Nicola
Lo scienziato pazzo è un topos di tale successo che nell'immaginario collettivo si tratta dell'unica icona universalmente riconosciuta a rappresentare la categoria. Con l'eccezione della figura di Einstein, popolare quasi altrettanto, e quasi quanto la Coca Cola e il leone ruggente della MGM. Tale successo d'immagine si deve in gran parte al cinema, che sul tema dello scienziato pazzo ha prodotto infinite variazioni.
Il prototipo cinematografico della categoria è certamente il primo Frankestein (1931, diretto da James Whale, col mostro impersonato da Boris Karloff e il Dr. Frankestein da Colin Clive), tratto dal romanzo di Mary Shelley attraverso la traduzione teatrale di Peggy Webling. Già in questo film ci sono gli ingredienti fondamentali di un buono scienziato pazzo: 1) si occupa di un problema fondamentale (la creazione della vita da tessuti che ne sono privi, per esempio); 2) in solitudine e senza contatti con altri studiosi; 3) con fondi provenienti perlopiù dalle fortune di famiglia.
Altri temi fondamentali sono il teletrasporto (La Mosca di Kurt Neumann, 1958, più tardi rifatta da Cronenberg); la trasformazione di animali in esseri umani (L'isola del Dr. Moreau, tratto da H.G. Wells, prima riduzione in pellicola nel 1933); un viaggio nella memoria evolutiva che si cela nel nostro corpo (Stati di Allucinazione, di Ken Russel, 1980) e tanti altri.
Spero di non deludere nessuno dicendo che scienziati pazzi di questo tipo non ne esistono. La realtà è molto più inquietante e molto meno appassionante. Pochi ricercatori si occupano di questioni veramente fondamentali e per farlo lavorano in grandi gruppi composti da personale iperspecializzato, con pochi scienziati-manager in posizione dirigente, spesso i soli ad avere piena consapevolezza del progetto. Si tratta di gente in genere poco incline alla sregolatezza.
Questi grandi gruppi, poi, passano buona parte del loro tempo comunicando col mondo esterno: altri scienziati e gruppi di ricerca, politici (gran parte dei fondi viene ancora dai bilanci statali), industriali (notevole il caso delle scienze medico-biologiche). Non appena credono d'avere un asso nella mano, lo annunciano: meglio un annuncio prematuro che arrivare secondi, in un mondo dove la concorrenza è agguerritissima. Poche persone al mondo potrebbero permettersi di finanziare di tasca propria uno di questi gruppi (Bill Gates, Carlos Slim Helu...), e non lo fanno. Quando la scienza confina con la follia, lo fa, come sempre nelle comunità umane, senza intenzione dei singoli: una follia di sistema. Non c'è nulla di strano nelle amniocentesi, ma la precoce (e illegale) determinazione del sesso dei feti porta milioni di coppie cinesi ad abortire selettivamente le femmine, causando una pericolosa deriva demografica. Un fenomeno in cui s'intersecano la moderna diagnostica, la tradizione maschilista di matrice confuciana e la politica demograficamente assennata, almeno a tavolino, che impone alle donne di non avere più d'un figlio. Che non è però cinematograficamente rappresentabile senza violare macroscopicamente tutte e tre le unità aristoteliche (tempo, spazio, azione).
[O no? Si potrebbe realizzare un' "Ultima femmina": film fanta-demografico con orde di maschi che si combattono per generare con lei e altrettanti che, più realisticamente, si danno ai piaceri omosessuali].
Proprio quest'anno cominciamo a vedere come una tecnologia benemerita (motori che vanno ad alcool vegetale) abbia messo in competizione gli esseri umani, consumatori di graminacee, con i SUV, amanti della canna da zucchero, con effetti dirompenti sui prezzi del pane. Anche qui, non c'è uno scienziato pazzo da mettere al rogo, ma solo la tanto lodata "mano invisibile del mercato"che sposta i capitali (e la terra, e il regno vegetale) verso le destinazioni che maggiormente lo retribuiscono.
Lo scienziato pazzo, dunque, ha poco a che vedere con presente e futuro, ma ha tanto a che vedere col passato del nostro immaginario occidentale. Mi piacerebbe essere più colto e fare una storia di questa figura, ma, più modestamente, mi accontenterò di riportare poche suggestioni estemporanee. Lo scienziato pazzo è vicino ai maghi e agli stregoni, più dalle parti di Lucio Apuleio che di Redi e Pasteur. Il timore che in questa figura si esprime è il timore che si ha per i possessori di una sapienza occulta: strano destino per la scienza moderna, che fa della universale comunicabilità e apertura uno dei propri pilastri. Lo scienziato pazzo assomiglia quindi al rabbino espertissimo della Kabbala e alcuni film sugli scienziati pazzi -quelli di serie B specialmente- assomigliano strutturalmente alla propaganda antigiudaica del tempo andato.C'è anche, in questi film, una lontana eco del timore di ciò che separa la vita dalla morte, che qui viene espressa in formato moderno (mentre i vampiri, le case maledette, gli zombi e i fantasmi l'esprimono nella tradizionale versione magica).
Questo è un blog sul cinema, ma non è un blog di critica cinematografica. E' il cinema visto da spettatori che nei film che amano sono entrati a piè pari perché quei film, in quei giorni particolari in cui li hanno visti per la prima volta, hanno detto loro qualcosa che volevano sentirsi dire, magari senza saperlo. Non sono più film, sono amici, per questo non si stancano di rivederli, proprio come si fa con gli amici veri - e con le amiche, ça va sans dire.
lunedì 31 dicembre 2007
domenica 30 dicembre 2007
Gli animali nel cinema: la scimmia
Roby
Jessica Lange in King Kong (1976)
Non ricordo quale attore ebbe a dire che i ruoli più difficili interpretati nella sua carriera erano stati sicuramente quelli al fianco di bambini o di animali: gli uni e gli altri, in effetti, rubano invariabilmente la scena ai protagonisti (adulti e/o umani che siano), strappando al pubblico lacrime, risate e applausi, a scapito di chi ha il nome scritto più grande in cartellone. Uno fra gli animali più "usati" nelle produzioni cinematografiche è senza dubbio la scimmia (Cheeta docet): la quale, guarda caso, è anche quella che meno mi sta simpatica (Cheeta a parte) se proiettata sullo schermo.
Ronald Reagan in Bonzo la scimmia sapiente (1951)
Non so bene perchè: forse -anzi, certamente- per il suo aspetto pericolosamente antropomorfo, cosicchè vederla spupazzata come un neonato o rimproverata come un ragazzino ribelle mi provoca un sottile fastidio, un malcelato disgusto, insomma un imbarazzo latente... per cui, alla fine, cambio canale -davanti alla TV- o evito di scegliere quella pellicola al cinema. Gli esempi di performances scimmiesche sono quasi infiniti, e le foto corredate di titoli che qui inserisco ne sono solo un pallido esempio. Nei film cosiddetti "per famiglie", le gags fra giovani scimpanzè opportunamente ammaestrati e giovani esseri umani (non altrettanto educati) sono spesso un classico, e gli addestratori devono fare miracoli per evitare che il primate di turno risulti più espressivo e sensibile del piccolo attore che gli fa da spalla.
Andiamo già meglio, almeno secondo il mio punto di vista, quando si tratta di film come Gorilla nella nebbia, dove i gorilla sono allo stato brado, e come tali vengono trattati dalla splendida Weaver / Fossey, che in loro trova degli ottimi co-protagonisti in carne, banane e ossa. Qui l'animale è immerso nel suo ambiente naturale, non fa i capricci come un bimbo viziato e neppure le smorfie per far ridere il pubblico: e quando un bracconiere uccide selvaggiamente il capo-branco, viene spontaneo considerarlo un vero e proprio assassino, da perseguire legalmente alla stregua di un comune killer.
Sigourney Weaver in Gorilla nella nebbia ( 1988 )
Tuttavia, la migliore rappresentazione cinematografica della specie, pur se attraverso attori accuratamente truccati, rimane per me la serie del Pianeta delle scimmie, dal primo episodio (alla fine degli anni '60) al remake miliardario del 2001. Probabilmente ho apprezzato la storia -e vi raccomando caldamente anche il romanzo di Pierre Boulle da cui è tratta- perchè stavolta sono i primati a far fare la figura dei cretini agli uomini, riducendoli a giocattoli o a cavie per esperimenti. Una bella rivincita, per oranghi e babbuini, vedere l'attrice mascherata da bertuccia sottrarsi all'abbraccio di Charlton Heston protestando, vergognosa: "Non posso baciarti... sei così brutto!!!"
Il pianeta delle scimmie (1968)
Il mio eroe, in questo senso, resta il gigantesco scimmione dei vari King Kong succedutisi dagli anni '30 a ieri l'altro. Inutile nascondervi, a questo punto, che io tengo per lui dall'inizio alla fine del film, e che spero sempre -neanche troppo segretamente- che si decida una buona volta a stritolarla, quella biondina insipida che tiene delicatamente sul palmo della smisurata manona. So benissimo che nel finale farà un brutto capitombolo, che si tratti dell'Empire State Building, o del World Trade Center, o di qualsiasi altro elemento urbano sopraelevato e quindi assimilabile agli alberi altissimi della sua foresta: ma fino in fondo m'illudo, e fino all'ultima inquadratura continuo a fare il tifo, imperterrita, per il gorillone assetato di libertà e di amore, vittima predestinata dell'umana bestialità.
Jessica Lange in King Kong (1976)
Notre Dame de Paris
Notre Dame de Paris, di Jean Delannoy (1956) Dal romanzo di Victor Hugo, Sceneggiatura di Georges Aurenche, Jacques Prévert Con Gina Lollobrigida, Anthony Quinn, Alain Cuny, Jean Danet, Robert Hirsch, Danielle Dumont, Philippe Clay, Maurice Sarfati, Jean Tissier, Valentine Tessier, Jacques Hilling, Jacques Duphilo, Boris Vian Musica : Georges Auric, Angelo Francesco Lavagnino Fotografia : Michel Kelber, Costumi : Georges K. Benda (115 minuti) Rating IMDb : 6.4
Solimano
Il rapporto di Victor Hugo col cinema è decisamente vittorughiano, non se ne poteva dubitare. Solo nel 1909 uscirono undici film, fra cui quattro puntate dei Miserabili. Non ho trovato la durata, ma suppongo che ogni puntata se la sbrigasse un quarto d’ora, il cinema va veloce.
IMDb in totale riporta 134 titoli, ma se fosse in borsa sarebbe un titolo a rischio, a volte speculativo a volte dimenticato, non certo un titolo da cassettisti. C’è qualche bell’anno sabbatico, nel decorso, in cui Victor Hugo sembra scomparso (ad esempio, l’ultimo titolo è del 2003), ma tranquilli, ricomparirà e diffusamente, come certe influenze, forse più benigne che maligne, ma certo contagiosissime, che in pochi mesi invadono tutto il pianeta.
Va detto che Victor Hugo, ormai da decenni, si è dovuto accomodare spesso in TV, il che fa specie, visto come lo scrittore è ingombrante lo scatolotto lo sentirà stretto, ma non è detto che sia una brutta sorte: un buon romanzo sceneggiato in otto puntate (forse anche di più) è la fine migliore che possono fare “I miserabili”, altrimenti non vedo come si possa fare. Nei film, più che ai titoli dei romanzi si punta ai personaggi, tre su tutti: Quasimodo (quasi sempre come “Il gobbo di Notre Dame”), Rigoletto ed Esmeralda. Anche Jean Valjean, Fantina, Cosetta, ma un po’ di meno. Ogni tanto pure qualche Gavroche, forse fatto bene. Ruy Blas ed Ernani compaiono, ma in genere si tratta teatro fatto al cinema. “I lavoratori del mare” e “L’uomo che ride” sono quasi del tutto assenti, ma sono rimasto impressionato dalla mancanza di “Novantatre”, che è un romanzo, forse l’unico, che rileggerei volentieri.
Mancano i film capolavoro, ma chi può indicarne uno per Tolstoj, Dostoevskj, Goethe, Proust? Il caso di Shakespeare è anomalo, c’è sempre il discorso se si tratti di teatro o di cinema. Mentre, e non è un caso, molti ottimi film sono derivati da Dickens, Balzac, Austen, Wilde, James, Conrad. Quando ho fatto l’ultimo saccheggio alle Librerie Paoline di Milano, mi è venuto sott’occhio il “Notre Dame de Paris” di Delannoy del 1956, con una bella copertina di Esmeralda che balla davanti a Notre Dame. Sul retro ho visto che nel cast c’erano Cuny e Quinn e che alla sceneggiatura ha messo mano anche Prévert. Costava meno di dieci euro e me lo sono preso.
Dopo averlo visto -è stata la prima volta- credo di aver fatto bene a comprare il DVD, anche se ho trovato alcuni difetti. Anzitutto, l’originale del film andrebbe restaurato, perché i colori appaiono degradati, e non credo sia colpa dell’edizione: il problema, che è grave e generale, riguarda molti film a colori usciti alcuni decenni fa, non so, per quanti sforzi meritori si facciano, se sarà possibile un totale ripristino. Poi, c’è solo la lingua italiana, e questa è colpa dell’edizione. Questo film è da vedere in francese, magari con i sottotitoli in italiano, ci guadagnerebbe sicuramente e il coinvolgimento dello spettatore sarebbe maggiore.
