Giuliano
“L’assedio” è un film d’amore. Siamo a Roma, negli anni Novanta, e un pianista inglese si innamora della ragazza africana che ha assunto come colf. Detto così sembra banale, ma la ragazza africana è moglie di un maestro di scuola messo in carcere da un regime autoritario, uno dei tanti che infestavano l’Africa Nera in quegli anni. Lei è a Roma, studia medicina, lavora per mantenersi agli studi, abita in una stanzetta di quella casa enorme piena di cose da spolverare, le tocca di ascoltare una musica che non capisce, e per di più adesso quest’uomo bianco, anglosassone e noioso, le viene a dire che si è innamorato di lei... In verità è impossibile non innamorarsi di Thandie Newton, la protagonista del film: troppo bella e troppo brava, e troppo giusta per la parte. Ma questo è solo il primo livello della storia.
Bertolucci racconta questa storia attraverso la musica, attraverso il contrasto fra la musica europea colta e quella africana (le prime immagini del film sono quelle di un cantastorie africano, che suona e canta accompagnandosi con una cetra d’aspetto arcaico), ma anche e soprattutto attraverso una serie di notazioni musicali trasferite in immagini. Il film è pieno di pianissimi, di “crescendo”, di “rallentando” , ci sono anche alcune accelerazioni improvvise (poche), c’è la nota buffa anche nel tragico (come in Schubert, fornita soprattutto dal personaggio affidato a Claudio Santamaria).
Lo scrittore James Lasdun dice di essersi ispirato al Boccaccio: ma non è la storia del falcone, è la storia di Dianora e Ansaldo. Per chi vuole divertirsi a cercarli, ci sono riferimenti precisi anche al Vangelo: a Luca XVIII, 18-23 e a Marco X, 17-22 e a Matteo XIX, 16-22 (solo che qui il giovane ricco ha davvero il coraggio di vendere tutto...). Ma spero di non aver parlato troppo, perché “L’assedio” è un film impossibile da raccontare, meraviglioso per le immagini e per il modo di raccontare di Bertolucci, e anche per la bellezza di Roma così come è stata filmata.
Il meraviglioso e potente cantastorie che vediamo all’inizio e che scandisce tutta la storia (un bluesman autentico, però africano: peccato non poter capire le parole cantate) si chiama John C. Owang. Le altre musiche africane sono di Papa Wemba, Salif Keita, Coro Bondexo, Ali Farka Touré, Pepe Kalla e Papy Tex. C’è anche spazio per “My favourite things”, suonata da John Coltrane, e per “Cuore matto” di Little Tony; le musiche originali sono di Alessio Vlad.
Il pianista (David Thewlis alias Mr. Kinsky, doppiato dal pianista vero Stefano Arnaldi) suona: Mozart, Fantasia in re minore op.397; Grieg, Sonata op.7 in mi minore (secondo movimento); Johann Sebastian Bach, preludio in mi minore dal Clavicembalo ben temperato; Alessandro Scarlatti, studio op.8 n.12 in re diesis minore; Beethoven, 32 variazioni in do minore su un tema originale WoO80. E il bambino Andrea Quercia, dai capelli e dal fisico beethoveniani, in una bella scena del film suona il valzer in mi maggiore di Chopin.
“L’assedio” è un film d’amore. Siamo a Roma, negli anni Novanta, e un pianista inglese si innamora della ragazza africana che ha assunto come colf. Detto così sembra banale, ma la ragazza africana è moglie di un maestro di scuola messo in carcere da un regime autoritario, uno dei tanti che infestavano l’Africa Nera in quegli anni. Lei è a Roma, studia medicina, lavora per mantenersi agli studi, abita in una stanzetta di quella casa enorme piena di cose da spolverare, le tocca di ascoltare una musica che non capisce, e per di più adesso quest’uomo bianco, anglosassone e noioso, le viene a dire che si è innamorato di lei... In verità è impossibile non innamorarsi di Thandie Newton, la protagonista del film: troppo bella e troppo brava, e troppo giusta per la parte. Ma questo è solo il primo livello della storia.
