Solimano
Dal Re Lear di Shakespeare sono stati tratti circa quindici film di cui alcuni per la televisione (ma non è detto che questi siano opere minori). Conosco abbastanza bene il film Ran di Akira Kurosawa, fra gli altri mi incuriosisce soprattutto il Rer Lear del 1969 di Grigori Kozintsev, che fra l'altro utilizza musiche di Shostakovic, ma anche quelli di Godard del 1987 (con Burgess Meredith e Woody Allen), di Andrew McCullough del 1953 (con Orson Welles), di Michael Elliott del 1984 (con Laurence Olivier). Ho scelto di vedere il Re Lear di Peter Brook perché incuriosito dal Mahabharata, su cui Giuliano ha scritto sei post, che ogni giorno ricevino visite nel nostro archivio, e non credo che siano visite estemporanee vista la precisione delle chiavi di ricerca Google. Va detto che Peter Brook ha fatto il ilMahabharata circa diciotto anni dopo, ma ho trovato una forte somiglianza sotto un aspetto: la serietà di tipo quasi rituale della rappresentazione di Brook. C'è un'altra somiglianza, forse non a tutti nota: anche il Re Lear è una storia molto antica, anche se la fonte diretta di Shakespeare è quasi sicuramente l'edizione delle Cronache di Holinshed pubblicata nel 1587. Ma la Historia Regum Britanniae di Geoffrey di Monmouth è del secolo XII, e si risale ancora più indietro sino alla mitologia celtica.
Sono convinto che più un mito è antico più è vero, della verità profonda che c'è nel mito, risposta temporanea (di un tempo che dura secoli e secoli) a problemi che non si è ancora in grado di risolvere o di guardare in faccia direttamente. Non è detto che quando al mito non si crede più siano rose e fiori:cerco di spiegarmi con un episodio che mi è stato raccontato, la cui morale è evidente. Quella mattina, era prevista una escursione in montagna, abbastanza lunga ma la guida diceva che il sentiero era agevole, quindi si trattava più di una passeggiata che di una escursione. Però c'era una nebbia piuttosto fitta, ed erano incerti se andare o no, ma si riscontrò che il sentiero era ben segnato, quindi procedettero. Camminarono per due ore, dovevano arrivare ad un rifugio, ed erano fiduciosi che la nebbia prima o poi si sarebbe dissolta. Procedevano tranquilli, chiacchierando ogni tanto. Quando giunsero al rifugio, finalmente la nebbia si alzò e ci fu un bel sole. Si avviarono per la discesa, ma fu molto meno tranquilla della salita: poiché la nebbia non c'era più, si accorsero che quel sentiero così ben segnato, così facile, camminava quasi sull'orlo di precipizi che la nebbia aveva nascosto. Non parlarono più fra di loro: ogni passo andava misurato perché poteva essere pericoloso, solo che adesso il pericolo lo vedevano.
Sulla destra del post ho inserito le immagini delle tre figlie di Re Lear all'inizio della tragedia, quando il padre chiede a loro di esprimere l'amore che provano per lui, in sequenza Goneril, Regan e Cordelia. Sullo sfondo dell'immagine di Goneril si vede Cordelia, che è l'unica a non reggere quel trofeo simbolo del potere.
Per secoli, il Re Lear fu rappresentato modificando il finale: Cordelia si salvava e sposava Edgar. Penso che le modifiche fossero fatte non per attenuarne la crudeltà, che è spesso presente in Shakespeare, ma perché nel Re Lear la lotta di potere era difficilmente accettabile, in quanto si svolgeva all'interno della famiglia, tra padri e figli, tra fratelli, ed in modo sistematico. Gli antichi romani non prevedevano nelle loro leggi il delitto di parricidio, proprio per escluderlo dagli eventi possibili. Il potere è uno dei temi più grandi di Shakespeare, che lo tratta spesso, mai come nel Re Lear in cui la lotta per il potere è totalizzante. Infatti la storia di Lear ha un suo doppio: la storia di Gloucester e dei due suoi figli, il legittimo Edgar ed il bastardo Edmund. Un bastardo importante compare in un'altra opera di Shakespeare, la Storia del Re Giovanni, ma il Bastardo Faulconbridge è un personaggio positivo, il più vivo di quella Storia.
Il tempo per una comprensione più piena del Re Lear è adesso, in cui tanta nebbia si è diradata e si vede con chiarezza come la lotta di potere all'interno delle famiglie non solo è possibile, ma pressoché inevitabile. Ci si accorge anche che le parole di Cordelia all'inizio, quelle che suscitano la reazione di Lear, non sono stente, inopportune, provocatorie, ma semplicemente vere: così ha da essere il rapporto, proprio come dice Cordelia. Succede un fatto strano: proprio chi, nella vita di ogni giorno è coinvolto in lotte di potere di ogni tipo, è quello che più esalta e si attiene ai famosi valori familiari, come se fossero una oasi nel deserto. Un fenomeno di anestesia morale difficilmente evitabile, per fortuna oggi è più difficile andare in giro con simili orpelli.
Cerco di capire il modo che ha usato Peter Brook partendo dalle immagini che ho scelto. Da un punto di vista non mi soddisfano perché sono segnate, quasi brutte. Eppure funzionano perché danno il senso del lavoro del regista, nel desolato paesaggio invermale dello Jutland: fare in modo che la natura sia in piena corrispondenza con l'animo degli uomini e delle donne, proprio come voleva Shakespeare, con la genialità della tempesta sui tre matti: Lear, Tom of Bedlam (che è Edgar) e il Fool di Lear. La desolazione non è solo nel paesaggio, persino quello marino, ma è nei volti di Lear, Goneril, Regan, Cornwall, Edmund, Oswald, dei loro scherani, nelle colpevoli ingenuità di Albany, Gloucester e Edgar, nell'incontro notturno dei tre matti, negli interni, con quella sala del trono ripresa da dietro, col trono che sembra un enorme fallo. Fa sempre freddo, in quelle stanze ampie, disadorme e buie e Goneril, Albany e Regan stanno lì a scaldarsi al camino, come se fossero dei contadini.