Ma i difetti più gravi riguardano proprio il film, anche se più che di difetti si tratta del fatto che certi gusti sono molto cambiati dal 1956 ad oggi. Anzitutto, due parti sono fastidiose: quella di Pierre Gringoire (Robert Hirsch ) e di Gaston Phebus de Chateaupers (Jean Danet). Il gusto per la nominologia di Victor Hugo è sterminato, Gabriele D’Annunzio è solo uno scolaretto in confronto. I due attori sono entrambi grassocci, suvvia, non si possono dare parti da poeta o da cavaliere erotomane a due soprappeso. Già questo non li rende credibili, ma è il modo a peggiorare le cose. Perché il poeta, nel 1956, era sinonimo non di testa matta, ma di testa persa, uno che non sa vivere ed in compenso scrive andando a capo spesso. E il cavaliere Phoebus, se lo vedesse qualsiasi Duca di Mantova, anche il più afono, sorriderebbe di sprezzo. Ah, il Rigoletto! Victor Hugo è stato il trampolino, ma il capolavoro l’ha fatto Giuseppe Verdi, con l’aiuto dei versicoli disposti a tutto di Francesco Maria Piave (che però funzionano).
Il quartetto del Rigoletto resiste a tutto, è mirabile perfino nell’esecuzione di quei quattro sbandati di “Amici miei”, che lo cantano per sfottere Rambaldo Melandri, di mestiere ufficiale architetto, ma il mestiere reale è di perdersi dietro le poche donne che lo fanno soffrire, le molte che lo amerebbero non gli interessano, gente così è bene sfotterla. Prévert, che firma in parte la sceneggiatura, cerca di aiutare, con qualche battuta anarchico-romantico-realista un po’ riciclata da Les Enfants du Paradis, ma qui non funziona, perché a complicare ancora c’è la Corte dei Miracoli priva della grandezza sia pure costruita ed umorale di Victor Hugo, un felice anacronismo storico.
Però le tre grandi parti sono bene assegnate. Claude Frollo (Alain Cuny) è il meglio che ci poteva essere, con la passione amorosa che la religione e l’alchimia rendono torbida e spietata. Si sente il timore degli altri, quando passa in mezzo uno così, dal Re di Francia, al Re dei Pazzi. Meriterebbe da solo la visione del film. Ma poi c’è Quasimodo (Anthony Quinn), gobbo enorme, fortissimo e malconciato, che si aggira come uno scimmione innamorato fra le guglie della grande cattedrale, con acrobazie vertiginose (il regista si è fatto bene aiutare). Però l’innamoramento a Quasimodo fa un effetto mirabile, diviene coraggioso, delicato, cerca di fare tutto quello che può per Esmeralda (Gina Lollobrigida), fino ad abbracciarla dopo morta e morire così, abbracciato a lei. Un caso singolare: una modalità di questo genere si ritrova perfino in un successone degli anni Novanta, “Il paziente inglese”, vedete come l’inesauribilità di Victor Hugo colpisce ancora, magari pure uno probabilmente inconsapevole come Tony Minghella.
Mi soffermo su Gina Lollobrigida. Lo so, molti -e molte- non la trovano appropriata, con quell’aria da eterna Bersagliera da una parte rifatta come guardaroba, dall’altra col volto fumé perché gitana, la parte è quella. Ma sono persone cattive, quelle che non apprezzano. Anzitutto, l’assenza di mistero nello sguardo -tutti a lodar le donne misteriose- è una virtù, quella delle persone buone, e così è la Bersagliera fatta Gitana. In realtà, Gina Lollobrigida, prima dei film di Comencini, la fantasia e la gelosia, aveva fatto due film con Gérard Philipe, “Les Belles-de-nuit” e “Fanfan la Tulipe” , e fece belle parti in film tratti da Moravia, con l’altro suo ruolo: quella della moglie borghesuccia che ci tiene alla rispettabilità, però anela a salire con le armi che ha, e sappiamo quali. Parti più ingenue che perfide in cui era bravissima. Come Esmeralda qui o come Regina di Saba successivamente non sarà rapinosa, ma è assai gradevole come aspetto e movenze. Non fa danno, sa perfino ballare e cantare, ed in questo film c’è una sua esibizione di cui parlerò in un altro post. Il problema vero fu che chi le stava intorno non seppe programmare bene la sua carriera, come invece successe a Sofia Loren.
Ma vengo al regista Delannoy. Considerato che si era nel 1956, ebbe molto coraggio, aiutato in questo dagli sceneggiatori Aurenche e Prévert. Perché, con esempi che parranno incredibili, in quasi tutti gli altri gobbi o esmeralde c’è il lieto fine, perché il racconto di Hugo (pubblicato 125 anni prima!) sembrava troppo crudo. Delannoy resistette anche alle pressioni perché Frollo non fosse un prete, ma solo uno studioso un po’ fuori di testa. Non stava bene né l’alchimia né che un arcidiacono di Notre Dame combinasse tali cose. E nell’edizione inglese -gli americani protestanti erano ancor più puritani dei cattolici- Frollo non è sacerdote. Poi Delannoy ha trovato dei produttori disposti a spendere, perché la location di Notre Dame è falsa e bugiarda, è tutta roba ricostruita, da non crederci vedendo il film. Ma ricostruita così bene, non solo le guglie, i pinnacoli, le finestrature, i camminamenti in alto, ma anche e soprattutto la facciata, con le dorature ai bassorilievi che nel 1482 c’erano, così bene che certamente la metterò come luogo, falso in origine ma infine vero nella nostra immagine mentale, che è quella che conta. Viene voglia di tornare subito a Notre Dame e rivederla, a partire dalle vetrate, che appaiono con i titoli di testa.
Infine, gli animali. Eh sì! Gli asinelli, il gatto nero, ma soprattutto la capretta che è sempre in compagnia di Esmeralda e che dicono che sia un diavolo. Non ci credete, è un animale mansueto, lattifero ed intelligente: indovina perfino la carta giusta sul sagrato di Notre Dame de Paris! Toccherà fare un post anche per questo piccolo zoo, visto che Roby e Giuliano si danno da fare con la vista logica Gli animali nel cinema.
Solimano
Il rapporto di Victor Hugo col cinema è decisamente vittorughiano, non se ne poteva dubitare. Solo nel 1909 uscirono undici film, fra cui quattro puntate dei Miserabili. Non ho trovato la durata, ma suppongo che ogni puntata se la sbrigasse un quarto d’ora, il cinema va veloce.
IMDb in totale riporta 134 titoli, ma se fosse in borsa sarebbe un titolo a rischio, a volte speculativo a volte dimenticato, non certo un titolo da cassettisti. C’è qualche bell’anno sabbatico, nel decorso, in cui Victor Hugo sembra scomparso (ad esempio, l’ultimo titolo è del 2003), ma tranquilli, ricomparirà e diffusamente, come certe influenze, forse più benigne che maligne, ma certo contagiosissime, che in pochi mesi invadono tutto il pianeta.
Va detto che Victor Hugo, ormai da decenni, si è dovuto accomodare spesso in TV, il che fa specie, visto come lo scrittore è ingombrante lo scatolotto lo sentirà stretto, ma non è detto che sia una brutta sorte: un buon romanzo sceneggiato in otto puntate (forse anche di più) è la fine migliore che possono fare “I miserabili”, altrimenti non vedo come si possa fare. Nei film, più che ai titoli dei romanzi si punta ai personaggi, tre su tutti: Quasimodo (quasi sempre come “Il gobbo di Notre Dame”), Rigoletto ed Esmeralda. Anche Jean Valjean, Fantina, Cosetta, ma un po’ di meno. Ogni tanto pure qualche Gavroche, forse fatto bene. Ruy Blas ed Ernani compaiono, ma in genere si tratta teatro fatto al cinema. “I lavoratori del mare” e “L’uomo che ride” sono quasi del tutto assenti, ma sono rimasto impressionato dalla mancanza di “Novantatre”, che è un romanzo, forse l’unico, che rileggerei volentieri.
Mancano i film capolavoro, ma chi può indicarne uno per Tolstoj, Dostoevskj, Goethe, Proust? Il caso di Shakespeare è anomalo, c’è sempre il discorso se si tratti di teatro o di cinema. Mentre, e non è un caso, molti ottimi film sono derivati da Dickens, Balzac, Austen, Wilde, James, Conrad. Quando ho fatto l’ultimo saccheggio alle Librerie Paoline di Milano, mi è venuto sott’occhio il “Notre Dame de Paris” di Delannoy del 1956, con una bella copertina di Esmeralda che balla davanti a Notre Dame. Sul retro ho visto che nel cast c’erano Cuny e Quinn e che alla sceneggiatura ha messo mano anche Prévert. Costava meno di dieci euro e me lo sono preso.
Dopo averlo visto -è stata la prima volta- credo di aver fatto bene a comprare il DVD, anche se ho trovato alcuni difetti. Anzitutto, l’originale del film andrebbe restaurato, perché i colori appaiono degradati, e non credo sia colpa dell’edizione: il problema, che è grave e generale, riguarda molti film a colori usciti alcuni decenni fa, non so, per quanti sforzi meritori si facciano, se sarà possibile un totale ripristino. Poi, c’è solo la lingua italiana, e questa è colpa dell’edizione. Questo film è da vedere in francese, magari con i sottotitoli in italiano, ci guadagnerebbe sicuramente e il coinvolgimento dello spettatore sarebbe maggiore.
Ma i difetti più gravi riguardano proprio il film, anche se più che di difetti si tratta del fatto che certi gusti sono molto cambiati dal 1956 ad oggi. Anzitutto, due parti sono fastidiose: quella di Pierre Gringoire (Robert Hirsch ) e di Gaston Phebus de Chateaupers (Jean Danet). Il gusto per la nominologia di Victor Hugo è sterminato, Gabriele D’Annunzio è solo uno scolaretto in confronto. I due attori sono entrambi grassocci, suvvia, non si possono dare parti da poeta o da cavaliere erotomane a due soprappeso. Già questo non li rende credibili, ma è il modo a peggiorare le cose. Perché il poeta, nel 1956, era sinonimo non di testa matta, ma di testa persa, uno che non sa vivere ed in compenso scrive andando a capo spesso. E il cavaliere Phoebus, se lo vedesse qualsiasi Duca di Mantova, anche il più afono, sorriderebbe di sprezzo. Ah, il Rigoletto! Victor Hugo è stato il trampolino, ma il capolavoro l’ha fatto Giuseppe Verdi, con l’aiuto dei versicoli disposti a tutto di Francesco Maria Piave (che però funzionano).
Il quartetto del Rigoletto resiste a tutto, è mirabile perfino nell’esecuzione di quei quattro sbandati di “Amici miei”, che lo cantano per sfottere Rambaldo Melandri, di mestiere ufficiale architetto, ma il mestiere reale è di perdersi dietro le poche donne che lo fanno soffrire, le molte che lo amerebbero non gli interessano, gente così è bene sfotterla. Prévert, che firma in parte la sceneggiatura, cerca di aiutare, con qualche battuta anarchico-romantico-realista un po’ riciclata da Les Enfants du Paradis, ma qui non funziona, perché a complicare ancora c’è la Corte dei Miracoli priva della grandezza sia pure costruita ed umorale di Victor Hugo, un felice anacronismo storico.
Però le tre grandi parti sono bene assegnate. Claude Frollo (Alain Cuny) è il meglio che ci poteva essere, con la passione amorosa che la religione e l’alchimia rendono torbida e spietata. Si sente il timore degli altri, quando passa in mezzo uno così, dal Re di Francia, al Re dei Pazzi. Meriterebbe da solo la visione del film. Ma poi c’è Quasimodo (Anthony Quinn), gobbo enorme, fortissimo e malconciato, che si aggira come uno scimmione innamorato fra le guglie della grande cattedrale, con acrobazie vertiginose (il regista si è fatto bene aiutare). Però l’innamoramento a Quasimodo fa un effetto mirabile, diviene coraggioso, delicato, cerca di fare tutto quello che può per Esmeralda (Gina Lollobrigida), fino ad abbracciarla dopo morta e morire così, abbracciato a lei. Un caso singolare: una modalità di questo genere si ritrova perfino in un successone degli anni Novanta, “Il paziente inglese”, vedete come l’inesauribilità di Victor Hugo colpisce ancora, magari pure uno probabilmente inconsapevole come Tony Minghella.
