giovedì 29 marzo 2007

Luci d'inverno

Luci d'inverno di Ingmar Bergman (1962) Con Ingrid Thulin, Gunnar Bjoerndstrand, Gunnel Lindblom, Max von Sydow Fotografia di Sven Nykvist (81 minuti) Rating IMDb: 8.1
Giuliano
E' un film di Ingmar Bergman del 1962: il titolo italiano è "Luci d'inverno", e racconta di un prete che ha perso la fede, e che alla fine del film si trova a dire Messa davanti alla Chiesa vuota. Il protagonista è Gunnar Björnstrand, grande attore che fu lo scudiero del "Settimo Sigillo"; un altro personaggio importante è interpretato da Max von Sydow, che in quello stesso film era il cavaliere che tornava dalle crociate e trovava un mondo devastato. In "Luci d'inverno" Max von Sydow intepreta un personaggio ben più umile: si chiama Jonas, è un semplice parrocchiano, e sua moglie si rivolge al prete perché la aiuti. Jonas è infatti caduto in una grave depressione; e tutto è cominciato quando ha appreso dai giornali che "i cinesi hanno fabbricato la bomba atomica". Siamo nel 1962, Hiroshima era ancora ben vicina; ma la Svezia è ben lontana dalla Cina, e il fatto può far sorridere. Cosa stai lì a preoccuparti, gli diremmo noi: vai a lavorare, divertiti, fai qualcosa insomma. Ma la storia di Jonas ha un finale tragico, e noi lo sappiamo in partenza dagli occhi e dall'espressione di Max von Sydow. Oggi, le cronache ci riportano le immagini di esplosioni e devastazioni in posti lontani: l'Arabia Saudita, il Marocco, l'Afghanistan, la Corea del Nord... Leggiamo distrattamente e non ci facciamo caso. Se qualcuno prova a portare un'attenzione solo un po' più profonda, facile che si becchi del cretino e venga zittito, anche da persone importanti.Facile sentirsi rispondere che il terrorismo si combatte con la guerra e con azioni di polizia, per esempio; facile sentir dire (e vedere persone che approvano) che bisogna buttare a mare le navi con gli immigrati clandestini, e magari a cannonate; facile sentirsi dire, come capitava al povero Jonas, che sono eventi lontani e non ci toccano. E' per questo che mi torna spesso alla mente questo film vecchio di 40 anni. Ormai l'atomica cinese (ci fece una canzone anche Guccini) è cosa lontana e remota, perfino normale. Non è più una novità e noi ci siamo abituati.

2 commenti:

Solimano ha detto...

Dopo l'entusiasmo dei primi film che vidi:Il Settimo Sigillo, Il Posto delle Fragole, La Fontana della Vergine, Il Volto, Sorrisi di una Notte d'Estate, fui molto deluso dai suoi film immediatamente successivi: oltre a Luci d'Inverno anche Come in uno Specchio e soprattutto Il Silenzio. Il mio fu un caso di aspettative sbagliate, difatti molti anni dopo rividi il mio giudizio e li trovo film molto veri, con un fondo di tragedia reale, prima che pensata. Si vede che il tempo è galantuomo: questi tre film oggi hanno un Rating IMDb altissimo, anche sopra l'otto. Questo giudizio, dato da migliaia di votanti, è di persone che hanno visto i film molto anni dopo l'uscita. La mia conclusione è che allora non accettavo che argomenti così tragici venissero raccontati in quel modo, senza il soccorso del sentimentalismo chiacchierone. Una specie di autodifesa contro un troppo di verità.

saludos Giuliano

Solimano

Solimano ha detto...

Ecco quello che scrive Tino Ranieri nel Castoro Cinema del dicembre 1974:

