski con la feluca napoleonica è imperdibile. L’espressione feroce del suo volto è sempre la stessa, e anche l’agilità fisica (la ferocia fisica, da animale feroce, con cui si muove) è immutata. E la scena finale, anche qui come in “Aguirre”, è dedicata a lui; ed è quasi altrettanto memorabile. Cobra Verde è solo su una spiaggia, con l’unica compagnia di un ragazzo poliomielitico che il bandito neppure degna di uno sguardo. C’è una barca, ma è troppo pesante da spostare. Ormai è finita, il tempo per l’avventura se ne è andato per sempre.
Il piacere e l'amore
La Ronde, di Roger Vadim (1964) Commedia di Arthur Schnitzler, Sceneggiatura di Jean Anouilh Con Jane Fonda, Anna Karina, Catherine Spaak, Francine Bergé, Marie Dubois, Jean-Claude Brialy, Maurice Ronet, Bernard Noel, Jean Sorel, Claude Giraud, Denise Benoit, Valérie Lagrange, Françoise Dorléac Musica: Michel Magne Fotografia: Henri Decae (110 minuti) Rating IMDb: 5.3
Solimano
Mi trovo bene alla Biblioteca Civica di Lissone: è ben fornita, c'è molto spazio, mi lasciano esplorare gli scaffali, sono gentili, il libri me li lasciano per due mesi, in cinque minuti d'auto ci vado, e parcheggio quasi davanti. Due settimane fa, l'impiegata a cui riconsegnavo i libri ha notato che ce n'erano due sul cinema, e mi fa: "Lo sa che abbiamo aperto un punto di prestito dei DVD?" Detto, fatto: posso prendere tre DVD che debbo restituire nel giro di otto giorni, prendendone altri tre. Come fanno per i libri, anche lì si può procedere direttamente, maneggiandoli (sono uno tattile). Hanno il catalogo in rete, con altre dieci biblioteche, ma così è più comodo. Per il momento non ne hanno molti, ad occhio saranno trecento, ma in futuro farò come fa mio figlio per i libri: li convincerò a comprare certi DVD che mi interessano. Per ora c'è una buona scorta di film che vorrei vedere e che non ho mai visto.
Così mi è capitato fra le mani il DVD de La ronde (1964) di Roger Vadim. Veramente cercavo La ronde di Max Ophuls, ma non l'ho trovata, e poi Vadim mi incuriosiva, perché la squadra è ottima: Jane Fonda, Anna Karina, l'amatissima Catherine Spaak (mi passerà, prima o poi), più Francine Bergé, Marie Dubois e Valérie Legrange che non conoscevo, ed è stato un piacere. C'è persino Françoise Dorléac in una piccola parte, ma non l'ho individuata. Aggiungo che la presenza dell'erotismo nei film (non parlo di film erotici, non amo i generi) la trovo coinvolgente da tanti punti di vista, come la sorpresa quando scoprii che il Correggio, autore di pale d'altare e di affreschi di cupole, è stato nei suoi ultimi anni un grande pittore erotico, con gli Amori di Giove per Carlo V, defensor fidei. Il Giove ed Io di Vienna e la Danae Borghese sono fra i capolavori del pieno Rinascimento.
Le premesse erano buone, compreso il testo di Arthur Schnitzler e l'intervento nella sceneggiatura di Jean Anouilh, solo che questo film di Vadim è talmente erotico che dopo viene voglia di farsi frate. Il tema è noto, ma lo riassumo semplificando: una prostituta (Marie Dubois) va con un soldato (Claude Giraud) che va con una cameriera (Anna Karina) che va con il figlio studente della padrona (Jean Claude Brialy) che va con una signora borghese (Jane Fonda) che va con suo marito (Maurice Ronet) che va con una ragazza leggera (Catherine Spaak) che va con uno scrittore( Bernard Noel) che va con una attrice (Francine Bergé) che va con un ufficiale aristocratico (Jean Sorel) che va con la prostituta iniziale(Marie Dubois), così il cerchio si chiude. Solo che sembra che per tutti e tutte fare l'amore sia un po' come timbrare il cartellino, e poteva anche essere una rispettabile scelta interpretativa, che Greenaway o Almodovar potrebbero fare, solo che Vadim fa timbrare il cartellino involontariamente, ed è un bel guaio.