Mi soffermo su Gina Lollobrigida. Lo so, molti -e molte- non la trovano appropriata, con quell’aria da eterna Bersagliera da una parte rifatta come guardaroba, dall’altra col volto fumé perché gitana, la parte è quella. Ma sono persone cattive, quelle che non apprezzano. Anzitutto, l’assenza di mistero nello sguardo -tutti a lodar le donne misteriose- è una virtù, quella delle persone buone, e così è la Bersagliera fatta Gitana. In realtà, Gina Lollobrigida, prima dei film di Comencini, la fantasia e la gelosia, aveva fatto due film con Gérard Philipe, “Les Belles-de-nuit” e “Fanfan la Tulipe” , e fece belle parti in film tratti da Moravia, con l’altro suo ruolo: quella della moglie borghesuccia che ci tiene alla rispettabilità, però anela a salire con le armi che ha, e sappiamo quali. Parti più ingenue che perfide in cui era bravissima. Come Esmeralda qui o come Regina di Saba successivamente non sarà rapinosa, ma è assai gradevole come aspetto e movenze. Non fa danno, sa perfino ballare e cantare, ed in questo film c’è una sua esibizione di cui parlerò in un altro post. Il problema vero fu che chi le stava intorno non seppe programmare bene la sua carriera, come invece successe a Sofia Loren.
Ma vengo al regista Delannoy. Considerato che si era nel 1956, ebbe molto coraggio, aiutato in questo dagli sceneggiatori Aurenche e Prévert. Perché, con esempi che parranno incredibili, in quasi tutti gli altri gobbi o esmeralde c’è il lieto fine, perché il racconto di Hugo (pubblicato 125 anni prima!) sembrava troppo crudo. Delannoy resistette anche alle pressioni perché Frollo non fosse un prete, ma solo uno studioso un po’ fuori di testa. Non stava bene né l’alchimia né che un arcidiacono di Notre Dame combinasse tali cose. E nell’edizione inglese -gli americani protestanti erano ancor più puritani dei cattolici- Frollo non è sacerdote. Poi Delannoy ha trovato dei produttori disposti a spendere, perché la location di Notre Dame è falsa e bugiarda, è tutta roba ricostruita, da non crederci vedendo il film. Ma ricostruita così bene, non solo le guglie, i pinnacoli, le finestrature, i camminamenti in alto, ma anche e soprattutto la facciata, con le dorature ai bassorilievi che nel 1482 c’erano, così bene che certamente la metterò come luogo, falso in origine ma infine vero nella nostra immagine mentale, che è quella che conta. Viene voglia di tornare subito a Notre Dame e rivederla, a partire dalle vetrate, che appaiono con i titoli di testa.
Infine, gli animali. Eh sì! Gli asinelli, il gatto nero, ma soprattutto la capretta che è sempre in compagnia di Esmeralda e che dicono che sia un diavolo. Non ci credete, è un animale mansueto, lattifero ed intelligente: indovina perfino la carta giusta sul sagrato di Notre Dame de Paris! Toccherà fare un post anche per questo piccolo zoo, visto che Roby e Giuliano si danno da fare con la vista logica Gli animali nel cinema.
sabato 29 dicembre 2007
I triangoli nel cinema: La mandragola
La mandragola, di Alberto Lattuada (1965) Dalla commedia di Niccolò Machiavelli, Sceneggiatura di Alberto Lattuada, Luigi Magni, Stefano Strucchi Con Rosanna Schiaffino, Philippe Leroy, Jean-Claude Brialy, Totò, Romolo Valli, Nilla Pizzi, Armando Bandini, Pia Fioretti, Jacques Herlin, Donato Castellaneta, Ugo Attanasio Musica: Gino Marinuzzi Jr. Fotografia: Tonino Delli Colli (103 minuti) Rating IMDb: 6.8
Solimano
Solimano
La storia, che nel film si svolge a Firenze nell'anno 1500, è di come Callimaco (Philippe Leroy) riesce a fare l'amore con Lucrezia (Rosanna Schiaffino) malgrado la ritrosia iniziale della donna, che è molto religiosa, e malgrado che il marito di Lucrezia, il ricco notaio Nicia (Romolo Valli) la custodisca con cura. Callimaco viene aiutato da Sostrata (Nilla Pizzi), la madre di Lucrezia e da Ligurio (Jean-Claude Brialy), un parassita di Nicia che per denaro fa il ruffiano di Callimaco. Il contributo determinante lo dà, sempre per denaro, Fra' Timoteo (Totò), che trova argomentazioni religiose per ottenere che Lucrezia accetti. Il cavallo di Troia del successo di Callimaco è nel fatto che Nicia e Lucrezia non hanno figli dopo quattro anni di matrimonio: si fa credere a Nicia che basta che Lucrezia beva un infuso della radice dell'eba mandragola per risolvere il problema.
Va però considerato che il primo uomo che farà l'amore con Lucrezia morirà nel giro di qualche giorno, quindi occorre catturare un balordo che giri di notte per Firenze. Il balordo sarà Callimaco sotto mentite spoglie. Il lieto fine è generale: Ligurio e Fra' Timoteo hanno incassato dei bei soldi (fiorini, credo, anche se nel film si parla di ducati), Callimaco ha appagato il suo desiderio, Sostrata, se Lucrezia diventa madre, avrà il futuro assicurato anche quando non ci sarà più Nicia, che è anziano. Nicia poi trasuda gioia da tutti i pori, si vede già nella parte di padre felice. Ma la più contenta è Lucrezia, che pure inizialmente ha fatto resistenza: Callimaco le è piaciuto e prevede di continuare felicemente con lui anche in futuro. Così, verso la fine della commedia di Niccolò Machiavelli Callimaco racconta a Ligurio le parole che gli ha detto Lucrezia:
"Poiché l'astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia del mio confessoro mi hanno condutto a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare che venga da una celeste disposizione, che abbi voluto così, e non sono sufficiente a recusare quello che 'l Cielo vuole che io accetti. Però, io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene; e quel che 'l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch'egli abbia sempre. Fara'ti adunque suo compare, e verrai questa mattina alla chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi; e l'andare e lo stare starà a te, e potremo ad ogni ora e sanza sospetto convenire insieme".
A me l'atteggiamento che alla fine assume Lucrezia fa venire in mente una delle più belle e meno lette novelle del Boccaccio, -la novella decima della giornata seconda- quella in cui Paganino di Monaco, famoso corsale, ruba la moglie Bartolomea a Riccardo di Chinzica che finalmente la ritrova e le chiede di tornare con lui. Così gli risponde Bartolomea:
"Sonmi abbattuta a costui che ha voluto Iddio, sì come pietoso ragguardatore della mia giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella qual non si sa che cosa festa sia (dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a'servigi delle donne, cotante celebravate), né mai dentro a quello uscio entrò né sabato né venerdì né vigilia né quattro tempora né quaresima, ch'è così lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e battecisi la lana; e poi che questa notte sonò mattutino, so bene come il fatto andò da una volta in su. E però con lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane; e le feste e le perdonanze e i digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi colla buona ventura sì ve n'andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste quante vi piace".
Penso che nei licei una novella del genere non entri, ma potrei sbagliarmi. Di Giovanni Boccaccio non si parla quasi mai e poco lo si legge: è diventato l'etimologia di un aggettivo, boccaccesco, usato generalmente in modo del tutto improprio. Uno scrittore che da solo costituirebbe la gloria di una letteratura.
Va però considerato che il primo uomo che farà l'amore con Lucrezia morirà nel giro di qualche giorno, quindi occorre catturare un balordo che giri di notte per Firenze. Il balordo sarà Callimaco sotto mentite spoglie. Il lieto fine è generale: Ligurio e Fra' Timoteo hanno incassato dei bei soldi (fiorini, credo, anche se nel film si parla di ducati), Callimaco ha appagato il suo desiderio, Sostrata, se Lucrezia diventa madre, avrà il futuro assicurato anche quando non ci sarà più Nicia, che è anziano. Nicia poi trasuda gioia da tutti i pori, si vede già nella parte di padre felice. Ma la più contenta è Lucrezia, che pure inizialmente ha fatto resistenza: Callimaco le è piaciuto e prevede di continuare felicemente con lui anche in futuro. Così, verso la fine della commedia di Niccolò Machiavelli Callimaco racconta a Ligurio le parole che gli ha detto Lucrezia:
"Poiché l'astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia del mio confessoro mi hanno condutto a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare che venga da una celeste disposizione, che abbi voluto così, e non sono sufficiente a recusare quello che 'l Cielo vuole che io accetti. Però, io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene; e quel che 'l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch'egli abbia sempre. Fara'ti adunque suo compare, e verrai questa mattina alla chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi; e l'andare e lo stare starà a te, e potremo ad ogni ora e sanza sospetto convenire insieme".
A me l'atteggiamento che alla fine assume Lucrezia fa venire in mente una delle più belle e meno lette novelle del Boccaccio, -la novella decima della giornata seconda- quella in cui Paganino di Monaco, famoso corsale, ruba la moglie Bartolomea a Riccardo di Chinzica che finalmente la ritrova e le chiede di tornare con lui. Così gli risponde Bartolomea:
"Sonmi abbattuta a costui che ha voluto Iddio, sì come pietoso ragguardatore della mia giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella qual non si sa che cosa festa sia (dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a'servigi delle donne, cotante celebravate), né mai dentro a quello uscio entrò né sabato né venerdì né vigilia né quattro tempora né quaresima, ch'è così lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e battecisi la lana; e poi che questa notte sonò mattutino, so bene come il fatto andò da una volta in su. E però con lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane; e le feste e le perdonanze e i digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi colla buona ventura sì ve n'andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste quante vi piace".
Penso che nei licei una novella del genere non entri, ma potrei sbagliarmi. Di Giovanni Boccaccio non si parla quasi mai e poco lo si legge: è diventato l'etimologia di un aggettivo, boccaccesco, usato generalmente in modo del tutto improprio. Uno scrittore che da solo costituirebbe la gloria di una letteratura.
Ne "La mandragola" del Machiavelli il personaggio di Lucrezia non è mai in scena, salvo quando Fra' Timoteo argomenta per convincerla. Però se ne parla spesso, perché è l'unico ostacolo ad un piano che fa contenti tutti. I personaggi di Nicia, Ligurio e Callimaco sono piuttosto usuali, mentre per Fra' Timoteo il discorso è diverso. Riporto alcune delle parole che dice a Lucrezia:
"Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità, che, dove è un bene certo ed un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a messer Domenedio; el male incerto è che colui che iacerà, dopo la pozione, con voi, si muoia; ma e' si truova anche di quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel periculo. Quanto allo atto, che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltra di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose; el fine vostro si è riempire una sedia in paradiso, contentare el marito vostro. Dice la Bibia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usorono con el padre; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorono".
E' un personaggio inconsueto, e sono sorprendenti le parole che dice in un soliloquio durante la notte ruffiana che provocherà la soddisfazione generale:
"Io non ho potuto questa notte chiudere occhio, tanto è el desiderio, che io ho d'intendere come Callimaco e gli altri l'abbino fatta. Ed ho atteso a consumare el tempo in varie cose: io dissi mattutino, lessi una vita de' Santi Padri, andai in chiesa ed accesi una lampana che era spenta, mutai un velo ad una Nostra Donna, che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tenghino pulita! E si maravigliano poi se la divozione manca! Io mi ricordo esservi cinquecento immagine, e non ve ne sono oggi venti: questo nasce da noi, che non le abbiàno saputa mantenere la reputazione. Noi vi solavamo ogni sera doppo la compieta andare a procissione, e farvi cantare ogni sabato le laude. (...)
Ora non si fa nulla di queste cose, e poi ci maravigliamo se le cose vanno fredde! Oh, quanto poco cervello è in questi mia frati! Ma io sento un grande romore da casa messer Nicia. Eccogli, per mia fé! E' cavono fuora el prigione. Io sarò giunto a tempo. Ben si sono indugiati alla sgocciolatura, e' si fa appunto l'alba. Io voglio stare ad udire quel che dicono sanza scoprirmi".
Fra' Timoteo, coinvolto del tutto nella losca trama, riesce anche a preoccuparsi perché i frati e le chiese non sono più quelle di una volta. Continua a fare il tifo per la squadra in cui è cresciuto. E' il personaggio più geniale della commedia del Machiavelli e qui, nel film di Lattuada è servito magnificamente da un Totò che fa il sordido commosso, ottenendo la credibilità degli sciocchi, che sono sempre la maggioranza. Nella commedia, si dà addirittura da fare per procurare aborti. Il Macchiavelli ha trasfuso in Fra' Timoteo tutta la lucida acredine che aveva contro la religione e la chiesa, da tutti i punti di vista.
Ma prima di lodare il film dico quello che per me è il difetto di fondo: non è una colpa di Lattuada, magari fosse così. E' che a fare film sulla nostra storia e civiltà è da sempre una gara dura in Italia, perché c'è il problema del pubblico più mancante che pagante. Non parlo dell'aspetto erotico, che in Lattuada è sempre elegante ed assai vivace, fin dal film che fece con Fellini, "Luci del varietà" che purtroppo non riesco a trovare. Ma dal punto di vista dialoghi, moine, mossette, piccole volgarità però di tipo proprio volgare. E' una tassa da pagare, e dispiace vedere e sentire certi dialoghi con attori come Romolo Valli (straordinario anche qui) e Jean-Claude Brialy, che certamente piace benché faccia il ruffiano. Si divertono molto, forse troppo, e la facilità stanca. Una sorpresa è Nilla Pizzi nella parte della madre di Lucrezia, una parte da donna semplice, ma un po' furba e gaglioffa. Mentre è colpa mia, lo ammetto, ma quando vedo Philippe Leroy vorrei sempre che facesse Janez, l'amico di Sandokan Kabir Bedi. Rimane Rosanna Schiaffino. Lo so, non è che abbia molte espressioni diverse, ma quelle poche che ha bastano al sesso maschile. Qui ci si aggiungono i costumi, la fotografia, la parrucchiera ignota che meriterebbe un monumento e soprattutto l'occhio avido ed elegante di Lattuada, in grado di trarre da certe attrici aspetti che normalmente non ci sono. Come Lattuada ci si nasce, è inutile lodarlo o criticarlo, è fatto così.
"Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità, che, dove è un bene certo ed un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a messer Domenedio; el male incerto è che colui che iacerà, dopo la pozione, con voi, si muoia; ma e' si truova anche di quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel periculo. Quanto allo atto, che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltra di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose; el fine vostro si è riempire una sedia in paradiso, contentare el marito vostro. Dice la Bibia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usorono con el padre; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorono".
E' un personaggio inconsueto, e sono sorprendenti le parole che dice in un soliloquio durante la notte ruffiana che provocherà la soddisfazione generale:
"Io non ho potuto questa notte chiudere occhio, tanto è el desiderio, che io ho d'intendere come Callimaco e gli altri l'abbino fatta. Ed ho atteso a consumare el tempo in varie cose: io dissi mattutino, lessi una vita de' Santi Padri, andai in chiesa ed accesi una lampana che era spenta, mutai un velo ad una Nostra Donna, che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tenghino pulita! E si maravigliano poi se la divozione manca! Io mi ricordo esservi cinquecento immagine, e non ve ne sono oggi venti: questo nasce da noi, che non le abbiàno saputa mantenere la reputazione. Noi vi solavamo ogni sera doppo la compieta andare a procissione, e farvi cantare ogni sabato le laude. (...)
Ora non si fa nulla di queste cose, e poi ci maravigliamo se le cose vanno fredde! Oh, quanto poco cervello è in questi mia frati! Ma io sento un grande romore da casa messer Nicia. Eccogli, per mia fé! E' cavono fuora el prigione. Io sarò giunto a tempo. Ben si sono indugiati alla sgocciolatura, e' si fa appunto l'alba. Io voglio stare ad udire quel che dicono sanza scoprirmi".
Fra' Timoteo, coinvolto del tutto nella losca trama, riesce anche a preoccuparsi perché i frati e le chiese non sono più quelle di una volta. Continua a fare il tifo per la squadra in cui è cresciuto. E' il personaggio più geniale della commedia del Machiavelli e qui, nel film di Lattuada è servito magnificamente da un Totò che fa il sordido commosso, ottenendo la credibilità degli sciocchi, che sono sempre la maggioranza. Nella commedia, si dà addirittura da fare per procurare aborti. Il Macchiavelli ha trasfuso in Fra' Timoteo tutta la lucida acredine che aveva contro la religione e la chiesa, da tutti i punti di vista.
Ma prima di lodare il film dico quello che per me è il difetto di fondo: non è una colpa di Lattuada, magari fosse così. E' che a fare film sulla nostra storia e civiltà è da sempre una gara dura in Italia, perché c'è il problema del pubblico più mancante che pagante. Non parlo dell'aspetto erotico, che in Lattuada è sempre elegante ed assai vivace, fin dal film che fece con Fellini, "Luci del varietà" che purtroppo non riesco a trovare. Ma dal punto di vista dialoghi, moine, mossette, piccole volgarità però di tipo proprio volgare. E' una tassa da pagare, e dispiace vedere e sentire certi dialoghi con attori come Romolo Valli (straordinario anche qui) e Jean-Claude Brialy, che certamente piace benché faccia il ruffiano. Si divertono molto, forse troppo, e la facilità stanca. Una sorpresa è Nilla Pizzi nella parte della madre di Lucrezia, una parte da donna semplice, ma un po' furba e gaglioffa. Mentre è colpa mia, lo ammetto, ma quando vedo Philippe Leroy vorrei sempre che facesse Janez, l'amico di Sandokan Kabir Bedi. Rimane Rosanna Schiaffino. Lo so, non è che abbia molte espressioni diverse, ma quelle poche che ha bastano al sesso maschile. Qui ci si aggiungono i costumi, la fotografia, la parrucchiera ignota che meriterebbe un monumento e soprattutto l'occhio avido ed elegante di Lattuada, in grado di trarre da certe attrici aspetti che normalmente non ci sono. Come Lattuada ci si nasce, è inutile lodarlo o criticarlo, è fatto così.
giovedì 27 dicembre 2007
La mia notte con Maud
Ma nuit chez Maud, di Eric Rohmer (1969) Con Jean-Louis Trintignant, Françoise Fabian, Marie-Christine Barrault, Antoine Vitez, Leonide Kogan, Marie Becker, Marie-Claude Rauzier, Guy Léger Musica : Ludwig Van Beethoven Fotografia: Nestor Almendros (110 minuti) Rating IMDb: 8.0
Solimano
Noi rohmeriani siamo tutto sommato pochi, ma convintissimi. Al tempo stesso quindi siamo fieri della nostra pochezza e rompiamo le scatole al restante -e maggioritario- universo mondo che rohmeriano non è. Proviamo a convertirli, però sappiamo che è difficile riuscirci; sono convinto che questa difficoltà nasca soprattutto non dalla difficoltà dei film di Rohmer, ma dalla loro apparente facilità, che porta fuori strada gli infedeli di cui vogliamo salvare anime e corpi.
Il mio migliore amico -amico di fatti, non di parole- al mio ennesimo sollecito si rassegnò a guardarsi “L’ami de mon amie”, poi mi disse che gli era abbastanza piaciuto perché l’aveva trovato una soap opera però girata con più cura di Beautiful. Il bello è che il mio amico aveva a suo modo ragione, perché “L’ami de mon amie” è anche una soap opera, è una delle possibili chiavi di lettura.
Se si praticasse ancora il vecchio e bieco gioco di che cosa portarsi dietro in un isola deserta, come film non avrei dubbi: “Ma nuit chez Maud”. Non racconto la trama, perché spero sempre nella conversione di qualche infedele, o almeno di trasformarlo in catecumeno, preferisco mettere qui alcune delle singolarità del film, che fu quello che impose Rohmer, dopo il successo limitato a pochi intimi de “La collectioneuse” che è di due anni prima e che ho già inserito nel blog sia come film sia come post (due volte) nella vista logica La moda nel cinema.
Dei quattro protagonisti, il narratore (Jean-Louis Trintignant) è ingegnere, Maud (Françoise Fabian) è medico, Françoise (Marie-Christine Barrault) è biologa, Vidal (Antoine Vitez) insegna filosofia all’università. Se si tirano le somme alla fine del film, quello che ne esce peggio è proprio il letterato Vidal, vedi caso letterato come Rohmer, che nasce professore di lettere, poi autore di documentari culturali per la TV, poi capo-redattore dei “Cahiers du cinema”. A cinquant’anni, con un background di quel tipo, si mise a fare film.
Fra gli attori c’è anche Leonide Kogan. E’ proprio il famoso violinista, che non dice una parola, ma che esegue in teatro un tempo di una sonata giovanile di Beethoven per violino e pianoforte. Non ho trovato in rete il numero della sonata (anche IMDb non lo riporta), ma credo si tratti di uno dei tempi della sonata numero 5, detta “La primavera” (non il primo tempo, quello che tutti conoscono). Nel film c’è solo questa musica, eseguita non in sottofondo ma come parte del film.
La località è ben precisa, come quasi sempre in Rohmer. Si tratta in questo caso di Clermont- Ferrand. I motivi certi sono due: il narratore lavora alla Michelin, che ha (o aveva?) la sede più importante a Clermont-Ferrand, poi c’è Blaise Pascal, che era di questa città. La famosa scommessa pascaliana viene dibattuta nelle conversazioni del film e si discute anche del suo atteggiamento verso la matematica. Il narratore, che è cattolico, è contro Pascal ed i giansenisti, Vidal che è filosofo e marxista, è a favore, Maud, che appartiene ad una famiglia storicamente massone, disinteressata. A mio avviso ci sono altri due motivi per la scelta di Clermont-Ferrand: il primo è il paesaggio più vulcanico che montuoso, il secondo è la neve, e il conseguente ghiaccio per le strade, che è pronubo alla notte con Maud.
Ho il sospetto che Guy Léger, l’attore che fa la predica in chiesa, fosse un vero prete, di quelli che le cose le sanno. In IMDb, prima del nome e cognome, figura un R.P. che mi insospettisce. La predica si tiene nella cattedrale di Clermont-Ferrand.
La sceneggiatura, che è dello stesso Rohmer è di ferro, la differenza con “La collectioneuse” non potrebbe essere più grande. Là Rohmer fornisce le situazioni, che i tre attori sviluppano come gli viene, qui tutto è evidentemente deciso prima. Si potrebbe credere che sia così perché qui il discorso è alto e culturalmente impegnativo, ma c’è anche un altro motivo: qui Rohmer usa attori professionisti, attese due anni pur di avere Trintignant, una scelta felicissima. I professionisti è meglio imbrigliarli, a differenza degli attori agli inizi de “La collectioneuse”.
Le due scene chiave degli amori del narratore con Maud e con Françoise si svolgono entrambe in alto e all’aperto, in mezzo alla neve che sta fioccando. Sotto c’è la città, con le due grandi torri della cattedrale. E’ inverno, nei giorni attorno al Natale.
La scena risolutiva finale, quella in cui si scioglie il nodo sotteso per tutto il film, che ha anche una componente di giallo psicologico, si svolge invece al mare d’estate, cinque anni dopo gli accadimenti del film. Quando si rivedrà il film apparirà chiaro che tutto era già stato fatto capire e che quei cinque minuti non servivano a spiegare, fatto sta che la prima volta non me ne sono accorto. Lo scioglimento positivo è legato ad una menzogna che il narratore decide moralmente di dire.
Uno dei vezzi di Rohmer è di mettere due personaggi femminili in competizione, una bionda ed una mora. Generalmente prevale la bionda, ma non sempre.
Il film era molto difficile, perché nella trama, di per sé ci sarebbe qualcosa di ridicolo, per i nostri occhi laici. Rohmer riesce a tenere il punto, complice Trintignant alle prese con un personaggio semplice e complicato: cattolico convinto, seduttivo proprio in quanto tale.
Marie-Christine Barrault, la nipote del grande Barrault, il mimo de “Les Enfants du Paradis”, diversi anni dopo sposò Roger Vadim, che non ricordo a che punto fosse coi matrimoni, al quarto o al quinto. Il mio dispiacere fu grande, la Françoise di “Ma nuit chez Maud” non doveva farmi questo. Mi sembra di capire però che abbia reso felici gli ultimi anni di vita del turbolento Vadim, e questa è una buona cosa a cui poteva riuscire solo una come Françoise.
A parte le considerazioni che ho fatto, “Ma nuit chez Maud” è un grande film d’amore. Non l’amore carino, sognante, impermanente, in punta di piedi. L’amore vero, che ogni tanto, guarda un po’, si permette il lusso di esistere. Questo è il primo motivo per cui non mi stanco di rivederlo.
Solimano
Noi rohmeriani siamo tutto sommato pochi, ma convintissimi. Al tempo stesso quindi siamo fieri della nostra pochezza e rompiamo le scatole al restante -e maggioritario- universo mondo che rohmeriano non è. Proviamo a convertirli, però sappiamo che è difficile riuscirci; sono convinto che questa difficoltà nasca soprattutto non dalla difficoltà dei film di Rohmer, ma dalla loro apparente facilità, che porta fuori strada gli infedeli di cui vogliamo salvare anime e corpi.
Il mio migliore amico -amico di fatti, non di parole- al mio ennesimo sollecito si rassegnò a guardarsi “L’ami de mon amie”, poi mi disse che gli era abbastanza piaciuto perché l’aveva trovato una soap opera però girata con più cura di Beautiful. Il bello è che il mio amico aveva a suo modo ragione, perché “L’ami de mon amie” è anche una soap opera, è una delle possibili chiavi di lettura.
Se si praticasse ancora il vecchio e bieco gioco di che cosa portarsi dietro in un isola deserta, come film non avrei dubbi: “Ma nuit chez Maud”. Non racconto la trama, perché spero sempre nella conversione di qualche infedele, o almeno di trasformarlo in catecumeno, preferisco mettere qui alcune delle singolarità del film, che fu quello che impose Rohmer, dopo il successo limitato a pochi intimi de “La collectioneuse” che è di due anni prima e che ho già inserito nel blog sia come film sia come post (due volte) nella vista logica La moda nel cinema.