"Luci d'inverno è a tutt'oggi il Bergman che personalmente preferiamo, e il regista stesso, pur ombroso quando gli si richiedono graduatorie, ha dicharato più volte la stessa preferenza. Qui c'è tutto l'uomo bergmaniano con i suoi dubbi, la sua sfera di alienazioni, i suoi insicuri traguardi, le “Grandi Paure”. L’uomo solo in un microcosmo intirizzito, egli sperimenta uno dopo l'altro - e insieme - gli strumenti per sconfiggere tale condizione: la memoria e l'esorcismo, l'amore carnale e l'amore ideale, il sarcasmo e la fede, il figlio e il prete, la stoica sopportazione e la digrignante ironia. Nelle tante isole del cinema di Bergman, questa di Luci d'inverno è l'isola-chiesa. Non meno rocciosa, non meno desolata, non meno burrascosa delle altre. Il film è incastonato - anzi ne costituisce la scintilla più preziosa - in una trilogia che forse è una tetralogia, quella cosiddetta del “silenzio di Dio”. In La fontana della vergine Dio si era inaspettatamente mani-festato. Ripiomba nelle tenebre in Come in uno specchio, tace più che mai nel film che prosegue Luci d'inverno e che - già nel titolo promette ineso-rabilmente Il silenzio. (…)
Il silenzio si fa crescente. Vi era in Come in uno specchio la tensione verso la conquista divina. In Luci d'inverno vi è la richiesta esplicita di un contatto, di una comunicazione-comunione; ricordiamo che nella lingua originale il titolo del film era Nattvardsgästerna, che significa “i comunicandi”, con riferimento sia alla comunicabilità esistenziale che alla cerimonia eucaristica. In Il silenzio si avrà la riprova negativa delle ri-cerche di cui sopra.
Ma con il silenzio metaforico viene su e sale progressivamente in questi Bergman degli anni Sessanta un rumore bene individuabile e minaccioso. L'incubo della guerra, anzi della guerra nucleare, si fa strada, e in Luci d'inverno si estrinseca - sia pure attraverso poche battute di dialogo in un gesto tragico di immensa importanza: Jonas (Max Von Sydow) che si sopprime per paura della morte atomica.
Per molto tempo il richiamo sociale è stato assente in Bergman: circostanza fino a un certo punto comprensibile nella vita culturale e artistica della Svezia senza guerre. Spesso il regista è stato rimproverato di “scarsa mobilità storica”. Vari film dopo Luci d'inverno starebbero a suggerire una evoluzione in tal senso, che non uscirà però dai modi e dai concetti tipici dell'autore.
Il tema della distruzione nucleare (distruzione->punizione?) era già stato affrontato (…) in Il settimo sigillo, attraverso grosse e suggestive allegorie. Ma troviamo ora più efficace e pregnante nell'additarci il pericolo l'atto suicida di Jonas presso il torrente, (lui in Luci d'inverno, com'è più avanti la famosa sequenza del carro armato in Il silenzio. Il pastore Tomas parla una lingua ignota a Jonas: ignota, incomprensibile, inutile, che non è in grado di apportargli salvezza o conforto. Vediamo tutto ciò detto cinematograficamente in quella scena apparentemente disadorna che è una delle più belle dell'intero film: il ruscello (questa volta senza rivelazione, non più “fontana della vergine”!), l'immobilità del suicida, il lento gestire della, burocrazia all'intorno e il pastore Tomas (Cunnar Björnstrand) che nulla riesce a insegnare o imparare da quella testimonianza funesta che pure dovrebbe chiamarlo in causa: e ha un moto qualsiasi, aiuta a spostare la coperta sopra il cadavere, per un preciso istinto materiale che è in quel momento tutto ciò che gli resta. Siamo davanti a un brano di abbagliante eloquenza cinematografica.
In effetti tutto il personaggio del pastore Tomas è una manifestazione di alienata insufficienza, nell'esatto senso di una rispondenza mancata tra il “lavoratore” e il suo lavoro. Ecco l'altra superba sequenza del film, il finale, lucido e inflessibile all'estremo. Il “lavoro” della messa si ripete come l'ennesima replica di uno spettacolo che si rifà per forza d'inerzia e per un numero sempre minore di “spettatori”. In attesa di cominciare il celebrante e i suoi aiutanti si scambiano stanche osservazioni, l'organista ha fretta di tornarsene a casa e l'addetto alza le leve della luce elettrica sull'altare con il gesto automatico del tecnico ai “coltelli” per l'illuminazione di scena fra le quinte di un teatro. Il pastore Tomas si presenta ai fedeli e pronuncia le parole che deve pronunciare, con ostinazione dolorosa, come un fatto di semplice memoria e di amareggiata sottomissione.