Ce la mette tutta per non fare così: Parigi, le canzoni, i mobili, i divani, le alcove, i prati in ombra per i plein-air notturni, gli sbottonamenti inteminabili (mamma mia, quanti bottoni, peggio dei monsignori!) la veletta da togliere - Jane Fonda ne ha due, di velette - le calze, anche il caso di calze inesistenti, gli specchi alla vedo e non vedo, il salottino separé, le bevande, cognac e champagne naturalmente, ma anche acqua fresca, visto che siamo d'estate, la portinaia compiacente, la lettera che Anna Karina scrive al moroso campagnolo intimandogli di esserle fedele (dopo l'amplesso con il figlio della padrona), la messa dove si sono conosciuti Jane Fonda e Jean Claude Brialy, la prima guerra mondiale che scoppierà fra qualche giorno (è sotteso che di Ronde sarà difficile organizzarne), la vasca da bagno con i sali per l'attrice, i libri utilizzati dallo scrittore per tirarsela un po' di più con Catherine Spaak... E' come a certi ristoranti in cui ti presentano un menù magnifico da tutti i punti di vista, solo che tu non mangi il menù, vuoi del cibo buono, variato, sostanzioso, sorprendente, tutto quello che qui non c'è.
Vadim manca di spirito, di leggerezza, di misura, persino di eroticità, altro che erotismo. Non c'è trionfo di desiderio, al massimo soddisfazione di essersi tolti uno sfizio di un quarto d'ora, dopo di cui tutti vorrebbero andarsene per i fatti propri. Nel vedere queste coppie ho rimpianto Les Grandes Manoeuvres di René Clair, che è di dieci anni prima. Bella forza, mi direte: Michèle Morgan e Gérard Philipe! No, mi sarebbe bastata la coppia in minore: Brigitte Bardot e Yves Robert. In tanto sfacelo, sopravvivono meglio le signore (per me Vadim gli uomini non li poteva vedere), Fonda e Karina in particolare, Spaak meno, plagiata in modo plumbeo dal borghese ipocrita e dallo scrittore parolaio. Naturalmente, visti i nomi nella locandina e la trama, il film ebbe molto successo, per lo stesso motivo per cui, fra le cartoline che si spedivano da Parigi ai parenti ed agli amici, a parte il lustro coloratissimo della patina, c'erano dieci Tour Eiffel e cinque Bateau Mouche, ma nessuna Saint Chapelle o Place des Vosges. Speriamo in Max Ophuls, che la sua Ronde la fece quindici anni prima.
Per La Ronde di Vadim il problema fu nel manico, in lui come regista, ma evidentemente val più la pratica che la grammatica, vista la sua clamorosa carriera di tombeur de femme, carriera che gli inimicò milioni di uomini. Riflettiamoci, con serietà ed un piccolo risvolto gossiparo, non facciamoci mancare niente. Principiò nel 1949 con la quindicenne Brigitte Bardot, che allora non la conosceva nessuno o quasi, quindi il dispiacere per milioni di uomini fu retroattivo, e se ne fecero una ragione, pur con qualche difficoltà. Ma la Catherine Deneuve del tempo di Les Parapluies de Cherbourg no, fu una stilettata che colpì nel profondo, con le mogli che dicevano, per sfotterli: "Hai visto? E tu credevi che fosse una santerellina!" Annette Stroyberg, vabbè, toccò solo alcune centinaia di migliaia, una piccola cosa. Jane Fonda però no, di qua e soprattutto di là dell'Atlantico, un'altra botta quasi come con la Deneuve. Poi Vadim sembrò mettere la testa a posto, e dispiacque solo a qualche centinaio di miliardari (Catherine Schneider era una ereditiera). Tutti si tranquillizzarono, anche perché quasi non faceva più film. Ma Vadim aveva in serbo la freccia del Parto, che personalmente non gli ho ancora perdonato: Marie-Christine Barrault, la nipote di Jean-Louis Barrault, l'Uomo Bianco, Baptiste in Les Enfants du Paradis. Questo non è dispiaciuto a tanti, solo a qualche decina di migliaia, solo che di mezzo ci sono anch'io perché c'è un film che... ma ne parleremo un'altra volta. Se non ci hanno già pensato, sarebbe il caso che un bravo regista facesse un film titolandolo, ad esempio "La Ronde de Roger", e sarebbe una bella nemesi storica, un film molto vivace come certamente era lui di persona.
