L'oro di Napoli, di Vittorio De Sica (1954) Dal libro di Giuseppe Marotta, Sceneggiatura di Vittorio De Sica, Giuseppe Marotta, Cesare Zavattini Con Silvana Mangano, Sophia Loren, Eduardo De Filippo, Paolo Stoppa, Erno Crisa, Totò, Lianella Carell, Giacomo Furia, Tina Pica, Alberto Farnese, Tecla Scarano, Mario Passante, Pierino Bilancioni, Lars Borgström, Gianni Crosio, Nino Imparato, Ubaldo Maestri, Vittorio De Sica, Roberto De Simone, Teresa De Vita, Irene Montaldo Musica: Alessandro Cicognini, Fotografia: Carlo Montuori (131 minuti) Rating IMDb: 7.5
Solimano
E' il terzo post che scrivo su L'oro di Napoli di Vittorio De Sica, dopo i due dedicati agli episodi Il funeralino ed I giocatori. Ora mi occupo di altri due episodi, fra i sei che compongono il film. Si tratta degli episodi Il guappo e Il giocatore. Il De Sica paragonabile a quello di Ladri di biciclette e di Umberto D è ben presente nei due episodi di cui ho già scritto. Negli altri, ci sono alte qualità attoriali e registiche, ma ci sono anche i compromessi a cui De Sica era costretto dai produttori, dagli attori, dagli sceneggiatori e... da se stesso, con i problemi economici che si creava da solo.
Comincio con l'episodio Il guappo:
Don Saverio Petrillo (Totò) indossa il cappotto (il Vesuvio sullo sfondo attesta che siamo a Napoli, ma d'inverno), abbozza un sorriso, ma in realtà è un uomo infelice. Perché è vestito così di scuro? E' al cimitero, non per la tomba di un suo familiare, ma per la tomba della moglie del guappo Don Carmine Savarone (Pasquale Cennamo), che non ha tempo per andare al cimitero quindi manda Saverio, che accudisce la tomba e dispone i fiori. Non è una cortesia di Saverio, è un ordine di Carmine, che da più di dieci anni vive in casa di Saverio, comandando a bacchetta lui, la moglie di Saverio, Carolina ( Lianella Carell) e i loro quattro figli.
Tutto cominciò alla dipartita della moglie di Don Carmine. Saverio gli disse: "Non state da solo, Don Carmine, in questi momenti dolorosi, venite da noi qualche giorno..." Sono passati dieci anni e Don Carmine è ancora lì. Tutto si svolge in base a sue precise disposizioni, dalla assegnazione dei posti a tavola, alle spese gastronomiche, alla stiratura delle camicie ed in particolare dei colletti, che devono essere durissimi, quasi come il guappo che li indossa, quindi è Don Carmine che stabilisce la giusta dose di amido.
Sotto le feste la situazione si complica, perché ognuno vorrebbe essere nella propria famiglia, e invece la famiglia Petrillo si trova il guappo di quartiere in casa. Saverio ascolta la musica delle cornamuse, perché alla musica è affezionato, in un certo senso è la musica che gli dà da mangiare.
Musica un po' sui generis... Don Saverio Petrillo fa il pazzariello: vestito in modo singolare, alla guida di uno scalcinato gruppetto di suonatori, cammina per strada seguito soprattutto da ragazzi e la piccola processione raggiunge il negozio di cui si festeggia l'apertura. Chiaramente, questo mestiere di pubblicitario ante litteram è condizionato dal favore del guappo di quartiere, ma suvvia, dieci anni in casa! Don Saverio si rode, perché, oltretutto, sente la disapprovazione della moglie e dei quattro figli perché lui non osa affrontare Don Carmine.
Ma improvvisamente cambia tutto. Don Carmine esce a far bisboccia con amici suoi e si sente male: gli diagnosticano una malattia cardiaca per cui deve evitare qualsiasi tipo di emozione, se no rischia la vita. Don Carmine si trascina come un rottame a casa sua, pardon, a casa di Saverio, raccontandogli cosa è successo. E Saverio coglie l'occasione che aspettava da anni: caccia di casa Don Carmine, gli tira dietro dalla finestra bauli e oggetti di ogni tipo. La moglie ed i quattro figli lo guardano un po' preoccupati un po' speranzosi dalla piazzetta sotto casa. Don Saverio può finalmente fare quello che non gli è mai stato consentito: sedersi a capotavola a casa sua.
La famiglia Petrillo, finalmente sola, festeggia con un brindisi la nuova vita che si prospetta. A stappare la bottiglia ci pensa Saverio, che ha recuperato il rispetto della moglie e dei figli.
Ma riappare Don Carmine Savarone, più possente che pria. Nel cuor della notte, si è sottoposto ad una visita medica di un luminare in cardiologia, che dopo accurati esami gli ha detto che può stare tranquillo: il suo cuore è sanissimo, si è sentito male solo per indigestione: troppo cibo e troppo vino.
Qui la maggior parte degli affabulatori del film non la racconta giusta. Dicono che Don Carmine si ritira sconfitto da Don Saverio e dalla famiglia. La realtà è diversa. Don Saverio si atterisce nel vedere il ritorno di Don Carmine e la famiglia è come lui, non sanno che fare. E' Don Carmine, sentimentale come ha da essere un vero guappo, che si accorge che in quella casa nessuno lo vuole e decide di andarsene da un'altra parte.