Non c'è nessuna musica, ogni tanto ci sono rumori, semplici e forti, come lo sbattere di una porta di ferro. Brook voleva che il film durasse poco più di due ore, per questo ha scorciato una serie di scene del testo di Shakespeare. E' una operazione con cui concordo, perché non ha modificato neppure una delle parole di Shakespeare, che sapeva bene che occorreva spiegare tutto al suo pubblico di quella notte di Santo Stefano del 1602 in cui ci fu la prima del Re Lear a Whitehall, presente il re Giacomo I. In particolare molti particolari dei rapporti fra Emund, Cornwall, Albany, Goneril e Regan non ci sono, Brook ha lasciato l'essenziale, con la rivalità delle sorelle che si contendono Edmund. Credo quindi al rispetto del testo letterale, ma non credo sia necessario metterlo tutto, soprattutto al cinema ma anche in teatro. Mi sa più di licenza indebita una traduzione inappropriata, e ce ne sono state tante, basta confrontare due traduzioni fatte a qualche anno di distanza.
In questo modo Brook ha esaltato la potenza tragica del testo, potenza che è nel come sono fatti i personaggi, che si muovono come se qualcosa al di fuori di loro ne determinasse le azioni e prima ancora i pensieri. Questo correre ineluttabile verso una fine tragica che non consente catarsi è ciò che ha fatto definire il Re Lear del tutto impropriamente come opera nichilista. La scelta che ho già detto, quella di modificarne il finale (cosa che è durata secoli), non è stata la furberia di bottega di qualche impresario: per il Macbeth, l'Amleto, l'Otello non si fece così, mentre il finale del Re Lear era sentito come insostenibile, in particolare per la morte di Cordelia. Ma il Novecento, definito come secolo breve e crudele, ci ha fatto prendere atto che la tragedia è inserita non solo nel teatro, ma nella storia: i buoni pagano proprio perché sono buoni. Nell'alta liturgia della rappresentazione di Brook il paesaggio del volto di Re Lear si modifica, basta osservare le due immagini: prima il re vecchio, ma potente e prepotente, poi il povero pazzo col volto percorso dalla tempesta e dalle lacrime. Ma proprio dalla disperazione finale di Lear sorgono, come da concime fecondo, parole che tutti abbiamo letto, e che sono fra le più alte che mai siano state scritte, come se la strettoia crescente degli accadimenti e delle colpe personali rafforzasse la possibilità di una liberazione che passa attraverso la cruna del dolore più grande e immedicabile:
LEAR No, no, no, no! Come, let's away to prison;
We two alone will sing like birds i' the cage:
When thou dost ask me blessing, I'll kneel down,
And ask of thee forgiveness: so we'll live,
And pray, and sing, and tell old tales, and laugh
At gilded butterflies, and hear poor rogues
Talk of court news; and we'll talk with them too,
Who loses and who wins; who's in, who's out;
And take upon's the mystery of things,
As if we were God's spies: and we'll wear out,
In a wall'd prison, packs and sects of great ones,
That ebb and flow by the moon.
LEAR No, no, no, no! Orsù,avviamoci alla prigione, noi due soltanto. E canteremo come uccelli in gabbia. E quando mi dirai di benedirti, m'inginocchierò, e ti chiederò perdono. E così vivremo, e pregheremo, e canteremo, e ci racconteremo antiche storie, e sorrideremo alle farfalle dorate, e udremo le novelle di corte dalla bocca di poveri vagabondi: e anche noi converseremo con loro, di chi perde e di chi vince, e di chi è dentro e di chi resta fuori, e ci daremo a riflettere sul mistero delle cose, proprio come se fossimo le spie di Dio. E così, fra le mura d'una prigione, cancelleremo dalla memoria ogni cosa che tocchi di fazioni e di sètte dei grandi di questo mondo, che vanno e vengono così come la marea sotto la luna.
(Traduzione di Gabriele Baldini BUR 1974)
Nelle “Fiabe italiane” raccolte da Italo Calvino ci sono storie che somigliano molto a Re Lear: così a memoria ne ricordo una dove la figlia minore paragona il padre al sale, che ci rimane male perché le altre figlie avevano fatto ben altri paragoni. Penso proprio che sia una storia molto antica... Il bello di queste storie e favole sono le varianti, ogni narratore aggiunge o modifica qualcosa, alla fine non è mai la stessa cosa. Anche di Cenerentole e Pollicini ce ne sono un’infinità, e secondo me questo è molto bello, soprattutto se il narratore è bravo (ma poi i bambini si ricordano tutto, e guai se ti dimentichi un particolare di quello che è stato improvvisato).
RispondiEliminaI miei Lear in teatro sono stati due: uno magnifico, quello di Strehler con Tino Carraro e Ottavia Piccolo, che impersonava sia il Matto che Cordelia (un’idea meravigliosa, basata sul fatto che i due personaggi non sono mai in scena assieme e sulla battuta finale di Lear davanti al cadavere della figlia: “my poor fool hanged...”) (un’idea meravigliosa, se hai sottomano Ottavia Piccolo o Giulia Lazzarini: altrimenti meglio lasciar perdere). L’altro è quello di Ingmar Bergman, in tournée a Milano, che ho trovato molto convenzionale, e non me l’aspettavo: una vera delusione.