Solimano
Il tema, vero e importante, è quello dell’amicizia tradita. Anzi, specifico meglio: dell’amicizia maschile tradita. Il modo (o il rito?…esistono anche i riti satanici…) usato da Avati è geniale: una partita di poker. Io lo so, cosa vuol dire giocare a poker, smisi a ventiquattro anni, con decisione repentina che rispettai, dopo una notte con le carte in mano. Nel film il punto chiave sono i soldi, magari da vincere barando, ma c’è un altro punto, che fu la causa vera per cui smisi: la voglia di prevalere, e di prevalere sugli amici, per maggiore soddisfazione propria. Si raccontano tante storie, riguardo all’amicizia, ancor più che riguardo l’amore, che bene o male ha in sé gli anticorpi per fare pulizia delle menzogne, almeno con se stessi. Per l’amicizia maschile c'è una considerazione di sacralità inviolabile attraverso i decenni, a partire dai banchi di scuola delle medie. Un esempio a tutti noto: “Con la donna di un amico mai!” A pensarci appena un po’, non è che ne esca una grande considerazione per le donne, da una frase del genere. E dell’amore, per giunta. Certe pluridecennali amicizie sono dei fossili utili a chi nella vita non ha voluto o saputo cambiare. Il sistematico come eravamo si finge come siamo, per schivare la generosità, l’apertura, il saper cambiare, quelle sì qualità difficili ma vere. Tutte qualità che i quattro amici del film ignorano, continuando a sviluppare a quarant’anni il copione scritto da liceali: lavori approssimativi, rapporti squallidi, come la scena impagabile in cui Cavina si trova con sua madre che gli ha portato moglie e figli perché almeno passino insieme la notte di Natale, e lui li schizza tristo, perché ha il poker che lo aspetta, non per vizio ma per far soldi ai danni di un amico, soldi gustosi. Quando uscì il film, ci fu qualche velata protesta, ci si augurava un finale se non lieto almeno malinconico, si etichettò Avati di agra crudeltà, ma è così che doveva finire, perché lì nel gruppo non c’è un innocente, neppure lo sfigatissimo Haber che scrive come Vice le recensioni e il cui libro della vita sarà una monografia su John Ford, figurarsi le aspettative del mondo cine-letterario. L’amico sfigato ha una sua forza ed un suo ruolo, c’è in tutte le compagnie: tranquillizza gli altri perché sanno che c’è qualcuno messo peggio di loro. Uno da sfottere serve, specie riguardo le donne. Ma quale aspettativa di amicizia, di lieto fine ci può essere in questi quattro che si mettono d’accordo per pelare un pollo di industriale, chissà come catturato? Infatti finisce che il pollo non è l’industriale, ma proprio uno dei quattro. Amici di questo tipo si leggono negli occhi l’un l’altro il fallimento negli affetti e anche nel lavoro, ci può essere - forse - complicità, non rispetto. Mi è chiaro che Pupi Avati queste cose le sa perfettamente e fatica invece quando in certi suoi film vuol costruire il personaggio positivo, difatti la butta nello scherzo, per creare infine il personaggio patetico, altro che positivo. Niente di strano, è spesso come lui racconta in questo film, quindi è meglio riconoscerlo, altro che accusare il regista di crudeltà. Questo film mi ha fatto cambiare idea riguardo Carlo Delle Piane. Di Avati mi infastidiva la cocciuta insistenza di utilizzarlo in diversi suoi film, ma qui il ruolo giusto l’ha trovato: quello del cinico professionale, arido e triste, con i suoi sozzi discorsi di donne che ogni tanto affiorano durante la partita. O fanno parte del gioco truffaldino. Una parte che gli aderisce perfettamente, mentre in altri film la sua sospetta bontà istigava negli spettatori una gran voglia di cattiveria. Compare ogni tanto nel film Martina, la donna contesa fra Abatantuono e Cavina, compare non reale ma sognata. E' invece reale per pochi duri minuti all’inizio e alla fine del film, ultimo tocco di coerente amarezza.
Il tema, vero e importante, è quello dell’amicizia tradita. Anzi, specifico meglio: dell’amicizia maschile tradita. Il modo (o il rito?…esistono anche i riti satanici…) usato da Avati è geniale: una partita di poker. Io lo so, cosa vuol dire giocare a poker, smisi a ventiquattro anni, con decisione repentina che rispettai, dopo una notte con le carte in mano. Nel film il punto chiave sono i soldi, magari da vincere barando, ma c’è un altro punto, che fu la causa vera per cui smisi: la voglia di prevalere, e di prevalere sugli amici, per maggiore soddisfazione propria. Si raccontano tante storie, riguardo all’amicizia, ancor più che riguardo l’amore, che bene o male ha in sé gli anticorpi per fare pulizia delle menzogne, almeno con se stessi. Per l’amicizia maschile c'è una considerazione di sacralità inviolabile attraverso i decenni, a partire dai banchi di scuola delle medie. Un esempio a tutti noto: “Con la donna di un amico mai!” A pensarci appena un po’, non è che ne esca una grande considerazione per le donne, da una frase del genere. E dell’amore, per giunta. Certe pluridecennali amicizie sono dei fossili utili a chi nella vita non ha voluto o saputo cambiare. Il sistematico come eravamo si finge come siamo, per schivare la generosità, l’apertura, il saper cambiare, quelle sì qualità difficili ma vere. Tutte qualità che i quattro amici del film ignorano, continuando a sviluppare a quarant’anni il copione scritto da liceali: lavori approssimativi, rapporti squallidi, come la scena impagabile in cui Cavina si trova con sua madre che gli ha portato moglie e figli perché almeno passino insieme la notte di Natale, e