L'episodio è gradevole, ben raccontato, Totò è bravissimo, il pazzariello è divenuto famoso, ma che dire? Un ottimo episodio di commedia all'italiana ambientata a Napoli e che segue gli stereotipi della napoletanità che erano già nel libro di Giuseppe Marotta, di cui inserisco, a mo' di curiosità culturale, tre brani tratti dal suo libro Marotta Ciak Bompiani, 1958.
Ciò che scrive Marotta è inesorabilmente datato, non mi convince il suo modo di umiltà finta e di livore vero, non mi convince il suo sotteso credere che ci fosse quasi una congiura ai suoi danni. E credo che il merito del molto di buono che c'è nel film l'Oro di Napoli sia della genialità di Vittorio De Sica. Un certo tipo di napoletanità ce l'abbiamo sotto gli occhi da sempre, e non possiamo farcela piacere:
Un libro che non ha mai smesso, dal '47 a oggi, di essere venduto; un libro che ricorre e ricorrerà puntualmente, oso affermare, come le tasse. Perché? È una domanda che nessun pontefice letterario si rivolge. Ma il nostro é un paese dove Panzacchi ebbe, dalla Cultura e dai Governi, più lodi e riverenze di Leopardi. Qui Giovanni Verga diceva a Ferdinando Martini: «Ossequi, Eccellenza». Forse gli baciava la mano.
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Quando il film tratto dal mio più fortunato volume di racconti napoletani fu presentato, io non volli, s'intende, parlarne da critico. Dissi: fate conto, amici, che il peggio del film sia colpa mia, e che il poco o molto che esso ha di buono, sia merito di Zavattini e De Sica. Non potevo essere meno vanitoso, credo. C'e chi si uccide col revolver, c'è chi si uccide con i barbiturici o gettandosi dalla terrazza, ma c'è chi (io, io) si uccide con l'umiltà.
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lo e Zavattini, che fummo gli sceneggiatori, commettemmo un grosso errore. Non avremmo dovuto abbandonarci alla suggestione panoramica del titolo, che ci obbligò ai capitoletti, al frammento. La penna é una cosa, l'obiettivo cinematografico un'altra. Scorci e sintesi e inviti a immaginare (che spesso formano il pregio di un libro) non sono concepibili in un racconto visivo. Ma anche ridotta alla nuda sostanza, ciascuna vicenda, originariamente stivata per miracolo in cinque o sei paginette, esigeva un intero film.
Vengo all'altro episodio, Il professore, che è quello che chiude il film. Don Ersilio Miccio (Eduardo De Filippo), vende saggezza. Qui lo vediamo mentre utilizza un lungo pettine di pulizia sospetta come se fosse una bacchetta d'orchestra. In realtà porta il cravattino perché alla sera suona in un complesso un repertorio di canzoni di tradizione.
Normalmente, veste in modo più dimesso ed anche lo studio in cui esercita la sua seconda professione (second career direbbero oggi) è una specie di enorme ripostiglio in cui c'è di tutto. Durante l'episodio lo vediamo affrontare due problemi delicati. Il primo è che giaculatoria iscrivere sotto l'altarino alla Madonna che una fedele (Tina Pica) accudisce. Il secondo è persuadere un aspirante guappo a non sfregiare la fidanzata perché gli ha negato la prova d'amore.
Ma l'importante problema che trova soluzione durante l'episodio è quello creato dal nobile Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornai (Gianni Crosio). Questi, col solo pretesto di abitare nel palazzo avito ubicato in fondo al vicolo, pretende che quando esce in macchina cessino tutti i commerci che si svolgono in mezzo al vicolo, asserendo che altrimenti la macchina non passa ed inoltre ricorrendo alle forze dell'ordine con la sola scusa che tali commerci sono vietati.
Un comitato si presenta da Don Ersilio perché non se ne può più della spocchia del nobiluomo Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornai.
Don Ersilio, che qui sopra si vede in altro abbigliamento mentre si lucida le scarpe, prende a cuore la faccenda, perché il popolo va ascoltato, acciocché non sorgano guai peggiori. Quindi prospetta come soluzione definitiva il pernacchio, ma un pernacchio di tipo assai sofistico, in cui occorre umettare le labbra, disporre la mano in modo acconcio, allenarsi a pronunziare di un sol fiato un impegnativo nome come Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornai. Tutto prima del satori del Prrrrr!!! Il comitato riceve, dopo una dettagliata spiegazione esemplificativa, l'incitamento a studiare con solerzia, ma in segreto, perché l'effetto sorpresa è importante.
Finalmente si passa all'azione, e qui sopra vediamo il volto del nobile Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornai, inseguito dal Prrrrr!!! regolamentare però effettuato con labbra umettate, mano parallela al suolo terrestre e con una durata che arriva quasi a quindici secondi, un'eternità. Non una cosetta secca secca così tanto per farla, proprio una rivoluzione, la rivoluzione del pernacchio. Appunto.
Come immagine di chiusura inserisco Don Ersilio Miccio durante il suo lavoro serale di suonatore di violino. Non suonatore di chitarra, come erronemante si affabula, ma proprio di violino. O è una viola?
Si vede la finezza di De Sica: gli episodi sono di Totò e di Eduardo, lui fa un passo indietro. Del resto, lo fa anche con il bambino nell'episodio dove recita lui in prima persona: e sono queste le cose che fanno voler bene a De Sica.
RispondiEliminaFanno così anche i grandi direttori d'orchestra, come Claudio Abbado: fare un passo indietro e lasciare il palco agli altri, ma avendo tutto sotto controllo. Ed è tipico dei grandi che non sono grandi solo sul palcoscenico.
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