Solimano
Mio nonno paterno suonò per trent’anni i piatti nella banda del suo paese, Sasso, che poi si chiamò Sasso Marconi. Una delle conseguenze fu che chiamò due figli Otello e Carmen, nomi in Emilia ancora più strani di Mamante ed Ildebrando, allora non rari. Anche quando era molto vecchio e svolgeva qualche lavoro nell’orto o nella legnaia, canticchiava a voce bassa - ma non tanto - l’opera da cui aveva preso il nome della figlia. Nella Carmen sapere suonare i piatti a tempo è importante, certamente la sua preferenza nasceva da questo. Quindi, ben prima di appassionarmi alla musica, mi ero creato un piccolo mito, confortato poi dall’ascolto radiofonico dei concerti Martini & Rossi, mi sembra al lunedì sera: certi brani della Carmen ti piacciono da subito e non li abbandoni più. Anni dopo, durante il viaggio di nozze in Andalusia, andai a spettacoli di flamenco a Granada, in seguito imparai ad ascoltare la Carmen in francese (cantata e recitata) e provai a leggere Mérimée, che non mi piacque molto. Era inevitabile che andassi a vedere il film di Carlos Saura, pur sapendo poco del regista e nulla degli interpreti: mi bastava sapere che stabiliva un collegamento fra flamenco e Carmen.
Ma il film mi spiazzò per due motivi.
Il primo è che mi aspettavo che la protagonista Laura Del Sol - molto bella - fosse al centro di tutto, e l’inizio del film lo confermava, con Antonio Gades che cerca un nuovo talento per un suo balletto e trova Laura in cui crede e di cui si innamora. Ma quando cominciavano a ballare, sbucava una che nella storia del film c’entrava poco, meno bella di Laura, ed era lei la protagonista, finché ballavano. Di Cristina Hoyos non avevo mai sentito parlare, ma la colpa non era mia: se andate a leggere oggi certe recensioni dopo l’uscita del film, della Hoyos non parlano, cosa stranissima, perchè non c’era niente da fare, il film era doppio: la storia fra Gades e la Del Sol, e i brani col flamenco, in cui della storia ci si scordava. Un felice difetto di sovrabbondanza.
Il secondo motivo fu che il film stabiliva una differenza nella vita dei ballerini: quando ballano e quando non ballano sembrano persone del tutto diverse. In pochi attimi, le stesse persone che ti hanno conquistato diventano uomini e donne più ottusi che normali, non sembrano neppure le controfigure di quelli che erano tre minuti prima.
Come ebbi la fortuna di accorgermi - non c’era verso - che quando ballavano il centro era Cristina Hoyos, così mi resi conto che la scelta delle due rappresentazioni, una sublime ed una meschina, era frutto della genialità del regista. Così ha da essere, ed è la differenza grande che ha il flamenco rispetto a quasi ogni altro tipo di danza. Non ha poi grande importanza la venustà delle donne e degli uomini, neppure una perfetta grazia nei movimenti, il flamenco è una possessione, credo che persino nelle più bieche rappresentazioni per turisti in sandali e calzini corti, permanga questo contagio: non si può ballare il flamenco da burocrati dei colpi di tacco e del batter le mani. Ci metteranno anni ad imparare i passi, i movimenti, ad impostare le voci, a suonare le chitarre, ma in fondo si nasce così e magari si è brutti, pure sciocchi, salvo quando il rito si svolge, che tutto passa e si dimentica. Cosa significa? Che il flamenco è una scorciatoia, per chi ci nasce portato, verso una delimitata sublimità, un paradiso (o inferno?) che irrompe in quelle vite di per sé forse mediocri. Giungo a dire - forse esagero - che la predisposizione al flamenco potrebbe voler dire la non predisposizione a qualcos’altro di importante. Persino Antonio Gades mi fece quella impressione: esuberante dominatore durante il ballo, diveniva un coreografo da tollerare con ironia quando il ballo era finito.
Questo mi disse Carmen Story, spiazzando le mie aspettative, e cose diverse ma in fondo analoghe mi diedero le esperienze con la grande danza moderna, alcuni degli spettacoli di Maurice Bejart e Pina Bausch: una finezza sbalorditiva che non cancella ma esalta l’animalità primigenia.
Una lettura perfetta del film e del flamenco
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