Blowup, di Michelangelo Antonioni (1966) Da un racconto di Julio Cortazar, Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Edward Bond Con David Hemmings, Sarah Miles, Vanessa Redgrave, John Castle, Jane Birkin, Gillian Hills, Peter Bowles, Veruschka von Lehndorff, Julian Chagrin, Claude Chagrin Musica: Herbert Hancock Fotografia: Carlo Di Palma (110 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
Che la considerazione per Michelangelo Antonioni sia cresciuta in questi ultimi anni mi sembra evidente da diversi segni, anche in rete. E’ una bella cosa per due motivi: il primo è l’importanza dell’artista, spesso mal compreso o addirittura vilipeso, il secondo perché è un segno di maturità nell’approccio al cinema da parte dei fruitori acculturati. A parte il cronico blaterare su glorie fittizie e destinate all’oblio nel giro di sei mesi (che c’è sempre stato, dai fratelli Lumière in poi), c’è la domanda ricorrente di tutti i sapienti che affrontano il cinema con leggerezza un po’ invida: “Cosa c’è dietro, a questo film?” Che guardassero quel che c’è davanti, le immagini che scorrono sullo schermo. Il che non vuol dire rinunciare a scavare, approfondire, capire, ma mettendosi almeno per la strada giusta. L’apprezzamento di Antonioni, a differenza di quello di Fellini e di Visconti, per fare solo due esempi, ha sempre sofferto di questa improprietà, collegata alla fatica che fa il libresco colto a mutarsi in filmico appassionato. Ricorre alle categorie a lui consuete, come quel viaggiatore che aveva ancora in mano il biglietto del tram dopo esserne sceso due ore prima.
In Blowup, che sembra fatto oggi, e fatto in modo da far impallidire le glorie immaginifiche di questi anni, Antonioni dice quel che mostra, quindi occorre guardarlo, farsi permeare dal suo modo, poi metterci del proprio entrando nel mondo delle sue immagini, ferme e in movimento. E’ un esercizio semplice, la possibilità ce l’abbiamo tutti, ma so io la difficoltà che ci vuole ad imparare che di fronte ad un quadro ci si può fermare dieci minuti e che non è indispensabile guardare il cartellino col nome dell’autore o le tante, e naturalmente benemerite, guide del Touring Club Italiano con la numerosità delle stelle alla Michelin e con le cose veramente singolari scritte nelle righe piccole. Il punto è anche psicologico: vogliamo predisporci alla partita giocando sul campo di casa, perché ci secca essere invasi da quel pittore, quello scrittore, quel regista. Temiamo la sindrome di Stendhal, che esista o no, e la preveniamo attutendo le nostra capacità percettive, togliendoci così il meglio.
Mettiamo il caso più evidente, e che tutti ricordano, anche gli spregiatori di Antonioni e di Blowup: l’erotismo. Dopo la rappresentazione che ne ha dato Antonioni è cambiato il modo di affrontare questo tema, ci si è accorti della vecchiezza del voyeurismo dei guardoni e della peccaminosità dei moralisti (compresi gli eversori di pura facciata). Sono cambiate le donne rappresentate, e non è poco: le donne del Parmigianino sono bel diverse dalle donne di Tiziano. Sono bellezze difettive, tutte anticlassiche, quelle di Michelangelo Antonioni: Vanessa Redgrave, Sarah Miles, la stessa Veruschka, Jane Birkin, Gillian Hills sono ben diverse dalle dive allora (ed ora) in auge: visi, corpi, movimenti, atteggiamenti, comportamenti.
L’immagine di Patricia (Sarah Miles) sorpresa dal marito Thomas (David Hemmings) mentre fa l’amore con un altro, il modo in cui Patricia guarda in viso Patrick divisa fra piacere, sofferenza, persino ansia di essere da lui compresa, è impensabile come complessità per un altro regista, complessità che ad Antonioni riesce semplice. E l’episodio, quello che tutti ricordano, della biondina (Jane Birkin) e della brunetta (Gillian Hills) che aspirano a diventare o modelle del grande fotografo Thomas e cercano di lusingarlo in tutti i modi venendone pure maltrattate, ha una sua catarsi felicissima nell’orgetta (intelligentemente non mostrata) fra i tre in mezzo alla carta viola e con le due ragazze che infine, pazienti e contente, rivestono il fotografo per il momento asservito. E’ un erotismo di fantasia e libertà, più che di eversione finalizzata a non si sa che.
