Un condamné à mort s'est échappé ou Le vent souffle où il veut di Robert Bresson (1956) Dal racconto autobiografico di André Devigny, Sceneggiatura di Robert Bresson Con François Leterrier, Charles Le Clainche, Maurice Beerblock, Roland Monod, Jacques Ertaud, Jean Paul Delhumeau, Roger Treherne, Jean Philippe Delamarre, César Gattegno, Jacques Oerlemans, Klaus Detlef Grevenhorst, Leonhard Schmidt, Roger Planchon, Max Schöndorff Fotografia: Léonce-Henri Burel Musica: Kyrie dalla Grande Messa in Do minore K427 di Wolfgang Amadeus Mozart (99 minuti) Rating IMDb: 7.9
Solimano
Cinquanta anni fa, e l'emozione è la stessa. Per cinquant'anni non l'ho rivisto, ma appena ho fatto partire il DVD sono tornato il ragazzo che ero, in quello scomodo cinema parrocchiale gestito da un prete intelligente. A bocca aperta per un'ora e mezzo. Con qualcosa di meno, perché il tempo non passa impunemente, ma con una grande cosa in più, che dico alla fine.
Il tenente Fontaine (François Leterrier) fa parte della Resistenza francese all'occupazione tedesca. Viene catturato dalla Gestapo e l'immagine mostra la macchina mentre lo portano in prigione. Fontaine guarda quello che succede per strada, come traffico, passaggio di tram, attraversamento di persone, perché vuol tentare la fuga appena la macchina rallenta.
Infine ci prova, ma lo riprendono subito e un tedesco, sulla macchina, lo colpisce in viso col calcio della pistola. Bresson non mostra il colpo, come non mostra tutti gli altri atti di violenza che accadono nel film: si capisce che ci sono da altre cose (fischi, urli, spari, sguardi). Si vede il volto insanguinato di Fontaine quando arriva alla prigione.
Fontaine viene torturato, lo si capisce perché viene trasportato a braccia nella cella. Poi rimane abbandonato sul pagliericcio. La cella è molto piccola, tre metri per due, Bresson non ce la mostra mai nella sua interezza. Sul set era presente André Davigny a cui Bresson chiedeva non di spiegare i ricordi autobiografici, ma di disporsi col corpo come aveva fatto nei vari momenti della prigionia e della evasione. Poi Bresson agiva inesorabilmente su François Leterrier, l'interprete. Che si svuotasse di sé, che divenisse Fontaine, quindi Davigny. Così con gli altri, generalmente attori non professionisti.
Fontaine viene tenuto in manette anche in cella. Appena si riprende, cerca di stabilire dei contatti con mondo esterno, specie con gli altri prigionieri. Lo fa in due modi. Verso la cella contigua, picchiando sul muro, parlando a voce bassa e anche scrivendo alcune parole che gli vengono dette. Ma il vicino di cella è un vecchio ormai scoraggiato. Ha tentato di impiccarsi senza riuscirci. Anche si riuscisse a fuggire, fuori non lo aspetta nessuno.
L'altro modo che usa Fontaine è quello di guardare attraverso l'inferriata in un cortile erboso del carcere. Così riesce a parlare con un vecchio prigioniero che cammina con altri due. Fontaine vuole mettersi in contatto con la sua famiglia perché ha una informazione capitale da far sapere ai compagni nella Resistenza: i tedeschi hanno scoperto il codice che i resistenti utilizzano.
Fontaine è determinato, ha una forza interiore che lo sostiene, perché altrimenti sarebbe facile lasciarsi andare. Lui lo sa benissimo, ma è costretto ad esitare prima di decidere, perché i problemi sono due. Può fidarsi, delle persone con cui viene in contatto? E le azioni che vuole intraprendere, hanno possibilità di riuscita? Nelle immagini si vede il foglio su cui scrive Fontaine e il modo che trova per comunicare col vecchio prigioniero, che ha una figlia che ogni tanto lo viene a trovare. In questo caso Fontaine ha deciso di fidarsi: gli va bene, ma non aveva nessuna altra alternativa.
Fontaine è quasi sempre in cella. Le occasioni per uscire sono solo tre.
La prima è quando viene condotto a qualche interrogatorio, che si svolge sempre in carcere, salvo una volta, verso la fine del film, in cui Fontaine viene condotto in macchina in un altro posto. Qui gli viene comunicata la condanna a morte, che sarà solo questione di pochi giorni.
