martedì 16 ottobre 2007

I soggetti nel cinema: la metamorfosi (2)

Agnès Jaoui
Solimano
Il cinema è movimento, quasi per etimologia, ma in genere è movimento corporeo, sembra spesso che più i personaggi si agitino più rimangano interiormente se stessi, virtù e vizi compresi. Il pubblico generalmente apprezza i caratteri a tutto tondo, ma è un tondo che non rotola, se ne sta lì contento dell'essere tondo. Il pubblico è abituato così, e si cerca di compiacerlo, non si saprebbe infatti come reagirebbe di fronte ai mutamenti interiori che costituiscono invece il pane quotidiano nei romanzi. Non è il caso di generalizzare, perché il mutamento personale nei film è presente, ma sono eccezioni che confermano la regola, addirittura ci sono stati, e ci sono ancora, attori ed attrici che si portano dietro il proprio carattere da un film all'altro. Quasi sempre il divismo si è costruito così: Gary Cooper faceva personaggi alla Gary Cooper, non alla James Stewart, e di esempi ne potrei fare quanti voglio, naturalmente ambosessi (Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, ad esempio). Ma esistono le eccezioni, che non sono poi pochissime. Qui ne faccio alcune.
Il cambiamento d'aspetto, quello esteriore, ha bisogno del suo tempo, magari per ragioni molto pratiche: quell'attore deve perdere un po' di chili o farsi crescere i capelli, o addirittura stare un po' in una beauty farm, da sessantenne che vuol fare l'innamorato. Ma per il cambiamento di visione di vita, di modo d'essere, quanto tempo ci vuole? In genere molto tempo di meno, purché sia credibile: il ladrone non può mutarsi in benefattore in un intervallo mensa, né la birichina in sposa esemplare così, solo perché il prete ha benedetto il sacro vincolo. Però, più che di tempo - quello filmico - quello che serve è che ci si possa credere, a questo cambiamento interiore, a questa nuova personalità. Difatti ci sono casi in cui i tempi di cambiamento sono assai brevi, ma il film regge bene, specie se dà il senso di una maturazione interiore in corso, di cui il personaggio non è consapevole, ma sappiamo tutti che il frutto maturo ci mette un momento a staccarsi dal ramo.

Così, ne Il posto delle fragole di Ingmar Bergman (1957), il dottor Isak Borg (Victor Sjostrom) trascorre una giornata fra due sogni, notte precedente e notte seguente, il primo sogno è un incubo pauroso, il secondo, che chiude il film, è pacificante. In mezzo sta un giorno in cui non accade nulla di particolare, ma cambia tutto per lui, e quando a sera si addormenta la sua visione di vita è cambiata. Lo deve a diverse persone, che in quel giorno di viaggio lo hanno reso cosciente della sua situazione reale, che lo volessero oppure no, nel bene e nel male. La nuora Marianne (Ingrid Thulin) anzitutto, che l'accompagna nel viaggio, ma anche la vecchissima madre di Isak (Naima Wifstrand), una donna fredda ed ostinata, e la ragazza Sara (Bibi Andersson), con i suoi due amici che la corteggiano. In lei Isak rivede un suo amore di gioventù. Anche suo figlio Evald (Gunnar Bjornstrand), che comparirà solo alla sera, ma di cui parleranno a lungo in macchina Isak e Marianne. C'è la coppia di coniugi litigiosi, ascoltandoli Isak rivede gli errori e le sofferenze del suo matrimonio. Persino il benzinaio Akerman (Max von Sydow) che si ricorda ancora con gratitudine di lui. Durante quel viaggio in macchina, Isak rivede la sua vita, e la rivede con durezza, perché ha sbagliato diverse cose non nel lavoro ma nei rapporti, ma infine ha pietà di sé e delle persone che ha fatto soffrire o che hanno fatto soffrire lui. Questo tipo di pietà è forza, non debolezza.