C’è quando c’è, quando non c’è, si vede che c’è qualcosa d’altro. Anche l’ambiguità del rapporto fra Thomas e Jane (Vanessa Redgrave) è risolta in questo modo: non è solo un tentato scambio, un do ut des dei rollino fotografico che ha lui ed il corpo che ha lei: quei due si piacciono pure, è una negoziazione però di tipo amoroso. E’ proprio tutto questo che dà fastidio perché l’imprevedibilità degli accadimenti, perfino la casualià della vita momento per momento, va bene se ragionata, discussa, rifatta slogan, non va bene se mostrata in azione. Vorrebbero una imprevedibilità, però che si desse una regolata, ‘sta imprevedibilità, che diventi visione di vita, sistematica e coerente. Invece qui c’è l’Es di Groddeck che sfotte il signor Ego, però non volendone prendere il posto, stando per i fatti suoi che sono almeno più divertenti.
L’altro tema è il potere: come si gioca il potere nella Londra del 1966. Esprime l’antipotere, Antonioni? Certo che no, il suo Thomas è durissimo sul lavoro, con le modelle ed i collaboratori. Sa che la Rolls Royce se l’è comprata con la moda e non ci si ribella, ci mette un dippiù di scarna e strumentale efficienza, di cui fa parte il simulato amplesso con Veruschka, così le foto riescono meglio a lui e lei può dare di più uscendo dagli schemi. Ma Thomas è uno che più che amare il potere, ama il suo lavoro, e quindi va la notte nel dormitorio pubblico perché anche quelle foto gli interessano, ci va e ci dorme. Era facile fare il solito artista non compreso e disinteressato o l’iniziale artista che diventa volgare, Antonioni ha scelto un’altra strada, fra l’altro molto vera, perché succede quasi sempre così, il mondo è di compromessi, e come non esiste quello che non ne accetta mai, così non esiste quello che li accetta sempre. E invece, con lo spadone del moralismo, si vorrebbero separare i buoni dai cattivi. Bella trovata, così i buoni si fanno tutti accademici e concorrono al Premio all’Artista Buono che certamente istituiranno, prima o poi: come sede, vedrei bene Como o Vicenza, ad esempio. Anche l’ingabolamento con Jane, riguardo alle fotografie dietro cui c’è forse un omicidio, da cosa nasce? Dalla curiosità professionale di Thomas, dal suo apprezzamento immediato di questa coppia sul prato, lei giovane, lui in età. E l’episodio della chitarra rock? Il chitarrista incazzoso e probabilmente strafatto che distrugge la sua chitarra calpestandola, rissa fra il pubblico per impossessarsi del prezioso reperto, Thomas a fatica ci riesce, con strappi nel vestito e mal conciato, poi depista gli inseguitori sempre con il prezioso reperto in mano, ce l’ha fatta, tutto bene, e allora ‘sto cacchio di chitarra distrutta si può anche buttare nella pattumiera, così fa, passa un altro che la prende con due dita e poi la butta schifato pure lui. Era pensabile una metafora migliore sulla provvisorietà del potere?
Ma tutto questo gioco Antonioni, come i grandi manieristi: Pontormo. Parmigianino, Rosso, Beccafumi, lo conduce con mano fermissima, la sua casualità non è la percezione primaria, che Antonioni accetta e aspetta (ne ha anche scritto), ma è criticata, ampliata, asciugata, e la grande jeep con gli scatenati scostumati (e simpatici) dell’inizio ricompare nel finale. Un chiasso indiavolato, poi tutti si azzittiscono per guardare la partita a tennis: c’è il campo, ci sono i giocatori, non c’è la pallina, ma fa niente. Ad un certo punto la pallina (che manca) esce dal campo e va vicina ai piedi di Thomas che ci pensa qualche secondo e raccoglie la pallina (che continua a mancare) e la getta nel campo da tennis, che non viene inquadrato, però, nel silenzio, si sente il toc toc della pallina, adesso c’è, ma noi non la vediamo. Così finisce il film, tutti in silenzio ad ascoltare il toc toc di qualcosa che non si vede.
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