lui li schizza tristo, perché ha il poker che lo aspetta, non per vizio ma per far soldi ai danni di un amico, soldi gustosi. Quando uscì il film, ci fu qualche velata protesta, ci si augurava un finale se non lieto almeno malinconico, si etichettò Avati di agra crudeltà, ma è così che doveva finire, perché lì nel gruppo non c’è un innocente, neppure lo sfigatissimo Haber che scrive come Vice le recensioni e il cui libro della vita sarà una monografia su John Ford, figurarsi le aspettative del mondo cine-letterario. L’amico sfigato ha una sua forza ed un suo ruolo, c’è in tutte le compagnie: tranquillizza gli altri perché sanno che c’è qualcuno messo peggio di loro. Uno da sfottere serve, specie riguardo le donne. Ma quale aspettativa di amicizia, di lieto fine ci può essere in questi quattro che si mettono d’accordo per pelare un pollo di industriale, chissà come catturato? Infatti finisce che il pollo non è l’industriale, ma proprio uno dei quattro. Amici di questo tipo si leggono negli occhi l’un l’altro il fallimento negli affetti e anche nel lavoro, ci può essere - forse - complicità, non rispetto. Mi è chiaro che Pupi Avati queste cose le sa perfettamente e fatica invece quando in certi suoi film vuol costruire il personaggio positivo, difatti la butta nello scherzo, per creare infine il personaggio patetico, altro che positivo. Niente di strano, è spesso come lui racconta in questo film, quindi è meglio riconoscerlo, altro che accusare il regista di crudeltà. Questo film mi ha fatto cambiare idea riguardo Carlo Delle Piane. Di Avati mi infastidiva la cocciuta insistenza di utilizzarlo in diversi suoi film, ma qui il ruolo giusto l’ha trovato: quello del cinico professionale, arido e triste, con i suoi sozzi discorsi di donne che ogni tanto affiorano durante la partita. O fanno parte del gioco truffaldino. Una parte che gli aderisce perfettamente, mentre in altri film la sua sospetta bontà istigava negli spettatori una gran voglia di cattiveria. Compare ogni tanto nel film Martina, la donna contesa fra Abatantuono e Cavina, compare non reale ma sognata. E' invece reale per pochi duri minuti all’inizio e alla fine del film, ultimo tocco di coerente amarezza.
Non ho visto questo film, ma l'argomento "amici,compagni di scuola" è una vera scoperta da parte di Avati, di rapporti che strutturano la nostra società in modo incisivo e che non sono nei manuali della sociologia. Il gruppo di amici fondato su banchi di scuola permane per tutta la vita, specialmente tra maschi. Uno per tutti e tutti per uno nel le carriere e negkli aiuti reciproci come nel divertimento. Una consorteria imprevedibile, a volte chiusa e, avolte dedita al male. per le donne le cose non stanno così. Difficilmente fanno gruppi duraturi, a causa della famiglia che prevale. Sinceramente temo i gruppi di amici dopo averne conosciuto le imprese in tanti anni di professione. Per questo evito di vedere i film che celebrano le imprese degli amici in carriera.
RispondiEliminaIsabella, dell'amicizia tutti a parlar bene, più ancora che dell'amore, ma se si scava un momento si scopre che più che amicizia si dovrebbe parlare di collusione. Se imparassimo ad evitare certi paroloni troppo sublimi, e parlassimo di cose molto concrete, fiducia e rispetto, non sarebbe meglio? Ma è tipico del carattere italico praticare le scorciatoie verso l'alto pur di non fare i conti con quello che c'è veramente nel piatto.
RispondiEliminaMi sento di consigliarti questo film: è duro ma molto sincero, cosa piuttosto rara, nei film italiani su questi temi, in cui c'è sempre la trappola del sentimentalismo, comodissima per chi non vuol cambiare.
saludos
Solimano
Una volta un amico mi chiese uno scambio di fatture. Gli risposi picche e lui: "Ma siamo o non siamo amici? ". Da quel dì ho capito che l'amico è colui che è disposto a fare qualunque cosa per te, anche illegale. Per questo mi preoccupo quando ai matrimoni s'invitano solo gli amici. Poi ci sono gli amici degli amici, la rete dei favori reciproci che si riproduce secondo una struttura ramificata,sempre aperta, infinita e impossibile da conoscere.
RispondiEliminaUn gran bel film.
RispondiEliminaIsabella, i matrimoni costituivano grandi occasioni per costruirne di nuovi, di matrimoni. E' così ancora oggi. Sarà l'aria che tira nelle cerimonie nuziali, sarà l'abito bianco, che sta tornando di moda (è comprovato), fatto sta che nuove conoscenze, specie fra lontani parenti della sposa e dello sposo, sono foriere di opportunità. C'è anche un altro motivo: tutte e tutti si fanno belli per un matrimonio, non vanno in giro conciati. Questo aiuta.
RispondiEliminasaludos
Solimano
Giuliano, mi hai dato un'idea: scrivere il film della nostra vita attraverso i film. Altrimenti non si capisce perché si vedano i film. Come le opere d'arte: o ci parlano e vivono con noi o sono mute ed estranee, autodistruggendosi. Così,non c'è bisogno dei 451°.
RispondiEliminaIsabella, è esattamente quello che stiamo facendo. In fondo, si parla sempre di se stessi, ma farlo direttamente è difficile: sa di pedante narcisismo, di autoassoluzione, di insincerità voluta o ingenua (che è ancora peggio). Occorre fare il giro lungo, coinvolgendo qualcosa o qualcuno che al tempo stesso è in noi ed al di fuori di noi. Certi film sono opere d'arte che adempiono alla perfezione allo scopo. Facciamo anche il loro bene:senza il fruitore (Spettatore, nel nostro caso) l'opera d'arte è muta e estranea, come dici benissimo.
RispondiEliminasaludos
Solimano