Dei quattro protagonisti, il narratore (Jean-Louis Trintignant) è ingegnere, Maud (Françoise Fabian) è medico, Françoise (Marie-Christine Barrault) è biologa, Vidal (Antoine Vitez) insegna filosofia all’università. Se si tirano le somme alla fine del film, quello che ne esce peggio è proprio il letterato Vidal, vedi caso letterato come Rohmer, che nasce professore di lettere, poi autore di documentari culturali per la TV, poi capo-redattore dei “Cahiers du cinema”. A cinquant’anni, con un background di quel tipo, si mise a fare film.
Fra gli attori c’è anche Leonide Kogan. E’ proprio il famoso violinista, che non dice una parola, ma che esegue in teatro un tempo di una sonata giovanile di Beethoven per violino e pianoforte. Non ho trovato in rete il numero della sonata (anche IMDb non lo riporta), ma credo si tratti di uno dei tempi della sonata numero 5, detta “La primavera” (non il primo tempo, quello che tutti conoscono). Nel film c’è solo questa musica, eseguita non in sottofondo ma come parte del film.
La località è ben precisa, come quasi sempre in Rohmer. Si tratta in questo caso di Clermont- Ferrand. I motivi certi sono due: il narratore lavora alla Michelin, che ha (o aveva?) la sede più importante a Clermont-Ferrand, poi c’è Blaise Pascal, che era di questa città. La famosa scommessa pascaliana viene dibattuta nelle conversazioni del film e si discute anche del suo atteggiamento verso la matematica. Il narratore, che è cattolico, è contro Pascal ed i giansenisti, Vidal che è filosofo e marxista, è a favore, Maud, che appartiene ad una famiglia storicamente massone, disinteressata. A mio avviso ci sono altri due motivi per la scelta di Clermont-Ferrand: il primo è il paesaggio più vulcanico che montuoso, il secondo è la neve, e il conseguente ghiaccio per le strade, che è pronubo alla notte con Maud.
Ho il sospetto che Guy Léger, l’attore che fa la predica in chiesa, fosse un vero prete, di quelli che le cose le sanno. In IMDb, prima del nome e cognome, figura un R.P. che mi insospettisce. La predica si tiene nella cattedrale di Clermont-Ferrand.
La sceneggiatura, che è dello stesso Rohmer è di ferro, la differenza con “La collectioneuse” non potrebbe essere più grande. Là Rohmer fornisce le situazioni, che i tre attori sviluppano come gli viene, qui tutto è evidentemente deciso prima. Si potrebbe credere che sia così perché qui il discorso è alto e culturalmente impegnativo, ma c’è anche un altro motivo: qui Rohmer usa attori professionisti, attese due anni pur di avere Trintignant, una scelta felicissima. I professionisti è meglio imbrigliarli, a differenza degli attori agli inizi de “La collectioneuse”.
Le due scene chiave degli amori del narratore con Maud e con Françoise si svolgono entrambe in alto e all’aperto, in mezzo alla neve che sta fioccando. Sotto c’è la città, con le due grandi torri della cattedrale. E’ inverno, nei giorni attorno al Natale.
La scena risolutiva finale, quella in cui si scioglie il nodo sotteso per tutto il film, che ha anche una componente di giallo psicologico, si svolge invece al mare d’estate, cinque anni dopo gli accadimenti del film. Quando si rivedrà il film apparirà chiaro che tutto era già stato fatto capire e che quei cinque minuti non servivano a spiegare, fatto sta che la prima volta non me ne sono accorto. Lo scioglimento positivo è legato ad una menzogna che il narratore decide moralmente di dire.
Uno dei vezzi di Rohmer è di mettere due personaggi femminili in competizione, una bionda ed una mora. Generalmente prevale la bionda, ma non sempre.
Il film era molto difficile, perché nella trama, di per sé ci sarebbe qualcosa di ridicolo, per i nostri occhi laici. Rohmer riesce a tenere il punto, complice Trintignant alle prese con un personaggio semplice e complicato: cattolico convinto, seduttivo proprio in quanto tale.
Marie-Christine Barrault, la nipote del grande Barrault, il mimo de “Les Enfants du Paradis”, diversi anni dopo sposò Roger Vadim, che non ricordo a che punto fosse coi matrimoni, al quarto o al quinto. Il mio dispiacere fu grande, la Françoise di “Ma nuit chez Maud” non doveva farmi questo. Mi sembra di capire però che abbia reso felici gli ultimi anni di vita del turbolento Vadim, e questa è una buona cosa a cui poteva riuscire solo una come Françoise.
A parte le considerazioni che ho fatto, “Ma nuit chez Maud” è un grande film d’amore. Non l’amore carino, sognante, impermanente, in punta di piedi. L’amore vero, che ogni tanto, guarda un po’, si permette il lusso di esistere. Questo è il primo motivo per cui non mi stanco di rivederlo.
La ragazza del lago
La ragazza del lago, di Andrea Molaioli (2007) Sceneggiatura di Sandro Petraglia e Andrea Molaioli Con Toni Servillo, Omero Antonutti, Marco Baliani, Anna Bonaiuto, Heidi Caldart, Enrico Cavallero, Sara D'Amario, Denis Fasolo, Fabrizio Gifuni, Valeria Golino, Daniele Griggio, Nello Mascia, Giulia Michelini, Nicole Perrone, Alessia Piovan, Franco Ravera, Fausto Maria Sciarappa Musica: Teho Teardo Fotografia: Ramiro Civita (95 minuti) Rating IMDb: 7.2
Laura
Finito di vedere questo film, la mia memoria ha riportato a galla un particolare periodo della mia giovinezza che avevo messo via. Quello legato alle scuole medie e a Cristiano. Cristiano, noi lo conoscevamo bene. Le nostre famiglie si frequentavano ed io e le mie sorelle, mentre i grandi parlavano in salotto, finivamo spesso a giocare con lui e suo fratello minore Carlo a Monopoli, in quella loro stanza coi copriletti rossi e i manifesti dei calciatori appesi alle pareti, la radio a tutto volume, le lattine di aranciata e gli involucri di Mars ovunque. Era inverno spaccato, lo ricordo bene, Cristiano era allenatissimo e aveva una fortuna sfacciata. Finiva sempre per maneggiare Parco della Vittoria e Viale dei Giardini. Sfotteva noi ragazze alle prese con la Società Elettrica e le Stazioni. E Carlo, a cui capitavano sempre i Vicoli. Ci sfotteva, ma in modo simpatico. Cristiano ci faceva ammazzare dalle risate.
Poi, un giorno qualunque, all'uscita dalla scuola, il pullman ha fatto retromarcia e lo ha steso. Il conducente non lo aveva visto, Cristiano era sbucato all'improvviso. Era distratto, stava ridendo insieme agli amici. Paralizzato, operato quattro volte da ottimi specialisti, con un esaurimento nervoso al confine col delirio quotidiano, Cristiano era diventato l'incubo della sua famiglia. Li stava isolando dalla realtà portandoli lentamente a largo dalla ragione. Terrorizzava Carlo anche nel cuore della notte. Aveva lasciato la scuola e le uniche letture che faceva erano su Satana, suo unico argomento di discussione. Spaventava davvero. Nessuno andava più a trovarli. Noi continuavamo, anche se io e le mie sorelle avevamo paura di lui perché era diventato molto violento. A tentato suicidio di Cristiano, Carlo fu mandato dai nonni perché stava crollando, si era chiuso in un mutismo preoccupante. La madre che portava addosso certi brutti segni di spigoli mal evitati, chiese ai miei genitori di non venire mai più a far visita. Poi, dopo anni, abbiamo saputo che Cristiano, durante una trasfusione, aveva contratto l'AIDS. E lui lo sapeva.
Questo film mi ha ricordato una frase, "Era meglio che morisse", pronunciata da quella madre di Cristiano che non ci stava più con la testa. A quell'età mi chiedevo se esiste un momento preciso in cui uno, oltre a perdere la testa, perde anche il cuore in qualche regione ignota smettendo i panni di genitore, di figlio, di fratello. Mi chiedevo se anche i miei, in quelle circostanze, mi avrebbero augurato la morte e questo mi turbava molto. La cronaca nera è piena di madri e padri che sopprimono figli disabili. La malattia diventa un processo di rotazione e rivoluzione all'inverso, tutto concentrato a generare regressioni senza possibilità di tangenze alcune. Nei malati innesca qualcosa di oscuro che non si legge nei referti medici. I sani fanno i conti con i sentimenti più torbidi, quelli innominabili, quelli che a guardarli fisso infettano l'anima, ma che fanno parte della natura umana parimenti a quelli più nobili. Ogni contatto col prossimo è compromesso, ogni parola che giunge dall'esterno è sbagliata.
E' questo il vero mistero con cui il commissario Sanzio (Toni Servillo) ha a che fare tra le montagne friulane. La ragazza ritrovata morta sulla riva del lago è solo il coperchio che protegge storie e personaggi secondari, satelliti e pianeti persi in un buco nero chiuso tutto nelle ventiquattro ore di ogni giorno, dove la malattia sembra essere l'unico filo rosso comune. Salvo scoprire che anche i sani vengono contagiati, anche a loro insaputa, da qualcosa che esula da ogni razionalità, qualcosa in cui l'amore si esaurisce per originare l'odio e il giudizio s'arrende. Si scopre uno stadio naturale eppure abominevole in cui due antipodi si toccano e le certezze vengono azzerate. Sconcerta l'idea di poterne accettare le dinamiche, sconcerta la normalità che circoscrive il mutamento - e la sciagura - (il paesaggio, le pareti domestiche, il cane, i vicini, le solite campane della chiesa) e che rimane tale.
Siccome questo film è un giallo, non mi sento di rovinarvi la visione con altri particolari. Sono certa che la signora Sanzio (Anna Bonaiuto), la mamma di Angelo (Valeria Golino) o Mario (Franco Ravera), per citarne alcuni, sapranno accendere un piccolo lume. La storia è raccontata semplicemente come la provincia in cui si muove. Ma si sa, la semplicità è sempre una questione apparente. Ovviamente c'è un colpevole per il delitto della ragazza, un colpevole che ha sistemato il corpo morto con una premura che rivela un sentimento d'amore.
Laura
Finito di vedere questo film, la mia memoria ha riportato a galla un particolare periodo della mia giovinezza che avevo messo via. Quello legato alle scuole medie e a Cristiano. Cristiano, noi lo conoscevamo bene. Le nostre famiglie si frequentavano ed io e le mie sorelle, mentre i grandi parlavano in salotto, finivamo spesso a giocare con lui e suo fratello minore Carlo a Monopoli, in quella loro stanza coi copriletti rossi e i manifesti dei calciatori appesi alle pareti, la radio a tutto volume, le lattine di aranciata e gli involucri di Mars ovunque. Era inverno spaccato, lo ricordo bene, Cristiano era allenatissimo e aveva una fortuna sfacciata. Finiva sempre per maneggiare Parco della Vittoria e Viale dei Giardini. Sfotteva noi ragazze alle prese con la Società Elettrica e le Stazioni. E Carlo, a cui capitavano sempre i Vicoli. Ci sfotteva, ma in modo simpatico. Cristiano ci faceva ammazzare dalle risate.
Poi, un giorno qualunque, all'uscita dalla scuola, il pullman ha fatto retromarcia e lo ha steso. Il conducente non lo aveva visto, Cristiano era sbucato all'improvviso. Era distratto, stava ridendo insieme agli amici. Paralizzato, operato quattro volte da ottimi specialisti, con un esaurimento nervoso al confine col delirio quotidiano, Cristiano era diventato l'incubo della sua famiglia. Li stava isolando dalla realtà portandoli lentamente a largo dalla ragione. Terrorizzava Carlo anche nel cuore della notte. Aveva lasciato la scuola e le uniche letture che faceva erano su Satana, suo unico argomento di discussione. Spaventava davvero. Nessuno andava più a trovarli. Noi continuavamo, anche se io e le mie sorelle avevamo paura di lui perché era diventato molto violento. A tentato suicidio di Cristiano, Carlo fu mandato dai nonni perché stava crollando, si era chiuso in un mutismo preoccupante. La madre che portava addosso certi brutti segni di spigoli mal evitati, chiese ai miei genitori di non venire mai più a far visita. Poi, dopo anni, abbiamo saputo che Cristiano, durante una trasfusione, aveva contratto l'AIDS. E lui lo sapeva.
Questo film mi ha ricordato una frase, "Era meglio che morisse", pronunciata da quella madre di Cristiano che non ci stava più con la testa. A quell'età mi chiedevo se esiste un momento preciso in cui uno, oltre a perdere la testa, perde anche il cuore in qualche regione ignota smettendo i panni di genitore, di figlio, di fratello. Mi chiedevo se anche i miei, in quelle circostanze, mi avrebbero augurato la morte e questo mi turbava molto. La cronaca nera è piena di madri e padri che sopprimono figli disabili. La malattia diventa un processo di rotazione e rivoluzione all'inverso, tutto concentrato a generare regressioni senza possibilità di tangenze alcune. Nei malati innesca qualcosa di oscuro che non si legge nei referti medici. I sani fanno i conti con i sentimenti più torbidi, quelli innominabili, quelli che a guardarli fisso infettano l'anima, ma che fanno parte della natura umana parimenti a quelli più nobili. Ogni contatto col prossimo è compromesso, ogni parola che giunge dall'esterno è sbagliata.