Solimano
Mi trovo bene alla Biblioteca Civica di Lissone: è ben fornita, c'è molto spazio, mi lasciano esplorare gli scaffali, sono gentili, il libri me li lasciano per due mesi, in cinque minuti d'auto ci vado, e parcheggio quasi davanti. Due settimane fa, l'impiegata a cui riconsegnavo i libri ha notato che ce n'erano due sul cinema, e mi fa: "Lo sa che abbiamo aperto un punto di prestito dei DVD?" Detto, fatto: posso prendere tre DVD che debbo restituire nel giro di otto giorni, prendendone altri tre. Come fanno per i libri, anche lì si può procedere direttamente, maneggiandoli (sono uno tattile). Hanno il catalogo in rete, con altre dieci biblioteche, ma così è più comodo. Per il momento non ne hanno molti, ad occhio saranno trecento, ma in futuro farò come fa mio figlio per i libri: li convincerò a comprare certi DVD che mi interessano. Per ora c'è una buona scorta di film che vorrei vedere e che non ho mai visto.
Così mi è capitato fra le mani il DVD de La ronde (1964) di Roger Vadim. Veramente cercavo La ronde di Max Ophuls, ma non l'ho trovata, e poi Vadim mi incuriosiva, perché la squadra è ottima: Jane Fonda, Anna Karina, l'amatissima Catherine Spaak (mi passerà, prima o poi), più Francine Bergé, Marie Dubois e Valérie Legrange che non conoscevo, ed è stato un piacere. C'è persino Françoise Dorléac in una piccola parte, ma non l'ho individuata. Aggiungo che la presenza dell'erotismo nei film (non parlo di film erotici, non amo i generi) la trovo coinvolgente da tanti punti di vista, come la sorpresa quando scoprii che il Correggio, autore di pale d'altare e di affreschi di cupole, è stato nei suoi ultimi anni un grande pittore erotico, con gli Amori di Giove per Carlo V, defensor fidei. Il Giove ed Io di Vienna e la Danae Borghese sono fra i capolavori del pieno Rinascimento.
Le premesse erano buone, compreso il testo di Arthur Schnitzler e l'intervento nella sceneggiatura di Jean Anouilh, solo che questo film di Vadim è talmente erotico che dopo viene voglia di farsi frate. Il tema è noto, ma lo riassumo semplificando: una prostituta (Marie Dubois) va con un soldato (Claude Giraud) che va con una cameriera (Anna Karina) che va con il figlio studente della padrona (Jean Claude Brialy) che va con una signora borghese (Jane Fonda) che va con suo marito (Maurice Ronet) che va con una ragazza leggera (Catherine Spaak) che va con uno scrittore( Bernard Noel) che va con una attrice (Francine Bergé) che va con un ufficiale aristocratico (Jean Sorel) che va con la prostituta iniziale(Marie Dubois), così il cerchio si chiude. Solo che sembra che per tutti e tutte fare l'amore sia un po' come timbrare il cartellino, e poteva anche essere una rispettabile scelta interpretativa, che Greenaway o Almodovar potrebbero fare, solo che Vadim fa timbrare il cartellino involontariamente, ed è un bel guaio.