In Una giornata particolare di Ettore Scola (1977), Antonietta (Sophia Loren),moglie di un usciere fascista e madre di sei figli, conosce un vicino di condominio, Gabriele (Marcello Mastroianni), che lavora all'EIAR, ma che viene allontanato dal posto e mandato al confino non per ragioni politiche, ma perché omosessuale. Faranno anche l'amore, in quel giorno, mentre quasi tutti sono alla manifestazione oceanica perché Hitler e Mussolini si incontrano a Roma. Antonietta e Gabriele probabilmente dopo non si incontreranno più, ma quel giorno è bastato perché Antonietta, che apparentemente rimane la stessa con il marito ed i figli, si sia accorta di pensieri e sentimenti che in buona parte aveva dentro, ma non riuscivano ad uscire.

Ne Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah (1969) siamo quasi alla fine del film: i quattro, Pike, Dutch, Lyle e Tector (William Holden, Ernest Borgnine, Warren Oates, Ben Johnson) hanno raggiunto l'obiettivo di salvare la pelle e fare un bel po' di soldi. Potrebbero andarsene per i fatti loro. Cosa gli può importare che Mapachi abbia sgozzato quel ragazzo messicano davanti ai loro occhi? Robe di messicani, e loro con la morte, data e rischiata, hanno a che fare ogni giorno. Ma senza bisogno di discutere arrivano alla stessa conclusione: no, a Mapachi non si può lasciarla passare, e tornano indietro. Sono delinquenti, ma in quel momento recuperano piena dignità. Cosa singolarissima è che il film è del tutto credibile, nessuno avverte la minima stonatura in questa decisione quasi repentina. Era proprio quello che noi ci aspettavamo, Sam Peckinpah ci aveva portato in quel preciso stato d'animo facendoceli amare prima, quei quattro mascalzoni. Ma non è il nostro tifo a spingerli, è che del loro essere mascalzoni non fanno parte le cose che fa Mapachi. Neppure lo spettatore più sprovveduto ne rimane sorpreso, o prende quel finale come una furbata del regista.

All'industriale Castella (Jean-Pierre Bacri) in Il gusto degli altri di Agnès Jaoui (2000), di tempo ne occore di più, deve prima di tutto capire lui diverse cose, poi ha il rapporto con la moglie e la sua casa-bomboniera, poi l'azienda da portare avanti, la guardia del corpo e l'autista che lo seguono dovunque, la sorella che è succube di sua moglie, infine oltre che amare, vorrebbe essera amato da Clara (Anne Alvaro): una partita veramente difficile. Ma mette nel suo sentimento amoroso (che poi è un cambiamento di vita) la capacità di decisione ed anche di autocritica - da forte, non da debole - che mette nel condurre la sua azienda. Deve scoprire in sé anche la finezza che aveva rimosso, ma infine cambia, eccome se cambia, una cosa che non tutti hanno notato è che diventa persino spiritoso, lui che girava sempre tutto ingrugnato.

Come si vede, si tratta di quattro film notevoli, forse eccezionali. Ce ne sono altri, ne avrei in mente alcuni significativi, ma mi allungherei troppo. Resta un fatto: riuscire ad esprimere in due ore di cinema una metamorfosi interiore è molto difficile, lo specifico filmico esiste, ed è diverso da quello dei romanzi, che uno ci mette magari un mese o due a leggerli, ed ha tempo per farsene una ragione. Magari ci arriva da solo prima di essere giunto alla pagina cruciale del cambiamento, e si toglie lo sfizio di pensare: "L'avevo detto, io!". Il cinema non è così, chiederebbero indietro i soldi del biglietto se non ci fosse l'effetto sorpresa.