E' questo il vero mistero con cui il commissario Sanzio (Toni Servillo) ha a che fare tra le montagne friulane. La ragazza ritrovata morta sulla riva del lago è solo il coperchio che protegge storie e personaggi secondari, satelliti e pianeti persi in un buco nero chiuso tutto nelle ventiquattro ore di ogni giorno, dove la malattia sembra essere l'unico filo rosso comune. Salvo scoprire che anche i sani vengono contagiati, anche a loro insaputa, da qualcosa che esula da ogni razionalità, qualcosa in cui l'amore si esaurisce per originare l'odio e il giudizio s'arrende. Si scopre uno stadio naturale eppure abominevole in cui due antipodi si toccano e le certezze vengono azzerate. Sconcerta l'idea di poterne accettare le dinamiche, sconcerta la normalità che circoscrive il mutamento - e la sciagura - (il paesaggio, le pareti domestiche, il cane, i vicini, le solite campane della chiesa) e che rimane tale.
Siccome questo film è un giallo, non mi sento di rovinarvi la visione con altri particolari. Sono certa che la signora Sanzio (Anna Bonaiuto), la mamma di Angelo (Valeria Golino) o Mario (Franco Ravera), per citarne alcuni, sapranno accendere un piccolo lume. La storia è raccontata semplicemente come la provincia in cui si muove. Ma si sa, la semplicità è sempre una questione apparente. Ovviamente c'è un colpevole per il delitto della ragazza, un colpevole che ha sistemato il corpo morto con una premura che rivela un sentimento d'amore.
mercoledì 26 dicembre 2007
Blowup
Blowup, di Michelangelo Antonioni (1966) Da un racconto di Julio Cortazar, Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Edward Bond Con David Hemmings, Sarah Miles, Vanessa Redgrave, John Castle, Jane Birkin, Gillian Hills, Peter Bowles, Veruschka von Lehndorff, Julian Chagrin, Claude Chagrin Musica: Herbert Hancock Fotografia: Carlo Di Palma (110 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
Che la considerazione per Michelangelo Antonioni sia cresciuta in questi ultimi anni mi sembra evidente da diversi segni, anche in rete. E’ una bella cosa per due motivi: il primo è l’importanza dell’artista, spesso mal compreso o addirittura vilipeso, il secondo perché è un segno di maturità nell’approccio al cinema da parte dei fruitori acculturati. A parte il cronico blaterare su glorie fittizie e destinate all’oblio nel giro di sei mesi (che c’è sempre stato, dai fratelli Lumière in poi), c’è la domanda ricorrente di tutti i sapienti che affrontano il cinema con leggerezza un po’ invida: “Cosa c’è dietro, a questo film?” Che guardassero quel che c’è davanti, le immagini che scorrono sullo schermo. Il che non vuol dire rinunciare a scavare, approfondire, capire, ma mettendosi almeno per la strada giusta. L’apprezzamento di Antonioni, a differenza di quello di Fellini e di Visconti, per fare solo due esempi, ha sempre sofferto di questa improprietà, collegata alla fatica che fa il libresco colto a mutarsi in filmico appassionato. Ricorre alle categorie a lui consuete, come quel viaggiatore che aveva ancora in mano il biglietto del tram dopo esserne sceso due ore prima.
In Blowup, che sembra fatto oggi, e fatto in modo da far impallidire le glorie immaginifiche di questi anni, Antonioni dice quel che mostra, quindi occorre guardarlo, farsi permeare dal suo modo, poi metterci del proprio entrando nel mondo delle sue immagini, ferme e in movimento. E’ un esercizio semplice, la possibilità ce l’abbiamo tutti, ma so io la difficoltà che ci vuole ad imparare che di fronte ad un quadro ci si può fermare dieci minuti e che non è indispensabile guardare il cartellino col nome dell’autore o le tante, e naturalmente benemerite, guide del Touring Club Italiano con la numerosità delle stelle alla Michelin e con le cose veramente singolari scritte nelle righe piccole. Il punto è anche psicologico: vogliamo predisporci alla partita giocando sul campo di casa, perché ci secca essere invasi da quel pittore, quello scrittore, quel regista. Temiamo la sindrome di Stendhal, che esista o no, e la preveniamo attutendo le nostra capacità percettive, togliendoci così il meglio.
Mettiamo il caso più evidente, e che tutti ricordano, anche gli spregiatori di Antonioni e di Blowup: l’erotismo. Dopo la rappresentazione che ne ha dato Antonioni è cambiato il modo di affrontare questo tema, ci si è accorti della vecchiezza del voyeurismo dei guardoni e della peccaminosità dei moralisti (compresi gli eversori di pura facciata). Sono cambiate le donne rappresentate, e non è poco: le donne del Parmigianino sono bel diverse dalle donne di Tiziano. Sono bellezze difettive, tutte anticlassiche, quelle di Michelangelo Antonioni: Vanessa Redgrave, Sarah Miles, la stessa Veruschka, Jane Birkin, Gillian Hills sono ben diverse dalle dive allora (ed ora) in auge: visi, corpi, movimenti, atteggiamenti, comportamenti.
L’immagine di Patricia (Sarah Miles) sorpresa dal marito Thomas (David Hemmings) mentre fa l’amore con un altro, il modo in cui Patricia guarda in viso Patrick divisa fra piacere, sofferenza, persino ansia di essere da lui compresa, è impensabile come complessità per un altro regista, complessità che ad Antonioni riesce semplice. E l’episodio, quello che tutti ricordano, della biondina (Jane Birkin) e della brunetta (Gillian Hills) che aspirano a diventare o modelle del grande fotografo Thomas e cercano di lusingarlo in tutti i modi venendone pure maltrattate, ha una sua catarsi felicissima nell’orgetta (intelligentemente non mostrata) fra i tre in mezzo alla carta viola e con le due ragazze che infine, pazienti e contente, rivestono il fotografo per il momento asservito. E’ un erotismo di fantasia e libertà, più che di eversione finalizzata a non si sa che.
C’è quando c’è, quando non c’è, si vede che c’è qualcosa d’altro. Anche l’ambiguità del rapporto fra Thomas e Jane (Vanessa Redgrave) è risolta in questo modo: non è solo un tentato scambio, un do ut des dei rollino fotografico che ha lui ed il corpo che ha lei: quei due si piacciono pure, è una negoziazione però di tipo amoroso. E’ proprio tutto questo che dà fastidio perché l’imprevedibilità degli accadimenti, perfino la casualià della vita momento per momento, va bene se ragionata, discussa, rifatta slogan, non va bene se mostrata in azione. Vorrebbero una imprevedibilità, però che si desse una regolata, ‘sta imprevedibilità, che diventi visione di vita, sistematica e coerente. Invece qui c’è l’Es di Groddeck che sfotte il signor Ego, però non volendone prendere il posto, stando per i fatti suoi che sono almeno più divertenti.
L’altro tema è il potere: come si gioca il potere nella Londra del 1966. Esprime l’antipotere, Antonioni? Certo che no, il suo Thomas è durissimo sul lavoro, con le modelle ed i collaboratori. Sa che la Rolls Royce se l’è comprata con la moda e non ci si ribella, ci mette un dippiù di scarna e strumentale efficienza, di cui fa parte il simulato amplesso con Veruschka, così le foto riescono meglio a lui e lei può dare di più uscendo dagli schemi. Ma Thomas è uno che più che amare il potere, ama il suo lavoro, e quindi va la notte nel dormitorio pubblico perché anche quelle foto gli interessano, ci va e ci dorme. Era facile fare il solito artista non compreso e disinteressato o l’iniziale artista che diventa volgare, Antonioni ha scelto un’altra strada, fra l’altro molto vera, perché succede quasi sempre così, il mondo è di compromessi, e come non esiste quello che non ne accetta mai, così non esiste quello che li accetta sempre. E invece, con lo spadone del moralismo, si vorrebbero separare i buoni dai cattivi. Bella trovata, così i buoni si fanno tutti accademici e concorrono al Premio all’Artista Buono che certamente istituiranno, prima o poi: come sede, vedrei bene Como o Vicenza, ad esempio. Anche l’ingabolamento con Jane, riguardo alle fotografie dietro cui c’è forse un omicidio, da cosa nasce? Dalla curiosità professionale di Thomas, dal suo apprezzamento immediato di questa coppia sul prato, lei giovane, lui in età. E l’episodio della chitarra rock? Il chitarrista incazzoso e probabilmente strafatto che distrugge la sua chitarra calpestandola, rissa fra il pubblico per impossessarsi del prezioso reperto, Thomas a fatica ci riesce, con strappi nel vestito e mal conciato, poi depista gli inseguitori sempre con il prezioso reperto in mano, ce l’ha fatta, tutto bene, e allora ‘sto cacchio di chitarra distrutta si può anche buttare nella pattumiera, così fa, passa un altro che la prende con due dita e poi la butta schifato pure lui. Era pensabile una metafora migliore sulla provvisorietà del potere?
Ma tutto questo gioco Antonioni, come i grandi manieristi: Pontormo. Parmigianino, Rosso, Beccafumi, lo conduce con mano fermissima, la sua casualità non è la percezione primaria, che Antonioni accetta e aspetta (ne ha anche scritto), ma è criticata, ampliata, asciugata, e la grande jeep con gli scatenati scostumati (e simpatici) dell’inizio ricompare nel finale. Un chiasso indiavolato, poi tutti si azzittiscono per guardare la partita a tennis: c’è il campo, ci sono i giocatori, non c’è la pallina, ma fa niente. Ad un certo punto la pallina (che manca) esce dal campo e va vicina ai piedi di Thomas che ci pensa qualche secondo e raccoglie la pallina (che continua a mancare) e la getta nel campo da tennis, che non viene inquadrato, però, nel silenzio, si sente il toc toc della pallina, adesso c’è, ma noi non la vediamo. Così finisce il film, tutti in silenzio ad ascoltare il toc toc di qualcosa che non si vede.
Solimano
Che la considerazione per Michelangelo Antonioni sia cresciuta in questi ultimi anni mi sembra evidente da diversi segni, anche in rete. E’ una bella cosa per due motivi: il primo è l’importanza dell’artista, spesso mal compreso o addirittura vilipeso, il secondo perché è un segno di maturità nell’approccio al cinema da parte dei fruitori acculturati. A parte il cronico blaterare su glorie fittizie e destinate all’oblio nel giro di sei mesi (che c’è sempre stato, dai fratelli Lumière in poi), c’è la domanda ricorrente di tutti i sapienti che affrontano il cinema con leggerezza un po’ invida: “Cosa c’è dietro, a questo film?” Che guardassero quel che c’è davanti, le immagini che scorrono sullo schermo. Il che non vuol dire rinunciare a scavare, approfondire, capire, ma mettendosi almeno per la strada giusta. L’apprezzamento di Antonioni, a differenza di quello di Fellini e di Visconti, per fare solo due esempi, ha sempre sofferto di questa improprietà, collegata alla fatica che fa il libresco colto a mutarsi in filmico appassionato. Ricorre alle categorie a lui consuete, come quel viaggiatore che aveva ancora in mano il biglietto del tram dopo esserne sceso due ore prima.
In Blowup, che sembra fatto oggi, e fatto in modo da far impallidire le glorie immaginifiche di questi anni, Antonioni dice quel che mostra, quindi occorre guardarlo, farsi permeare dal suo modo, poi metterci del proprio entrando nel mondo delle sue immagini, ferme e in movimento. E’ un esercizio semplice, la possibilità ce l’abbiamo tutti, ma so io la difficoltà che ci vuole ad imparare che di fronte ad un quadro ci si può fermare dieci minuti e che non è indispensabile guardare il cartellino col nome dell’autore o le tante, e naturalmente benemerite, guide del Touring Club Italiano con la numerosità delle stelle alla Michelin e con le cose veramente singolari scritte nelle righe piccole. Il punto è anche psicologico: vogliamo predisporci alla partita giocando sul campo di casa, perché ci secca essere invasi da quel pittore, quello scrittore, quel regista. Temiamo la sindrome di Stendhal, che esista o no, e la preveniamo attutendo le nostra capacità percettive, togliendoci così il meglio.
Mettiamo il caso più evidente, e che tutti ricordano, anche gli spregiatori di Antonioni e di Blowup: l’erotismo. Dopo la rappresentazione che ne ha dato Antonioni è cambiato il modo di affrontare questo tema, ci si è accorti della vecchiezza del voyeurismo dei guardoni e della peccaminosità dei moralisti (compresi gli eversori di pura facciata). Sono cambiate le donne rappresentate, e non è poco: le donne del Parmigianino sono bel diverse dalle donne di Tiziano. Sono bellezze difettive, tutte anticlassiche, quelle di Michelangelo Antonioni: Vanessa Redgrave, Sarah Miles, la stessa Veruschka, Jane Birkin, Gillian Hills sono ben diverse dalle dive allora (ed ora) in auge: visi, corpi, movimenti, atteggiamenti, comportamenti.
