Giuliano
A notte fonda, come si conviene ormai con i capolavori, grazie al mio obsoleto videoregistratore a cassette, ho registrato Playtime di Jacques Tati (1967), e adesso me lo sto guardando. Per fortuna, quantomeno, era su Raitre: e quindi senza interruzioni pubblicitarie. Era da così tanto tempo che non vedevo Playtime che mi sono chiesto, escludendo per forza di cose l'averlo visto al cinema, se questa fosse la prima volta che lo vedevo a colori; e forse è davvero così. Ma i colori sono azzurrini, grigini, trasparenti, volutamente asettici (tranne qualche autobus di color verdone), e forse non è questo l'essenziale. Mi sono ricordato subito di un vecchio luogo comune: Tati non fa ridere. Lo dicevano sempre, quando passava in tv, anche comici importanti. E forse è vero, ma io sono divertito molto nel rivedere le sue piccole gags stravaganti. Certamente, Tati non fa sganasciare dalle risate: ma il suo Monsieur Hulot, gentile corpo estraneo in una società d'indaffarati, forse un antropologo educato capitato per caso in un mondo alieno, è stato modello e punto di riferimento per tanti, e anche fonte d'ispirazione se non addirittura vittima di veri e propri furti d'idee... Il primo nome che mi viene in mente, verso il basso, è Mr.Bean (un Tati più volgare e cattivo); verso l'alto, invece, direi Jean Michel Folon (che non è un comico ma il grande pittore che apre il nostro diario quotidiano). Ma davvero Jacques Tati è uno dei punti fermi nella storia del cinema e della comicità, e anche se gli anni passano sarebbe un peccato dimenticarlo, come si sta facendo. Per intanto, mi fermo e riprendo a consultare il palinsesto dei nostri tremilaseicento canali tv, alla ricerca di qualche altro angolino dimenticato dove recuperare qualche capolavoro perduto. Sarà una lunga ricerca, e difficile.
5 commenti:
Per me, Playtime è un film piuttosto amaro, rispetto ai primi tre di Tati. Difatti fece fatica a portarlo a buon fine, anche perché ebbe dei problemi di budget, questo film costò molto di più degli altri. Sostengo che è un film amaro non perché si ride poco - Tati non cerca la risata ma il far vedere le cose con occhi completamente nuovi - ma perché Tati prospetta una specie di medioevo prossimo venturo che a suo avviso si cela dietro il furore della modernità. Mentre in Mon Oncle la possibilità di recupero a suo modo c'era, magari nel rapporto fra padre e figlio che si stabilisce nel finale, in Playtime questo non succede: c'è una specie di cavaliere dell'ideale che ha rinunciato all'idea di convertire chicchessia, già è tanto se riesce a salvarsi lui. Tati fu profeta, le conseguenze della sua amara favola ci stanno sotto gli occhi nel nostro qui e ora, diversi decenni dopo. Che fare? Questo il problema che si porrebbe. Niente altro che perseguire senza speranza (che non vuol dire disperati, gli estremi si toccano) la salvezza propria e quella delle persone che una intelligente socialità ci ha fatto conoscere. Poi si vede, ma se non c'è questo primo passo rivolto a se stessi, darsi da fare all'esterno sa solo di inutile predicozzo di qualcuno che è dis-turbato, e non danno retta. Si ascolta, se si vuole, solo chi è tranquillo nel suo chiamarsi fuori da meccanismi, vizi, abitudini che non condivide.
saludos, Giuliano
Primo
È un film molto intelligente, ma per un pubblico ristretto. Coglie i pericoli della modernità, ma per migliorarla. Complimenti per il blog sia per l'idea dei film che per la grafica, che ti consiglio di consevare in forma essenziale. A presto, Isabella
Caro Solimano, il commento è uscito , ma devo verificare la password. Isabella
Il titolo stanze all'aria piace molto anche a me, perchè non amo stare molto tempo al chiuso delle sale cinematografiche, oggi con il sonoro da mal di testa , ieri piene di fumo. Buon lavoro, Isabella
Benvenuta Isabella, torna a trovarci.
Solimano
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