La seconda è quando i prigionieri debbono lavarsi. Lo fanno insieme, in un lavatoio. Non potrebbero parlare fra di loro, ma in qualche modo riescono a farlo, stando molto attenti che fra di loro non ci siano delle spie. Fontaine entra in contatto in particolare con due persone: un prete, che lo spinge alla fuga e lo rafforza in qualche momento di scoraggiamento e un altro prigioniero, Orsini, che è stato tradito e denunciato dalla moglie e che sta preparando un suo modo per evadere, in parallelo a quello su cui sta operando Fontaine.
La terza, è quando i prigionieri in fila debbono vuotare il bugliolo che ognuno ha in cella. Per Fontaine è un momento importante perché con la scusa del bugliolo riesce ad eliminare dei residui del suo lavorìo che altrimenti resterebbero in cella, sempre a rischio di ispezione.
Il film coinvolge in modo totale, ma non con i mezzi a cui siamo stati abituati in questi anni da diversi film (anche belli) sulle prigioni e sulle evasioni. Quello che viene chiamato giustamente l'ascetismo di Bresson è intessuto di piccole e concrete cose. Il carcere non è un modello di efficientismo, i guardiani, che si vedono appena, sembrano degli impiegati che fanno un mestiere sgradevole, come ce ne sono tanti. La crudeltà -esistente- ha un sapore burocratico. Fontaine è determinato, ma non è che inventi fantasiosamente un nuovo metodo per evadere. Con lucidità procede verso quello che dentro di sé sente di volere: evadere, salvare la sua vita. Quindi cerca di utilizzare le opportunità, specie un cucchiaio che diventa un coltello. E' molto di più il tempo che impiega a far sparire i residui del suo lavorìo che il vero e proprio lavoro sulla porta di legno della cella. Quindi, si potrebbe dire che il film è realistico, ed è del tutto vero. Solo che la quotidianità che usa Bresson ha in sé qualcosa che attraverso la quotidianità si esprime, ma non è la quotidianità. Non sto dicendo che la quotidianità è un mezzo, senza la quotidianità non c'è neppure il resto. Ma cos'è il resto? Con parola ormai oggi del tutto disusata, il resto è la Grazia. "Tutto è Grazia!" sono le ultime parole del curato di campagna di Georges Bernanos, che Bresson riprende nei suoi film. Non è un discorso di atei o credenti: l'esperienza della Grazia è trasversale alle religioni ed alle credenze. Credo che in qualche modo la sperimentiamo tutti, nella nostra vita. Nel film interviene -senza apparire, se no non sarebbe Grazia- almeno quattro volte.
Quando a Fontaine si rompe il primo cucchiaio. A lui servono cucchiai di ferro, non di stagno, e ne trova uno uscendo un po' a caso dal lavatoio. Il cucchiaio quasi gli capita in mano.
Quando non sa più dove trovare stoffa per costruirsi le corde, e gli arriva un pacco dono della famiglia con dentro delle lenzuola.
Quando Orsini tenta la fuga, e Fontaine sa in che modo proverà. Orsini fallisce e viene fucilato, ma Fontaine capisce che il modo che ha adottato Ordini non va bene, e ne trova un altro, mentre prima stava per tentare l'evasione proprio col modo di Orsini.
Quando, proprio alla vigilia del tentativo di evasione, mettono in cella con lui Jost (Charles Le Clainche) un ragazzo di sedici anni che indossa una giubba da tedesco. A Fontaine sembra crollare il mondo. Pensa che Jost sia una spia, ma infine si decide a coinvolgerlo nell'evasione. E si accorgerà che se non erano in due, l'evasione non sarebbe riuscita. Da solo era impossibile riuscirci. Inserisco ora delle immagini in sequenza cronologica sull'evasione, a partire dalla preparazione delle corde in cui si vedono sia le mani di Fontaine che quelle di Jost. Le immagini si raccontano da sole, ma in questo caso inserisco dei brani di alcuni scrittori e registi che evidentemente hanno sentito profondamente la forza unica del modo rappresentativo di Bresson. Fra l'altro cercano di ribellarsi a Bresson, specie Truffaut, che è diviso fra ammirazione sconfinata e presa di distanza (perché era diversissimo da Bresson). Ma prevale l'ammirazione.
François Truffaut:
"Il film di Bresson è puramente musicale, il ritmo è la sua ricchezza essenziale. Un film parte da un punto per arrivare a un altro. Ci sono quelli che fanno delle deviazioni, quelli che si fermano compiaciuti per il piacere di gustarsi una scena gradevole, quelli ai quali mancano dei pezzi, ma colui che imbocca la strada dritta fende la notte al ritmo di un tergicristallo: le dissolvenze incrociate spazzano regolarmente sullo schermo la pioggia delle immagini alla fine di ogni scena. Ecco uno di quei film di cui si può dire che non contengono una sola inquadratura inutile, non un’inquadratura che si possa spostare o raccorciare; in breve ecco il contrario di un film "fatto al tavolo di montaggio".
