lunedì 15 ottobre 2007

Andrei Rubliov: 1. Il giullare

Giuliano
Uno delle prime sequenze di “Andrej Rubliov”, il film dedicato al grande pittore russo, è dedicata all’incontro con un giullare. I tre monaci, uno dei quali è il giovane Andrej, sono in viaggio verso la nuova chiesa che dovranno affrescare; ma comincia a piovere e trovano riparo in un cascinale dove c’è molta gente. Il monaco più anziano vede molto male questi canti e queste battute, ma il giullare, sia pur controvoglia, si esibisce ed è molto bravo, la gente si diverte. Riporto questa scena così come la racconta Tarkovskij stesso nel libro su Andrej Rubliov, edito da Garzanti nel 1992. Nel film c’è una differenza molto significativa rispetto a questo testo: i soldati del principe sfasciano la cetra invece di limitarsi a sequestrarla. Non c’è posto per l’arte, e tanto meno per la satira, in questo mondo di soldati. Poco dopo, seguirà una delle scene più terribili del film, l’accecamento dei pittori, sempre da parte delle guardie, alla quale Andrej Rubliov assiste impotente. Ma questa è la scena dedicata al giullare: il “gusli” è una specie di cetra, o forse un salterio, e “braga” è una delle tante varianti della birra. E il giullare non viene ucciso, come crede Andrej: lo ritroveremo nel finale, vent’anni dopo, nella scena della fusione della campana.

(...) Ed ecco il villaggio. A ridosso dell'ultima isba c'è una costruzione d'argilla, per metà rimessa e per metà casa; a una parete imbiancata sono appesi finimenti, falci, rastrelli e forconi. In mezzo alla stamberga un omino piccolo e gracile con una testa sproporzionatamente grande sta in piedi sulle mani e agitando le gambe in aria grida come un porcellino. La camicia gli scivola giù, coprendogli la faccia e rivelando un ventre sporco e gonfio. Lungo le pareti, sul fieno e su una panca, sono seduti alcuni contadini. Vicino alla panca c'è un secchio di braga, con un mestolo. I contadini ridono rumorosamente, battono le mani, gridano. Scorgendo i monaci, tutti si zittiscono. Il giullare cade a terra, si rimette in piedi, si risistema frettolosamente la camicia e guarda con aria spaventata i nuovi arrivati. Uno dei contadini, evidentemente il padrone, si alza in piedi. «Che cosa vi serve?», chiede a voce bassa dopo qualche istante. «Con questa pioggia... Vogliamo solo aspettare che smetta», risponde Daniil. (...) Il giullare prende dalla panca il suo sacco e comincia a prepararsi: vi ripone il tamburello e tutto il suo povero armamentario. Sembra spaventato, non guarda nessuno, respira pesantemente e dal suo lungo naso gobbo cadono dense gocce di sudore.
«Ma dove vai?», gli chiede qualcuno sconcertato.
«Devo partire», risponde il giullare tossendo e guardando i monaci di sottecchi, «grazie per la vostra benevolenza, addio».
I monaci siedono sotto la finestrella e mangiano qualche provvista che hanno sistemato su uno straccio, senza far caso a nessuno.
«Ma cosa vuoi fare? Aspetta»; un contadino rosso e ridente si getta sul giullare impaurito, cercando di dissipare l'atmosfera densa di sospetti e di diffidenza. «Su, dai, bevi ancora!», e gli porge il mestolo pieno di braga. Il giullare guarda con aria interrogativa il padrone che, superando l'incertezza, lo incoraggia con affettata indifferenza: «Dai, dai, bevi!», e si siede sulla panca insieme agli altri. Il giullare prende il mestolo colmo e beve, docile e allegro. «E adesso, su, daccapo!», grida con entusiasmo il buontempone dai capelli rossi e tutti si preparano di nuovo allo spettacolo.
Il giullare si pulisce le labbra; sorride timidamente, estrae dal sacco il tamburello e si mette al centro della stanza. Aspetta che tutti tacciano, dà un colpo brusco al tamburello e con voce alta e penetrante comincia a cantare la storia di un caprone a cui hanno tagliato la barba e il suo dispiacere per l'infelice animale, costretto per la vergogna a nascondersi nel bosco. Il ritmo della canzone continua ad aumentare, le parole prima si trasformano in uno scioglilingua, poi perdono ogni significato per suonare come uno scongiuro. L'effetto è così contagioso che i contadini cominciano a battere il tempo e non riescono a trattenere le risate, perché il giullare fa delle facce così espressive e salta e zoppica in modo così buffo, imitando il caprone, che il senso della canzone è chiaro anche senza parole. La danza continua ad accelerare, il giullare agita senza sosta il tamburello, battendolo ora sulle ginocchia, ora sulla fronte, ora estraendone un suono continuo e sempre più forte. Il giullare salta per la stamberga come un caprone, e i contadini che battono le mani ridendo fragorosamente, le pareti da cui pendono collari, redini e falci, la finestrella oltre la quale si intravedono fiumi di pioggia, i tre monaci nell'angolo, il giullare stesso, con la sua sventolante camicia di tela, che senza sosta riversa tutt'intorno suoni e allegria, tutto si confonde in un folle e irresistibile carosello. Ecco che il giullare salta sulle ginocchia di un contadino, e da lì sulla panca, e dalla panca, con una piroetta nell'aria, ricade a terra, afferra una manciata di fieno, se la mette in testa e, tra le risa degli spettatori, si mette a strisciare imitando il lupo, poi all'improvviso smette di gridare, la sua voce si spegne in un mormorio indecifrabile e fa tintinnare nervosamente il tamburello con un effetto di tensione e di mistero, finché, con un grido, salta, si abbassa i pantaloni e, mentre gli spettatori entusiasti esplodono in una risata omerica, mostra a tutti il suo sedere magro e bianco. E’ il momento culminante. Alla fine il giullare balza sulle mani e, agitando le gambe, grida a squarciagola come un porcellino. Poi, stanco, fradicio di sudore, si alza lentamente, si avvicina alla porta e, spalancatala con un calcio, scende per la scaletta, si sfila la camicia dalla testa, offre alla pioggia la sua schiena ossuta e rimane qualche minuto immobile, lo sguardo fisso al cielo grigio e piovoso. (...)

