Va, vis et deviens di Radu Mihaileanu (2005) Sceneggiatura di Alain-Michel Blanc, Radu Mihaileanu Con Yaël Abecassis, Roschdy Zem, Moshe Agazai, Moshe Abebe, Sirak M. Sabahat, Roni Hadar, Yitzhak Edgar, Rami Danon, Meskie Shibru Sivan, Mimi Abonesh Kebede, Raymonde Abecassis Musica: Armand Amar Fotografia: Rémy Chevrin (140 minuti) Rating IMDb: 8.0
Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce
Non sapevo chi fossero i Falasha né conoscevo “l’operazione Mosé”. L’ho scoperto vedendo il film “Vai e vivrai”. Lo stesso regista rumeno Radu Mihaileanu venne a conoscenza per caso di questa storia, durante il lancio americano di Train de vie.
"Mi ricordavo dell'operazione Mosè e della rimpatriata degli ebrei etiopi in Israele nel 1984", spiega il regista "ma non mi ero mai reso conto dell'enormità di questa avventura umana. Poi grazie a un incontro con un Falasha, a Los Angeles, ho capito che in tutta questa storia loro erano rimasti delle comparse. Quest'uomo mi ha raccontato la sua epopea, il suo viaggio a piedi fino al Sudan dove tutti gli ebrei erano in pericolo di morte, la vita nei campi dei rifugiati, la loro accoglienza e le loro difficoltà in Israele. Ero allo stesso tempo commosso e indignato dal fatto che non se ne sia parlato prima. Ho iniziato così ad approfondire, e ciò ha alimentato la mia emozione, il mio desiderio di conoscere meglio i Falasha e, poco a poco, la voglia di dedicare loro un film". I Falasha erano gli “ebrei d’Etiopia”: cioè gli 8.000 neri di religione ebraica, discendenti del re Salomone e della regina di Saba, che nel 1984 una carestia e la repressione del governo etiope costrinse, insieme a altre centinaia di migliaia di africani, a abbandonare la propria terra ed emigrare verso il Sudan, il cui governo musulmano fu però ostile nei loro confronti. Per soccorrerli Israele varò allora «l’Operazione Mosé»: il governo di Israele decise allora di trasportarli nel proprio paese attraverso un ponte aereo.
L’attore Sirak Sabahat, 23 anni, un Falasha che ha vissuto questa vicenda. Così, vent’anni dopo, Mihaileanu affida proprio a Sirak il ruolo di protagonista del suo Vai e vivrai. Schlomo è un bambino cristiano. Nel campo profughi, una madre ebrea perde il bambino appena nato. La madre capisce come la possibilità di sopravvivere in quel campo profughi sia quasi nulla per suo figlio, e lo affida alla donna ebrea per farlo fuggire dal campo fingendosi ebreo. E’ così che Schlomo riesce ad arrivare in Israele. Si salverà, ma dovrà continuamente nascondere il suo segreto.
In Israele è adottato da una famiglia di ebrei francesi, benestante e di sinistra, che vive a Tel Aviv. Cresce con la paura che qualcuno scopra il suo segreto e le sue menzogne: né ebreo, né orfano, solo nero. Diventa un bambino triste, tiene gli occhi sempre bassi e li alza solo di notte, quando nessuno può vederlo. Guarda la luna sognando di tornare dalla madre che ha dovuto lasciare.
Pian piano tornerà a rivivere, conoscerà l'amore, il giudaismo e la cultura occidentale ma anche il razzismo e la guerra nei territori occupati. Diventerà ebreo, israeliano, francese, tunisino, ma non dimenticherà mai la vera madre rimasta in Sudan e che segretamente e ostinatamente sogna di potere ritrovare. Nel titolo originale c’è tutto il significato del film.