L’immagine di Patricia (Sarah Miles) sorpresa dal marito Thomas (David Hemmings) mentre fa l’amore con un altro, il modo in cui Patricia guarda in viso Patrick divisa fra piacere, sofferenza, persino ansia di essere da lui compresa, è impensabile come complessità per un altro regista, complessità che ad Antonioni riesce semplice. E l’episodio, quello che tutti ricordano, della biondina (Jane Birkin) e della brunetta (Gillian Hills) che aspirano a diventare o modelle del grande fotografo Thomas e cercano di lusingarlo in tutti i modi venendone pure maltrattate, ha una sua catarsi felicissima nell’orgetta (intelligentemente non mostrata) fra i tre in mezzo alla carta viola e con le due ragazze che infine, pazienti e contente, rivestono il fotografo per il momento asservito. E’ un erotismo di fantasia e libertà, più che di eversione finalizzata a non si sa che.
C’è quando c’è, quando non c’è, si vede che c’è qualcosa d’altro. Anche l’ambiguità del rapporto fra Thomas e Jane (Vanessa Redgrave) è risolta in questo modo: non è solo un tentato scambio, un do ut des dei rollino fotografico che ha lui ed il corpo che ha lei: quei due si piacciono pure, è una negoziazione però di tipo amoroso. E’ proprio tutto questo che dà fastidio perché l’imprevedibilità degli accadimenti, perfino la casualià della vita momento per momento, va bene se ragionata, discussa, rifatta slogan, non va bene se mostrata in azione. Vorrebbero una imprevedibilità, però che si desse una regolata, ‘sta imprevedibilità, che diventi visione di vita, sistematica e coerente. Invece qui c’è l’Es di Groddeck che sfotte il signor Ego, però non volendone prendere il posto, stando per i fatti suoi che sono almeno più divertenti.
L’altro tema è il potere: come si gioca il potere nella Londra del 1966. Esprime l’antipotere, Antonioni? Certo che no, il suo Thomas è durissimo sul lavoro, con le modelle ed i collaboratori. Sa che la Rolls Royce se l’è comprata con la moda e non ci si ribella, ci mette un dippiù di scarna e strumentale efficienza, di cui fa parte il simulato amplesso con Veruschka, così le foto riescono meglio a lui e lei può dare di più uscendo dagli schemi. Ma Thomas è uno che più che amare il potere, ama il suo lavoro, e quindi va la notte nel dormitorio pubblico perché anche quelle foto gli interessano, ci va e ci dorme. Era facile fare il solito artista non compreso e disinteressato o l’iniziale artista che diventa volgare, Antonioni ha scelto un’altra strada, fra l’altro molto vera, perché succede quasi sempre così, il mondo è di compromessi, e come non esiste quello che non ne accetta mai, così non esiste quello che li accetta sempre. E invece, con lo spadone del moralismo, si vorrebbero separare i buoni dai cattivi. Bella trovata, così i buoni si fanno tutti accademici e concorrono al Premio all’Artista Buono che certamente istituiranno, prima o poi: come sede, vedrei bene Como o Vicenza, ad esempio. Anche l’ingabolamento con Jane, riguardo alle fotografie dietro cui c’è forse un omicidio, da cosa nasce? Dalla curiosità professionale di Thomas, dal suo apprezzamento immediato di questa coppia sul prato, lei giovane, lui in età. E l’episodio della chitarra rock? Il chitarrista incazzoso e probabilmente strafatto che distrugge la sua chitarra calpestandola, rissa fra il pubblico per impossessarsi del prezioso reperto, Thomas a fatica ci riesce, con strappi nel vestito e mal conciato, poi depista gli inseguitori sempre con il prezioso reperto in mano, ce l’ha fatta, tutto bene, e allora ‘sto cacchio di chitarra distrutta si può anche buttare nella pattumiera, così fa, passa un altro che la prende con due dita e poi la butta schifato pure lui. Era pensabile una metafora migliore sulla provvisorietà del potere?
Ma tutto questo gioco Antonioni, come i grandi manieristi: Pontormo. Parmigianino, Rosso, Beccafumi, lo conduce con mano fermissima, la sua casualità non è la percezione primaria, che Antonioni accetta e aspetta (ne ha anche scritto), ma è criticata, ampliata, asciugata, e la grande jeep con gli scatenati scostumati (e simpatici) dell’inizio ricompare nel finale. Un chiasso indiavolato, poi tutti si azzittiscono per guardare la partita a tennis: c’è il campo, ci sono i giocatori, non c’è la pallina, ma fa niente. Ad un certo punto la pallina (che manca) esce dal campo e va vicina ai piedi di Thomas che ci pensa qualche secondo e raccoglie la pallina (che continua a mancare) e la getta nel campo da tennis, che non viene inquadrato, però, nel silenzio, si sente il toc toc della pallina, adesso c’è, ma noi non la vediamo. Così finisce il film, tutti in silenzio ad ascoltare il toc toc di qualcosa che non si vede.
lunedì 24 dicembre 2007
La gatta sul tetto che scotta
Cat on a Hot Tin Roof, di Richard Brooks (1958) Dal dramma di Tennessee Williams, Sceneggiatura di Richard Brooks, James Poe Con Elizabeth Taylor, Paul Newman, Burl Ives, Jack Carson, Judith Anderson, Madeleine Sherwood Musica: Charles Wolcott, Fotografia: William Daniels (108 minuti) Rating IMDb: 7.9
Solimano
Ha senso, rivedere “La gatta sul tetto che scotta” quarantanove anni dopo? Secondo me sì, ma prima è meglio fare un po’ di pulizia. Con Tennessee Williams innanzitutto, perché ora non andrei a vedere in teatro i suoi drammi neppure se mi pagassero. Va avanti per archetipi, sempre quelli: il Sud caldo, torbido, torpido eppure vitale, con la bandiera dei Confederati da far sventolare anche ai bambini, il paterfamilias che vorrebbe comprarsi l’amore dei sottomessi (in primis i familiari) a colpi di generosità prepotente e sgarbata, la donna matura e vogliosa, la donna giovane vogliosa pure lei, il figlio minore che non combina nulla di serio, però è più amato del figlio maggiore ossequiente e noioso, i neri di casa amati e saggi, le liti reali per la roba, però lubrificate da compleanni ed anniversari… Su tutto ciò, delle tentate soluzioni in fondo moralistiche e generiche, quindi non credibili. Williams ha una sua forza furbissima, girando attorno a temi che sarebbero tutti seri: il denaro, il potere, il sesso, la morte. E l’omosessualità, forse il tema più sentito e meno detto. In tutto c’è un vitalismo sospetto, paradossalmente di tipo mortuario, perché in quel vitalismo c'è più paura della morte che amore per la vita. Col sesso esprime il desiderio, mai l’appagamento.
Un talentaccio che ebbe un successo clamoroso ma provvisorio, già negli anni Sessanta la furia per Tennessee Williams era passata. Eppure ha un grande merito: degli ottimi film sono stati fatti sui suoi drammi caduchi, e non solo i film di Elia Kazan. Uno è questo, che regge benissimo anche oggi, facendo un po’ di pulizia anche con Richard Brooks, il regista, che nascose l’omosessualità ancor più di Williams nel dramma ( ma eravamo nel 1958, e il pubblico del cinema era diverso da quello teatrale). Senza la componente omosessuale del rapporto fra Brick (Paul Newman) e Skinner, l'amico morto suicida, non si capisce la ritrosìa di Brick alle continue profferte di Maggie (Elizabeth Taylor), ammettendo pure che Maggie sia andata una volta con Skinner. Su questo Brooks è ancor più ambiguo di Williams, nel film sembra che sia stato tutto un equivoco, che Maggie non sia andata con Skinner e che questi si sia ucciso perché Brick gli ha riagganciato il telefono.
Però, che forza di presenza recitante! Per gustarla al meglio, consiglio di vedere il film in inglese con i sottotitoli in italiano, perché questi vanno avanti con l’americano parlato (spesso gridato), sintetico e velocissimo. In italiano si attenua la violenza continua con cui si esprimono il molto odio ed il poco amore del film. Elizabeth Taylor qui è al massimo della bellezza, ancor prima che della recitazione, e basta il suo modo di essere bella a scardinare le sapienti trovate di Williams e di Brooks, e il tema omosessuale, quello che probabilmente interessava di più Williams, inevitabilmente si volatilizza. La parte di Paul Newman diventa così molto ingrata, a volte quasi ridicola (quando si chiude in bagno per sottrarsi alla Taylor) ed acquista uno spessore ed una centralità solo quando in cantina dialoga finalmente in modo aperto con Big Daddy Pollitt (Burl Ives), che è potente e fragile. In cantina, fra le millanta carabattole costose che Big Daddy ha comprato a Big Momma (Judith Anderson) durante il viaggio in Europa, al posto dell’amore che non c’è mai stato.
Ma anche la famiglia di Gooper (Jack Carson), il fratello maggiore di Brick, regge benissimo, con i cinque figlioletti –tutti senza collo, dice Maggie- sempre a far feste fasulle a Big Daddy guidati dalla madre Mae (Madeleine Sherwood), che ispira una antipatia talmente forte da desiderare che ricompaia spessa. Poveretta, ha fatto cinque figli -il sesto è in arrivo- e si trova a competere con una cognata bellissima come Liz Taylor ed a volere la roba, tutta la roba di Big Daddy, perché le spetta in quanto Reginetta di non so che. Le toccherà finire il film rimossa da tutti, persino da Big Momma e dal marito Gooper. Brutta la sorte dei brutti, anche delle brutte. A me infine è diventata quasi simpatica, con quel suo lavorìo per la festa, i bambini schierati con strumenti e bandiera, l’ascoltare di notte i litigi di Brick e Maggie che sono nella camera a fianco, il trafficare con torte e carte.
Quella che vince è Maggie: avrà un figlio da Brick , racconta infatti che è incinta e una bugia del genere bisogna trasformarla in verità, avrà la roba di Big Daddy, che per tutto il film stravede per lei, e prima del film è riuscita a risolvere lo spinoso caso Skinner, mettendolo contro Brick. Una ragazza povera che sa aiutarsi con la bellezza, ma soprattutto con il senso delle opportunità, che gioca la carta giusta qundo è il momento, alla faccia di tutte le Reginette nate ricche nel Sud. Eppure, chiedetelo in giro, quelli che hanno visto il film vi parleranno di Maggie come del personaggio positivo e di Mae come dell’inferno in terra. La vita è ingiusta, non è detto che premi il merito, ma non c’è niente da fare: non solo gli spettatori, ma anche le spettatrici sono con Maggie, la vera furba, non con Mae, la formica paziente che va avanti ad astuzie quotidiane, che basta una mossa a sorpresa per schiodarle.
Ma non c’è niente da fare: il film, di primo impulso ci si decide di guardarlo per un motivo: Elizabeth Taylor, com’era in quei pochi anni in cui fu al vertice. A proposito… nel film bevono in continuazione, ho il sospetto che quello che hanno nei bicchieri sia proprio alcool ad alta gradazione. Salvo che per Paul Newman, che ufficialmente è il bevitore incallito, ma che è costretto a mantenersi lucido, per reggere una Maggie di tal fatta. I premi che gli diedero se li meritò tutti, deve essere stata una gara dura per lui.
Solimano
Ha senso, rivedere “La gatta sul tetto che scotta” quarantanove anni dopo? Secondo me sì, ma prima è meglio fare un po’ di pulizia. Con Tennessee Williams innanzitutto, perché ora non andrei a vedere in teatro i suoi drammi neppure se mi pagassero. Va avanti per archetipi, sempre quelli: il Sud caldo, torbido, torpido eppure vitale, con la bandiera dei Confederati da far sventolare anche ai bambini, il paterfamilias che vorrebbe comprarsi l’amore dei sottomessi (in primis i familiari) a colpi di generosità prepotente e sgarbata, la donna matura e vogliosa, la donna giovane vogliosa pure lei, il figlio minore che non combina nulla di serio, però è più amato del figlio maggiore ossequiente e noioso, i neri di casa amati e saggi, le liti reali per la roba, però lubrificate da compleanni ed anniversari… Su tutto ciò, delle tentate soluzioni in fondo moralistiche e generiche, quindi non credibili. Williams ha una sua forza furbissima, girando attorno a temi che sarebbero tutti seri: il denaro, il potere, il sesso, la morte. E l’omosessualità, forse il tema più sentito e meno detto. In tutto c’è un vitalismo sospetto, paradossalmente di tipo mortuario, perché in quel vitalismo c'è più paura della morte che amore per la vita. Col sesso esprime il desiderio, mai l’appagamento.
Un talentaccio che ebbe un successo clamoroso ma provvisorio, già negli anni Sessanta la furia per Tennessee Williams era passata. Eppure ha un grande merito: degli ottimi film sono stati fatti sui suoi drammi caduchi, e non solo i film di Elia Kazan. Uno è questo, che regge benissimo anche oggi, facendo un po’ di pulizia anche con Richard Brooks, il regista, che nascose l’omosessualità ancor più di Williams nel dramma ( ma eravamo nel 1958, e il pubblico del cinema era diverso da quello teatrale). Senza la componente omosessuale del rapporto fra Brick (Paul Newman) e Skinner, l'amico morto suicida, non si capisce la ritrosìa di Brick alle continue profferte di Maggie (Elizabeth Taylor), ammettendo pure che Maggie sia andata una volta con Skinner. Su questo Brooks è ancor più ambiguo di Williams, nel film sembra che sia stato tutto un equivoco, che Maggie non sia andata con Skinner e che questi si sia ucciso perché Brick gli ha riagganciato il telefono.