Un condamné à mort s’est échappé è tanto libero e poco sistematico quanto è rigoroso. Bresson non si è imposto che le unità di luogo e d’azione; non solo non ha cercato che il pubblico si identificasse con Leterrier, ma ha anche reso questa identificazione impossibile. Noi siamo con Leterrier, accanto a lui, ma non vediamo tutto quello che vede (solamente ciò che si riferisce al soggetto, vale a dire l’evasione), ma non vediamo mai più di quello che lui stesso vede".
Georges Sadoul:
"Bresson si serve di attori non professionisti, ma li dirige con lo stesso rigore con cui dirigerebbe dei veri attori, facendoli provare cento volte prima di poter cogliere una espressione o un'intonazione, precise ma stilizzate. Caratterizza inoltre i suoi personaggi in un modo diverso dalla realtà: nonostante il passare delle settimane, il protagonista continua a indossare la stessa camicia sporca di sangue e la sua barba è sempre una barba di due giorni. "Ho evitato ogni effetto drammatico voluto - ha detto Bresson - nel senso della maggiore semplicità, affinché la commozione scaturisca dal movimento generale dell'azione più che dai particolari". Servendosi continuamente della litote, dicendo il meno possibile per esprimere il massimo, il film, con mezzi minimi, ha saputo rendere con verità rara l'atmosfera della Francia occupata e lo spirito della Resistenza, e soprattutto il rapporto metafisico d'un uomo con l'idea di libertà".
Filippo Sacchi:
"Noi vediamo soltanto un muro, o la porta, o il soffitto, o l’angolo del pagliericcio, o l’inferriata della finestra, ma mai la cella intera, di maniera che ogni gesto di quell’uomo, a cui la continua apprensione dà un’intensità quasi allucinata, ogni suo movimento finiscono per presentarsi con l’oppressiva angoscia dell’asfissia. Tutto è asfissiante nella sua quasi monomane precisione: il cucchiaio pazientemente affilato sul pavimento, il raspio lento, di giornate intere, per scalfire gli interstizi tra asse e asse della porta, la raccolta a una a una delle scheggette e dei minuzzoli, il lavoro infinito per turare le fessure e mimetizzare il legno, il meticoloso intrecciare le striscioline di stoffa che serviranno da corda. Viste là, in quella cieca segregazione, staccate da tutto il resto del mondo e senza nessun apparente addentellato con possibilità reali, tutte queste operazioni acquistano alla lunga l’automatismo della fissazione, la futile concentrazione innocente della pazzia.
E finirebbe per essere un unico, insistente, monocorde, monotono tema, se non fosse per i riflessi che arrivano dal mondo di fuori. Sono appena frammenti di immagini, voci interrotte, suoni sconnessi, ma è proprio la loro presenza, il modo profondo e poetico in cui sono intrecciati, e quasi si può dire orchestrati entro quell’unico tema, che fa l’inconfondibile vita e potenza del film".
Il film ha due autori. Basterebbe ed avanzerebbe uno, Robert Bresson. Ma ce n'è un altro, che non avrebbe mai immaginato che sarebbe esistito il cinema. Si tratta di Wolfgang Amadeus Mozart. L'unica musica che si sente nel film è sua: il Kyrie dalla Grande Messa in Do minore K427. Scelta impeccabile di Bresson, perché Le vent souffle où il veut. Chi non conosce il Kyrie di Mozart lo ascolti qui.
Fra i tanti commenti in YouTube ne ho trovato uno apparentemente ingenuo. Lo condivido.
"tears roll every time - and i dont even understand the words. i used to be an atheist - until i found mozart and understood true love. Something so truly perfectly beautiful can not be chance. The power of love is my god. Music is my love."
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1 commento:
Post esaurientissimo, didattico nel miglior senso del termine un po' abusato. Beato te che in parrocchia potevi vedere questi film! A noi propinavano improbabili polpettoni edificanti oppure ci terrorizzavano a morte con Marcellino pane e vino. So bene che qualcuno qui non la pensa così, ma io sono stata una bambina traumatizzata da quel film. Mi ha instillato la paura di morire da bambina e il ribrezzo per gli scorpioni :-(
Salutissimi, Annarita
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