Il monito «Va, vis et deviens!», tradotto in maniera riduttiva nel titolo italiano, si presta a due interpretazioni. Si riferisce naturalmente alle parole che la madre dice al figlio prima di lasciarlo, parole con le quali gli spiega le ragioni del suo gesto: un lascito profetico che toccherà a Schlomo realizzare. I tre comandi corrispondono ad altrettanti momenti della sua vita: “va” è il distacco e l’esodo, “vivi” è l’accettazione della nuova esistenza che racchiude l’avvicinamento alla famiglia adottiva e le esperienze della vita di un qualsiasi adolescente, infine “diventa” indica la tappa conclusiva del suo percorso formativo.
Un secondo livello di analisi ci riporta alla cultura ebraica che si rivela anche dietro l’agire della mamma cristiana di Schlomo «Va, vis et deviens!» non solo corrisponde all’atto doloroso d’amore di una madre, ma richiama fortemente l’imperativo esistenziale su cui si regge la filosofia semitica. La Loewenthal, esperta di giudaismo, fa risalire la ragione della sopravvivenza millenaria di uno dei popoli più piccoli della Terra ancora una volta al rispetto dei Testi Sacri: «dalla Bibbia in poi, il primo comando imposto ai figli d’Israele dal cielo è: Sopravvivi!, Esisti!, Vivi! [...] “Scegli la vita!” è il precetto fondamentale dell’ebraismo, che va preso alla lettera, tale qual è. Se non altro per ubbidienza a Dio, dunque, gli ebrei sono sopravvissuti» (Loewenthal 2002).
Ma direi che questo imperativo è proprio di tutti quelli che, se vogliono vivere, devono lasciare la propria terra e cercare altrove la propria salvezza.
Schlomo diventa medico, assolve così i tre precetti e torna come dottore, alla ricerca della sua prima madre, nel campo profughi da cui diciassette anni prima era partito.
Nella sequenza conclusiva Mihaileanu racconta la storia non narrata nel film, quella di coloro che sono rimasti in Africa. Secondo il regista «il cinema è l’arte del non mostrare. Il vero soggetto è ciò che non viene mostrato attraverso l’immagine». Lo spettatore dovrebbe sentirsi stimolato e chiedersi cosa è successo in quel campo africano durante quei diciassette anni. La luce ha nascosto la storia dell’Africa, terminata quando i fari dei camion alla partenza avevano rubato la madre allo sguardo del bambino, e torna a mostrarla quando il riflesso del sole su una latta attira lo sguardo di Schlomo adulto che vi vede proiettata la sagoma della donna.
Il lamento profondo e sordo della madre che riabbraccia il figlio si allarga nel finale, con un’inquadratura di tutte le persone ammassate nel campo: un continente immobile che invano cerca una via di uscita al proprio terribile destino quello di non poter né essere né diventare.
Il diritto alla vita sembra sempre più spesso passare attraverso una dichiarazione di appartenenza e il più debole è costretto a tutto anche a mentire sulla propria identità per conquistarsi un posto nel mondo. Cosa può capire un bambino delle regole dei grandi, quando tenta di coprirsi gli occhi terrorizzati per non svelare il suo segreto? Eppure per Schlomo ci sono mani tese e braccia aperte, quelle di una nuova famiglia che lo accoglie con affetto, tra le amorevoli cure di una madre protettiva, pronta a leccargli il volto di fronte a chi lo discrimina.
"Schlomo è il nostro mondo, - dice il regista - che ha bisogno di essere accudito e salvato dal cuore grande delle madri”.
Io invece mi ricordavo bene della storia dei Falasha, perché all'epoca dei fatti mi aveva colpito molto.
RispondiEliminaPremetto che non credo mai a queste storie (i discendenti di Salomone e della regina di Saba??), ma quando un popolo intero deve lasciare la sua terra è sempre terribile.
Qui si è trovato anche il modo di rendere in maniera "poetica" la storia, sia pure attraverso una storia vera, ed è sempre bello poter avere una storia da narrare, per non dimenticare.
E' un film che tocca il cuore bello come non ne vedo da molto tempo...su rete 4 lo danno molto tardi e 2.20 + TG non mi è bastata la cassetta da 240 a registrarlo.
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