Ottavio
Vi è mai capitato di vedere i luoghi della vostra infanzia “immortalati” in un film? Probabilmente si. Infatti in molti film degli anni ’50, gli anni della nostra infanzia, le scene avevano come sfondo centri e periferie delle nostre città o paesaggi delle nostre campagne, che quindi entravano come interpreti “muti” delle vicende descritte. E quando li rivediamo nei periodici passaggi televisivi ci prende un po’ di commozione, anche perché quei luoghi non esistono più.
Sono state infatti tali e tante le trasformazioni della società negli ultimi 50 anni che hanno lasciato il segno, e che segno in tanti casi, sul paesaggio e sul territorio. Si può dire che, nelle varie zone d’Italia, maggiore è stato il progresso economico, l’aumento di benessere delle popolazioni, più il paesaggio è cambiato, nel bene e, ahimè spesso, nel male. Era lo scotto da pagare, o no?
Ma ci sono le inevitabili eccezioni: per me il luogo dell’infanzia, quello dai 5 ai 12 anni, quello delle scoperte importanti, è rimasto “intatto”. Infatti il paese dove vivevo è stato abbandonato a metà degli anni ’60 quando è cessata l’attività di estrazione delle miniere che lo circondavano e adesso giace quasi deserto con gli impianti e tante case diroccate. Ma quando ci torno basta poco per far rivivere i personaggi e le situazioni di allora: il paesaggio, la scenografia, tutto è rimasto com’era.
In un’occasione però non ho avuto bisogno di esercitare la fantasia: le immagini del mio paese scorrevano su uno schermo cinematografico. La consapevolezza della finzione non ha impedito il formarsi della stessa emozione che provo ogni volta (una o due all’anno) che torno ad Ingurtosu.
E’ successo quando ho visto “Il figlio di Bakunin”, il film di un giovane regista sardo, Gianfranco Cabiddu, girato appunto negli stessi luoghi dove è ambientata la vicenda raccontata dallo scrittore Sergio Atzeni nel libro omonimo. In cui il protagonista è l’”anarchico” sardo Tullio Saba, minatore, cantante, sindacalista e tante altre cose ancora, la cui vita è raccontata attraverso una serie di testimonianze postume contraddittorie che ne rendono la personalità ambigua e sfumata.
Tullio Saba è figlio di Antoni, il ciabattino che tutti, in paese chiamavano Bakunin per via dei suoi ideali anarchici. Il lavoro di Antoni consentiva alla famiglia Saba una vita economicamente tranquilla: egli, infatti, fabbricava scarpe robustissime e impermeabili per i lavoratori delle miniere, calzature indistruttibili che la direzione acquistava per i propri dipendenti addebitandole, in seguito, sulle loro buste paga. Ma quando la direzione delle miniere decise di rivolgersi ad altro fornitore, raccomandato dal regime, l'attività della famiglia Saba cadde in rovina . Il povero Antoni morì di crepacuore. E qui, nel cuore del novecento, incomincia il difficile percorso di vita di Tullio Saba. Appena sedicenne deve scendere in miniera per mantenere sè stesso e la madre. Lui, abituato come era ad una vita facile, impara a conoscere la fatica e i soprusi del padrone, abbraccia l'idea comunista, diventa un capo-popolo, amato e rispettato. Tullio intreccia così la propria storia con quella della Sardegna mineraria dagli anni ’30 alla fine degli anni ’50, attraverso la guerra, il difficile dopoguerra, le lotte sociali, la ricostruzione, i problemi legati allo sviluppo e alla modernizzazione della terra, del lavoro, della vita familiare. Si susseguono, tra una ricostruzione e l'altra di vari episodi, le testimonianze di chi l'ha conosciuto, di chi l'ha amato, di chi lo ha temuto.
Alla fine l’obiettivo di romanzo e film è quello di instillare nel lettore /spettatore il dubbio: “ma chi era veramente il figlio di Bakunin”?
Certo, durante la proiezione ero attento alle vicende di Tullio Saba, ma quando il regista inquadrava il paese con le sue case, lo spaccio di generi alimentari, la sede del dopolavoro e le comparse che si muovevano sulle strade polverose per raggiungere gli edifici delle miniere, costruzioni in pietra con particolari “gotici” (le arcate di porte e finestre, le aperture a bifora, le decorazioni nella stessa pietra) mi sembrava che lo spazio e il tempo si fossero annullati.
Non penso che questo film avrà un posto importante nella storia del cinema ma io serberò eterna gratitudine al regista Cabiddu per l’emozione che mi ha fatto provare: ho visto il mio paese “rivivere”. (Il relativo videotape avrà un posto fisso nella mia videoteca).
P.S. Ottavio ha scritto tre Bei Momenti pubblicati su Arengario riguardanti le località della Sardegna in cui ha vissuto da ragazzo, ed in cui torna ogni anno volentieri.
Il primo è Ingurtosu - la miniera nel bosco.
Il secondo è Piscinas - l'infanzia nella natura.
Il terzo è Ritorno all'Argentiera.
Inoltre ha scritto un altro Bel Momento relativo al Museo del rame di Isili.
Chi ama la Sardegna e chi vorrebbe conoscerla meglio, farebbe bene a leggerli. (s)
Certo che è una fortuna nascere e vivere in un bel posto. Sarebbe perfino strano se nessuno avesse scelto “casa tua” come set per un film. A me non sarebbe mai capitato, caro Ottavio: io abito nella grigia Lombardia dei Formigoni...
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