Ce la mette tutta per non fare così: Parigi, le canzoni, i mobili, i divani, le alcove, i prati in ombra per i plein-air notturni, gli sbottonamenti inteminabili (mamma mia, quanti bottoni, peggio dei monsignori!) la veletta da togliere - Jane Fonda ne ha due, di velette - le calze, anche il caso di calze inesistenti, gli specchi alla vedo e non vedo, il salottino separé, le bevande, cognac e champagne naturalmente, ma anche acqua fresca, visto che siamo d'estate, la portinaia compiacente, la lettera che Anna Karina scrive al moroso campagnolo intimandogli di esserle fedele (dopo l'amplesso con il figlio della padrona), la messa dove si sono conosciuti Jane Fonda e Jean Claude Brialy, la prima guerra mondiale che scoppierà fra qualche giorno (è sotteso che di Ronde sarà difficile organizzarne), la vasca da bagno con i sali per l'attrice, i libri utilizzati dallo scrittore per tirarsela un po' di più con Catherine Spaak... E' come a certi ristoranti in cui ti presentano un menù magnifico da tutti i punti di vista, solo che tu non mangi il menù, vuoi del cibo buono, variato, sostanzioso, sorprendente, tutto quello che qui non c'è.
Vadim manca di spirito, di leggerezza, di misura, persino di eroticità, altro che erotismo. Non c'è trionfo di desiderio, al massimo soddisfazione di essersi tolti uno sfizio di un quarto d'ora, dopo di cui tutti vorrebbero andarsene per i fatti propri. Nel vedere queste coppie ho rimpianto Les Grandes Manoeuvres di René Clair, che è di dieci anni prima. Bella forza, mi direte: Michèle Morgan e Gérard Philipe! No, mi sarebbe bastata la coppia in minore: Brigitte Bardot e Yves Robert. In tanto sfacelo, sopravvivono meglio le signore (per me Vadim gli uomini non li poteva vedere), Fonda e Karina in particolare, Spaak meno, plagiata in modo plumbeo dal borghese ipocrita e dallo scrittore parolaio. Naturalmente, visti i nomi nella locandina e la trama, il film ebbe molto successo, per lo stesso motivo per cui, fra le cartoline che si spedivano da Parigi ai parenti ed agli amici, a parte il lustro coloratissimo della patina, c'erano dieci Tour Eiffel e cinque Bateau Mouche, ma nessuna Saint Chapelle o Place des Vosges. Speriamo in Max Ophuls, che la sua Ronde la fece quindici anni prima.
Per La Ronde di Vadim il problema fu nel manico, in lui come regista, ma evidentemente val più la pratica che la grammatica, vista la sua clamorosa carriera di tombeur de femme, carriera che gli inimicò milioni di uomini. Riflettiamoci, con serietà ed un piccolo risvolto gossiparo, non facciamoci mancare niente. Principiò nel 1949 con la quindicenne Brigitte Bardot, che allora non la conosceva nessuno o quasi, quindi il dispiacere per milioni di uomini fu retroattivo, e se ne fecero una ragione, pur con qualche difficoltà. Ma la Catherine Deneuve del tempo di Les Parapluies de Cherbourg no, fu una stilettata che colpì nel profondo, con le mogli che dicevano, per sfotterli: "Hai visto? E tu credevi che fosse una santerellina!" Annette Stroyberg, vabbè, toccò solo alcune centinaia di migliaia, una piccola cosa. Jane Fonda però no, di qua e soprattutto di là dell'Atlantico, un'altra botta quasi come con la Deneuve. Poi Vadim sembrò mettere la testa a posto, e dispiacque solo a qualche centinaio di miliardari (Catherine Schneider era una ereditiera). Tutti si tranquillizzarono, anche perché quasi non faceva più film. Ma Vadim aveva in serbo la freccia del Parto, che personalmente non gli ho ancora perdonato: Marie-Christine Barrault, la nipote di Jean-Louis Barrault, l'Uomo Bianco, Baptiste in Les Enfants du Paradis. Questo non è dispiaciuto a tanti, solo a qualche decina di migliaia, solo che di mezzo ci sono anch'io perché c'è un film che... ma ne parleremo un'altra volta. Se non ci hanno già pensato, sarebbe il caso che un bravo regista facesse un film titolandolo, ad esempio "La Ronde de Roger", e sarebbe una bella nemesi storica, un film molto vivace come certamente era lui di persona.
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