Però, che forza di presenza recitante! Per gustarla al meglio, consiglio di vedere il film in inglese con i sottotitoli in italiano, perché questi vanno avanti con l’americano parlato (spesso gridato), sintetico e velocissimo. In italiano si attenua la violenza continua con cui si esprimono il molto odio ed il poco amore del film. Elizabeth Taylor qui è al massimo della bellezza, ancor prima che della recitazione, e basta il suo modo di essere bella a scardinare le sapienti trovate di Williams e di Brooks, e il tema omosessuale, quello che probabilmente interessava di più Williams, inevitabilmente si volatilizza. La parte di Paul Newman diventa così molto ingrata, a volte quasi ridicola (quando si chiude in bagno per sottrarsi alla Taylor) ed acquista uno spessore ed una centralità solo quando in cantina dialoga finalmente in modo aperto con Big Daddy Pollitt (Burl Ives), che è potente e fragile. In cantina, fra le millanta carabattole costose che Big Daddy ha comprato a Big Momma (Judith Anderson) durante il viaggio in Europa, al posto dell’amore che non c’è mai stato.
Ma anche la famiglia di Gooper (Jack Carson), il fratello maggiore di Brick, regge benissimo, con i cinque figlioletti –tutti senza collo, dice Maggie- sempre a far feste fasulle a Big Daddy guidati dalla madre Mae (Madeleine Sherwood), che ispira una antipatia talmente forte da desiderare che ricompaia spessa. Poveretta, ha fatto cinque figli -il sesto è in arrivo- e si trova a competere con una cognata bellissima come Liz Taylor ed a volere la roba, tutta la roba di Big Daddy, perché le spetta in quanto Reginetta di non so che. Le toccherà finire il film rimossa da tutti, persino da Big Momma e dal marito Gooper. Brutta la sorte dei brutti, anche delle brutte. A me infine è diventata quasi simpatica, con quel suo lavorìo per la festa, i bambini schierati con strumenti e bandiera, l’ascoltare di notte i litigi di Brick e Maggie che sono nella camera a fianco, il trafficare con torte e carte.
Quella che vince è Maggie: avrà un figlio da Brick , racconta infatti che è incinta e una bugia del genere bisogna trasformarla in verità, avrà la roba di Big Daddy, che per tutto il film stravede per lei, e prima del film è riuscita a risolvere lo spinoso caso Skinner, mettendolo contro Brick. Una ragazza povera che sa aiutarsi con la bellezza, ma soprattutto con il senso delle opportunità, che gioca la carta giusta qundo è il momento, alla faccia di tutte le Reginette nate ricche nel Sud. Eppure, chiedetelo in giro, quelli che hanno visto il film vi parleranno di Maggie come del personaggio positivo e di Mae come dell’inferno in terra. La vita è ingiusta, non è detto che premi il merito, ma non c’è niente da fare: non solo gli spettatori, ma anche le spettatrici sono con Maggie, la vera furba, non con Mae, la formica paziente che va avanti ad astuzie quotidiane, che basta una mossa a sorpresa per schiodarle.
Ma non c’è niente da fare: il film, di primo impulso ci si decide di guardarlo per un motivo: Elizabeth Taylor, com’era in quei pochi anni in cui fu al vertice. A proposito… nel film bevono in continuazione, ho il sospetto che quello che hanno nei bicchieri sia proprio alcool ad alta gradazione. Salvo che per Paul Newman, che ufficialmente è il bevitore incallito, ma che è costretto a mantenersi lucido, per reggere una Maggie di tal fatta. I premi che gli diedero se li meritò tutti, deve essere stata una gara dura per lui.
Alexandre... un uomo felice
Alexandre le bienheureux, di Yves Robert (1968) Sceneggiatura di Yves Robert, Pierre Lévi-Corti Con Philippe Noiret, Françoise Brion, Marlène Jobert, Paul Le Person, Tsilla Chelton, Léonce Corne, Pierre Richard Musica: Vladimir Cosma Fotografia: René Mathelin (100 minuti) Rating IMDb: 7.6
Ottavio
Come è noto, ogni nuova invenzione o scoperta non è buona o cattiva in sé, ma dipende dall’uso che se ne fa. Basti pensare all’energia atomica. O, a livello della nostra vita quotidiana, al telefono cellulare.
Per fare un esempio, da quando questo attrezzo è entrato nell’uso comune (ammetto che non se ne può più fare a meno) non riesco più a ripararmi dietro la mia incompetenza negli acquisti al mercato o al supermarket, e quindi scansare le relative corvée. Cioè, ora, col fido cellulare al seguito, mi reco al supermarket, osservo e riferisco, come un buon carabiniere, alla moglie remota, ed aspetto le disposizioni. Il tutto attraverso il diabolico dispositivo.
Qualcosa del genere succedeva al buon Alexandre (il grande Philippe Noiret) nel vecchio (1968) film Alexandre le bienheureux di Yves Robert. Ma andiamo con ordine.
Alexandre è un piccolo proprietario terriero della campagna francese che conduce la sua attività di agricoltore agli ordini (proprio!) di una moglie manager (Franςoise Brion) soprannominata “la Grande”.
La donna non lo aiuta ma gli pianifica in dettaglio l’attività in modo insopportabile, sicché Alexandre trascorre l’intera giornata al lavoro nei campi. Lo stress raggiunge il picco più alto quando la moglie scopre che con le radio ricetrasmittenti riesce a “guidare” anche da lontano le operazioni. E così assistiamo alla scena in cui Alexandre, sdraiato presso un covone di paglia per tirare il fiato in una pausa del lavoro, viene bruscamente aggredito dal gracchiare della radio che gli intima di raccogliere le zucche del Lussemburgo (ecco il riferimento alle righe iniziali). Insomma, una brutta faccenda.
Fortunatamente le pene del nostro coltivatore stacanovista cessano improvvisamente il giorno in cui la moglie muore in un incidente d’auto tornando da un funerale. Ora finalmente Alexandre, dopo anni di schiavitù, può tirare il fiato, alzarsi quando gli pare, andare a pesca invece di lavorare, riscopre insomma i piaceri dell’ozio. Sono memorabili le scene in cui Alexandre costruisce un sistema di corde e carrucole che collegano la sua camera da letto alla cantina, da cui può prelevare i salumi e mangiarseli direttamente a letto.
Questa vita beata potrebbe continuare indefinitamente, ma la radicale metamorfosi preoccupa la gente del villaggio: quella pigrizia conclamata rischia di essere un esempio deplorevole per l’intero villaggio, di conseguenza i compaesani si mobilitano per tentare di restituire ad Alexandre il gusto del lavoro: gli rapiscono il cane Kalì, gli tendono trappole... ma inutilmente, Alexandre è troppo felice della nuova vita.
Forse, pensano i compaesani, ci vuole un nuovo matrimonio per rimetterlo al lavoro come aveva fatto “la Grande”! Mandano allora in avanscoperta la bella droghiera Agata (Marlène Jobert) che si offre di sposare il ricco agricoltore in disarmo. Con la pazienza e le dovute moine la bella Agata fa breccia nel cuore di Alexandre, che infine si dispone ad accettare il nuovo passo.
Alexandre non deve essere però del tutto convinto perché all’ultimo momento, in chiesa davanti all’altare, se la dà a gambe inseguito dalla promessa sposa che lo chiama disperatamente. La scena è semplicemente mondiale: alla fatidica domanda “Vuoi tu sposare la qui presente…” Alexandre viene colto dal dubbio, in un lungo silenzio sempre più imbarazzante. Si scuote perché Agata comincia a schioccare le dita per sollecitarlo a rispondere, e allora prorompe in un “No, Noooooooooo…” e corre via.
Alexandre è definitivamente libero e “felice”.
Forse il film non è “politicamente corretto”, come hanno scritto alcuni, ma io l’ho trovato “ una deliziosa favola sulla pigrizia ambientata in una provincia francese raccontata con affetto” come Kezich.
Aveva tutto per piacermi, la vita in campagna, i personaggi del paesello, i cibi genuini; insomma, la nostalgia per il bel tempo antico.
Più in generale, l’esercizio di questo blog mi rammenta spesso film come questo, buoni prodotti artigianali (ma questo ha la chicca della presenza di Noiret). Un contributo che posso dare, come riconoscimento del buon tempo che mi hanno fatto trascorrere, è di toglierli dal dimenticatoio e raccontarli.
Ottavio
Come è noto, ogni nuova invenzione o scoperta non è buona o cattiva in sé, ma dipende dall’uso che se ne fa. Basti pensare all’energia atomica. O, a livello della nostra vita quotidiana, al telefono cellulare.
Per fare un esempio, da quando questo attrezzo è entrato nell’uso comune (ammetto che non se ne può più fare a meno) non riesco più a ripararmi dietro la mia incompetenza negli acquisti al mercato o al supermarket, e quindi scansare le relative corvée. Cioè, ora, col fido cellulare al seguito, mi reco al supermarket, osservo e riferisco, come un buon carabiniere, alla moglie remota, ed aspetto le disposizioni. Il tutto attraverso il diabolico dispositivo.
Qualcosa del genere succedeva al buon Alexandre (il grande Philippe Noiret) nel vecchio (1968) film Alexandre le bienheureux di Yves Robert. Ma andiamo con ordine.
Alexandre è un piccolo proprietario terriero della campagna francese che conduce la sua attività di agricoltore agli ordini (proprio!) di una moglie manager (Franςoise Brion) soprannominata “la Grande”.
La donna non lo aiuta ma gli pianifica in dettaglio l’attività in modo insopportabile, sicché Alexandre trascorre l’intera giornata al lavoro nei campi. Lo stress raggiunge il picco più alto quando la moglie scopre che con le radio ricetrasmittenti riesce a “guidare” anche da lontano le operazioni. E così assistiamo alla scena in cui Alexandre, sdraiato presso un covone di paglia per tirare il fiato in una pausa del lavoro, viene bruscamente aggredito dal gracchiare della radio che gli intima di raccogliere le zucche del Lussemburgo (ecco il riferimento alle righe iniziali). Insomma, una brutta faccenda.
Fortunatamente le pene del nostro coltivatore stacanovista cessano improvvisamente il giorno in cui la moglie muore in un incidente d’auto tornando da un funerale. Ora finalmente Alexandre, dopo anni di schiavitù, può tirare il fiato, alzarsi quando gli pare, andare a pesca invece di lavorare, riscopre insomma i piaceri dell’ozio. Sono memorabili le scene in cui Alexandre costruisce un sistema di corde e carrucole che collegano la sua camera da letto alla cantina, da cui può prelevare i salumi e mangiarseli direttamente a letto.
Questa vita beata potrebbe continuare indefinitamente, ma la radicale metamorfosi preoccupa la gente del villaggio: quella pigrizia conclamata rischia di essere un esempio deplorevole per l’intero villaggio, di conseguenza i compaesani si mobilitano per tentare di restituire ad Alexandre il gusto del lavoro: gli rapiscono il cane Kalì, gli tendono trappole... ma inutilmente, Alexandre è troppo felice della nuova vita.
Forse, pensano i compaesani, ci vuole un nuovo matrimonio per rimetterlo al lavoro come aveva fatto “la Grande”! Mandano allora in avanscoperta la bella droghiera Agata (Marlène Jobert) che si offre di sposare il ricco agricoltore in disarmo. Con la pazienza e le dovute moine la bella Agata fa breccia nel cuore di Alexandre, che infine si dispone ad accettare il nuovo passo.
Alexandre non deve essere però del tutto convinto perché all’ultimo momento, in chiesa davanti all’altare, se la dà a gambe inseguito dalla promessa sposa che lo chiama disperatamente. La scena è semplicemente mondiale: alla fatidica domanda “Vuoi tu sposare la qui presente…” Alexandre viene colto dal dubbio, in un lungo silenzio sempre più imbarazzante. Si scuote perché Agata comincia a schioccare le dita per sollecitarlo a rispondere, e allora prorompe in un “No, Noooooooooo…” e corre via.
Alexandre è definitivamente libero e “felice”.
Forse il film non è “politicamente corretto”, come hanno scritto alcuni, ma io l’ho trovato “ una deliziosa favola sulla pigrizia ambientata in una provincia francese raccontata con affetto” come Kezich.
Aveva tutto per piacermi, la vita in campagna, i personaggi del paesello, i cibi genuini; insomma, la nostalgia per il bel tempo antico.
Più in generale, l’esercizio di questo blog mi rammenta spesso film come questo, buoni prodotti artigianali (ma questo ha la chicca della presenza di Noiret). Un contributo che posso dare, come riconoscimento del buon tempo che mi hanno fatto trascorrere, è di toglierli dal dimenticatoio e raccontarli.