Come può continuare il discorso di Bergman dopo la parola “fine” di Luci d'inverno? Perché è chiaro che la ricerca non è finita, le responsabilità non sono cadute, i “dialoghi sull'isola” debbono ancora chiarire tante cose. La critica cattolica afferma che il tormento è ancora impetrazione, e nega la disperazione perché la supplica non è terminata. Ma l'impressione che più conseguentemente si trae dal film è che, se un ricupero risulta ancora possibile, esso dovrebbe percorrere la via del ritorno ai piccoli dolori quotidiani, alla necessità di esistere: dal cielo all'uomo. È quanto esprime nelle parole, nell'azione e nella pura presenza il personaggio di Marta (Ingrid Thulin), non meno importante di quello dei pastore e suo antagonista più vero. Come sempre Bergman affida la “soluzione” (o quanto più si avvicina al suo pensiero personale, allo scioglimento delle sue storie) a una donna. Tocca sempre alla donna, la piccola saggezza amorosa, il grande conflitto erotico, la coraggiosa constatazione morale, il sacrificio tangibile. Luci d'inverno non fa eccezione. Marta, si veda, ha sempre le mani guantate. Il dialogo accenna a certe sue piaghe, che non sono le stigmate, no di sicuro; ma al contrario la conferma della sua essenza di carne, del suo lavoro frustrato, delle virtù minute e sanguinose senza mistero: così senza mistero che il pastore Tomas, che pure la ama, quasi non se ne accorge.
Del resto la risposta ai dubbi è già presente anche nel tacito personaggio della moglie di Jonas (Gunnel Lindblom) che non rinuncia alla vita e ne prepara un'altra in grembo. Ma Marta sa unificare in sé, nel suo apparente rancore, nella sua falsa indecisione, le due metà del problema: non l'amore al di fuori e lontano da noi, ma quello che è già in noi, e che è già prodigioso senza cessare per questo di essere amore; e al tempo stesso un amore che sa essere sfida, ira, polemica, gelosia, forme diverse e convergenti di una vitalità che nessuna paura potrà vincere: e dopo tutto, forza conoscitiva. Noi avvertiamo che, ad onta della sua ambiguità esteriore, Marta corrisponde totalmente al concetto di speranza quale Bergman lo aveva già espresso in Come in uno specchio attraverso la frase del protagonista: “La mia speranza sta nel sapere che l'amore esiste come cosa reale nel mondo degli uomini ... per amore intendo ogni genere d'amore, il più elevato e il più abietto, il più ridicolo e il più splendido ... e anche il desiderio d'amore, la repulsione, la miscredenza e la fede ... questo pensiero è di conforto alla mia aridità”. Non è evidentemente un'orazione che il pastore di Luci d'inverno possa recitare fra le pareti della sua chiesa. Ma è una indicazione per la sua salvezza, il primo momento di una nuova “comunione” al di fuori del rituale e del dogma. È la “luce invernale” che Bergman è disposto a concedere al suo protagonista.
Poco, o molto? Poco. Ma è un rimettere in equilibrio l'uomo, un esporsi cosciente al disprezzo di se stessi, un accettare di gettare ancora sulla bilancia la propria stracca dignità. Può darsi che non basti a bloccare il carro armato o la superbomba. Ma è pur l'inizio di una splendida replica, riprovare la propria coscienza e il proprio umano coraggio.
Bisogna anche sottolineare, nell'allestimento formale di Luci d’inverno, l'essenzialità assoluta, una povertà esteriore raschiata all'osso. Fra tutti i film maggiori di Bergman fino a oggi è forse ancora quello che osa la nudità espressiva totale, strindberghiana vorremmo dire. Il minimo di persone, di scene, di situazioni, non un abbellimento scenografico, non un aiuto musicale. Tutto sguardo e pensiero, lume e parola.
Già sappiamo che in linea di spettacolo esistono due Ingmar Bergman, quello sontuoso e quello avaro, addirittura tosato fino alla più orgogliosa umiltà. Ma in Luci d'inverno gli allettamenti figurativi, che sussistevano in La fontana della vergine e in Come in uno specchio, sono praticamente spariti. Il Bergman barocco e visionario, fiammingo più che scandinavo, vi ha rinunciato con drastica severità, si è escluso, o, meglio si è tirato da parte. Siamo lontani dal fermento registico, dalla sovrapposizione dei fantastici cara ai suoi film più raffinati. Ma l'austerità possiede un fascino al quale è difficile sottrarsi. In Luci d’inverno persino la natura, quello spicchio di natura che il film ci permette d'intravedere intorno alla chiesetta di Delarna, sembra avere lo squallore gelido di una stanza disabitata e sconfortevole: un esterno che sembra un interno, cerchiato da invisibili mura: la chiesa stessa sa di polvere e di nevischio. Anche queste ovviamente sono metafore, metafore comprensibili e indispensabili della vicenda, ma proprio la loro spoglia concretezza le fa più ardite delle più ardite allegorie. Non c'è dubbio che Bergman esiga dallo spettatore per questo film il massimo della concentrazione. Ma è possibile scorgere in tanto ascetismo espressivo anche un'altra ragione di carattere eminentemente professionale. In quello stesso periodo Bergman viene duramente attaccato dalla critica del suo paese, che lo accusa di voler essere anche sullo schermo soprattutto un regista da palcoscenico, e comunque meno bravo come cineasta che come regista teatrale. Può darsi che la forma adottata per Luci d'inverno voglia ribattere agli oppositori ponendosi come esempio di linguaggio cinematografico puro". (…)