Sam Peckinpah

8 commenti:

  1. Mando l'indirizzo del tuo blog alla figlia piccola, che come ormai sanno tutti "Urbi et Orbi", studia cinema e deve fare la tesi . . . Credo sul montaggio.
    In questi giorni, sta a Prato, fa la runner (galoppino, si diceva una volta) negli uffici della produzione del film Cenci in Cina (c'è anche il sito http://www.cenciincina.it/ )
    Lei è contenta perchè è la sua idea fissa dalle medie . . . poi il suo boy fa il tecnico luci e stanno sempre insieme . . .
    Scusa se ogni tanto ti "stuzzico" da RearWindoW, ma mi diverto, e il padrone di casa si presta, trovo che i commenti possono essere più completi e completare il post, se anche i commentatori "parlano" fra di loro altrimenti, rischia di essere solo un elenco di pensieri, sterile!
    Baci, con simpatia, Rosangela

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  2. Fior di cactus, grazie per la visita.
    Tua figlia è fortunata, a fare la tesi sul cinema, dille che se vuole ne scrivo a gratis interi capitoli mentre lei va a spasso col moroso.
    A me toccò fare una tesi sperimentale su "La resistenza superficiale dei dielettrici", figurati l'allegria.
    Hai ragione, è bello quando si conversa più che commentare. Personalmente lo preferisco, sennò si tidchia un po' la lista della spesa. Conversare è bello, anche prendendosi in giro, perché no?
    A rosentirci presto, potremmo far finta di litigare così RearWindow si preoccupa...

    saludos
    Solimano

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  3. Non avevo mai visto una foto di Peckinpah. Incredibile, non ci avevo mai pensato... (beh, non è mica Lauren Bacall, però si vede che è di origine indiana)

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  4. Caro Solimano, io con le "mie" Metamorfosi mi ero divertita (sperando di far divertire anche gli altri), ma tu invece MI HAI FATTO PENSARE!!!!

    Di nuovo GRAZIE!

    Roby

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  5. Roby, ti consiglio, fra i quattro film, di guardare con attenzione, se ti capita, "Il gusto degli altri", che forse non hai visto. Per il poco che ti conosco, sono sicuro che l'apprezzeresti moltissimo, e non è nemmeno l'aspetto estetico la cosa più importante, è che è un film che dice benissimo cose importanti ma a cui in genere non si pensa.
    Cose che servono a vivere meglio ed a far vivere meglio quelli con cui si è in relazione.

    saludos
    Solimano

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  6. Un bell'articolo, gli esempi sono calzanti. Quando penso alla metamorfosi nel cinema mi viene in mente la "trovata" di Bunuel di far interpretare lo stsso personaggio a due attrici piuttosto diverse per tempra e aspetto, Carole Bouquet e
    Angela Molina. Si tratta di "Quell'oscuro oggetto del desiderio". Il bello è che, almeno secondo me, non ci sono forti motivi simbolici (leggi "psicoanalitici") dietro questa scelta, ma di natura visuale, cinematografica. Il simbolo della metamorfosi è correlato al discorso cinematografico che Bunuel fa, come dire che il cinema, lo sguardo dell'altro, è di per sè inevitabilmente sottoposto al mutamento.

    Un saluto,

    Gioacchino

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  7. E quando Castella chiede al suo dipendente di ripensare a quelle dimissioni che ostinatamente vuole dare? Azzera ogni confine, fraternamente.
    "Il gusto degli altri" rimane, almeno per me, un piccolo-grande capolavoro che ogni volta rivedo con immenso piacere.
    cari saluti
    Laura

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  8. Gioacchino, quel film di Bunuel è difficile da stringere, perchè ti convince di per sé, ma non sai bene di che cosa ti ha convinto. Mentre col "Il fascino discreto della borghesia" è più facile venirne ad una, c'è una coerenza più evidente.
    Per me si sono due aspetti che occorre sempre ricordare, con Bunuel: il fortissimo risvolto ironico e una rappresentazione molto personale, tutta sua, dell'erotismo. Infine, solo uno spagnolo può essere così efficacemente anticlericale, un italiano no: per me il motivo è che per gli spagnoli che credono, la religione è una cosa serissima, per gli italiani è una cosa superficiale (come diceva Gadda).
    A una azione forte corrispondente simmetricamente una reazione ugualmente forte.

    good night
    Solimano

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