Andrej guarda la schiena pallida del giullare, le sue scapole sporgenti sferzate dalla pioggia, il collo magro, infantile, la nuca, e aspetta a lungo, impaziente, che si giri. Alla fine il giullare si rimette la camicia e torna sotto la tettoia. Quando rientra nella capanna è irriconoscibile: sembra invecchiato di dieci anni, è curvo come un vecchio e si guarda intorno con occhi stanchi e tristi.
Andrej incontra il suo sguardo e capisce che adesso il giullare è lontano, perso nei suoi pensieri e terribilmente solo in questo vasto mondo. «Sì... Dio ci ha dato il pope e il diavolo il giullare» , mormora Kirill.
Ormai non più al centro dell'attenzione, il giullare si siede sul fieno, vicino al suo sacco. Per qualche minuto se ne sta in silenzio, con gli occhi a terra, poi estrae dal sacco il gusli, si accomoda meglio sul pavimento e comincia a cantare, toccando le corde che vibrano come un lamento.
I contadini, che già lo avevano completamente dimenticato, interrompono le loro chiacchiere e si mettono ad ascoltarlo. Il giullare, fissando Andrej con sguardo assente e malinconico, canta un'antica e bellissima canzone. Le sue parole ingenue, semplici, la rendono ancora più triste e più pura. Il giullare canta per se stesso e forse per tutti coloro che hanno nel cuore una pena come la sua, o ancora più grande. Il suo sguardo è fisso e insistente, come lo sguardo di chi sa leggere il pensiero, e Andrej abbassa gli occhi. I contadini ascoltano rapiti quella canzone meravigliosa. Kirill osserva pieno di disapprovazione il giullare, i contadini incantati, Daniil e Andrej, anch'essi rapiti dal canto, poi si alza e in silenzio esce sotto la pioggia. La voce del giullare è smorzata, leggermente rauca. La canzone si confonde con il rumore della pioggia diventando così ancora più triste. (...)
Il giullare tocca con cautela le corde del gusli - prova alcuni accordi e stringe i morsetti. Si sente risuonare una corda, poi una seconda, una terza... È bello ascoltare questa musica monotona e un po' stridula. D'un tratto la porta si spalanca con un tonfo e sulla soglia compaiono alcuni guerrieri. Il primo è un vero campione della stirpe russa, enorme, dalle spalle larghissime e dagli occhi grigi e carezzevoli. Cala un silenzio di morte. Qualcuno, nel sonno, si rivolta nel fieno e geme a voce alta. Seduto in terra, il giullare rivolge uno sguardo interrogativo ai nuovi arrivati. Il padrone è talmente confuso che non si alza nemmeno ad accogliere gli uomini del principe e continua a sedere in silenzio sulla panca, guardandosi i palmi incalliti. Il primo guerriero chiama con un gesto il giullare. Questi appoggia il gusli e si dirige lentamente verso la porta, ripulendosi i pantaloni dal fieno e rivolgendo ai suoi mortali nemici uno sguardo interrogativo e sorridente. Il biondo gigante dagli occhi grigi fa un passo incontro al giullare, lo prende con una mano per la collottola e con l'altra per i pantaloni, lo solleva con facilità sopra la sua testa e lo scaglia contro il muro. Il giullare sbatte contro il muro bianco emettendo un rantolo, poi ricade a terra e rimane lì, con il volto verso il muro, stringendo i pugni come chi ha un gran freddo. Sopra di lui cadono rumorosamente un forcone, un rastrello di legno e una pesante ruota di carro.
Il giullare giace immobile. Due guerrieri lo prendono per le gambe e lo trascinano in mezzo alla strada. Il gigante guarda significativamente il padrone, raccoglie da terra il gusli e esce seguendo i suoi compagni. (...)
( Andrej Tarkovskij, “ Andrej Rublëv”, edito da Garzanti nel 1992, pag.18)

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