Bertolucci racconta questa storia attraverso la musica, attraverso il contrasto fra la musica europea colta e quella africana (le prime immagini del film sono quelle di un cantastorie africano, che suona e canta accompagnandosi con una cetra d’aspetto arcaico), ma anche e soprattutto attraverso una serie di notazioni musicali trasferite in immagini. Il film è pieno di pianissimi, di “crescendo”, di “rallentando” , ci sono anche alcune accelerazioni improvvise (poche), c’è la nota buffa anche nel tragico (come in Schubert, fornita soprattutto dal personaggio affidato a Claudio Santamaria).
Lo scrittore James Lasdun dice di essersi ispirato al Boccaccio: ma non è la storia del falcone, è la storia di Dianora e Ansaldo. Per chi vuole divertirsi a cercarli, ci sono riferimenti precisi anche al Vangelo: a Luca XVIII, 18-23 e a Marco X, 17-22 e a Matteo XIX, 16-22 (solo che qui il giovane ricco ha davvero il coraggio di vendere tutto...). Ma spero di non aver parlato troppo, perché “L’assedio” è un film impossibile da raccontare, meraviglioso per le immagini e per il modo di raccontare di Bertolucci, e anche per la bellezza di Roma così come è stata filmata.
Il meraviglioso e potente cantastorie che vediamo all’inizio e che scandisce tutta la storia (un bluesman autentico, però africano: peccato non poter capire le parole cantate) si chiama John C. Owang. Le altre musiche africane sono di Papa Wemba, Salif Keita, Coro Bondexo, Ali Farka Touré, Pepe Kalla e Papy Tex. C’è anche spazio per “My favourite things”, suonata da John Coltrane, e per “Cuore matto” di Little Tony; le musiche originali sono di Alessio Vlad.
Il pianista (David Thewlis alias Mr. Kinsky, doppiato dal pianista vero Stefano Arnaldi) suona: Mozart, Fantasia in re minore op.397; Grieg, Sonata op.7 in mi minore (secondo movimento); Johann Sebastian Bach, preludio in mi minore dal Clavicembalo ben temperato; Alessandro Scarlatti, studio op.8 n.12 in re diesis minore; Beethoven, 32 variazioni in do minore su un tema originale WoO80. E il bambino Andrea Quercia, dai capelli e dal fisico beethoveniani, in una bella scena del film suona il valzer in mi maggiore di Chopin.
Intervista a suo tempo rilasciata da Bernardo Bertolucci (sul sito Rai international - Italica Rai):
RispondiEliminaL'assedio" si potrebbe definire un "Ultimo tango a Parigi" trent'anni dopo?
In un certo senso sì, anche se in una versione sussurrata e rasserenante. Infatti la scena d'amore tra Mr. Kinsky e Shandurai l'ho lasciata all'immaginazione dello spettatore, non per falso pudore ma perché davvero non aveva niente a che fare con questo film. La sensualità oggi ha preso il posto della sessualità aggressiva come unica forma di comunicazione. Si vede che nella mia vita il momento della trasgressione è stato il 1972.
Come si è trovato a lavorare ad un "piccolo progetto"?
Ho girato in uno stato di grande libertà. Una libertà persa molti anni fa e ora ritrovata. Inquadratura dopo inquadratura pensavo solo a come la storia si evolveva. La mutazione è soprattutto un discorso di stile; l'occhio sui personaggi è sempre il mio, ma c'è qualcosa di diverso nel ritmo, nel montaggio. Ho voluto tornare alle origini del cinema muto, così anche nel mio film si parla pochissimo. Nel futuro vorrei potermi spingere ancora oltre.
Il suo interesse riguarda anche i mezzi tecnici che usa la televisione e una conoscenza più approfondita dei mezzi digitali?
Abbiamo un cinema che ha rifiutato la fusione con l'elettronica. Il cinema diceva Fellini, è come le nuvole, il sole, il vento, è la realtà, quindi non si può ignorare la televisione.
La destinazione televisiva non ha rappresentato un limite?
Io sono grato a chi mi ha spinto a fare un film per la televisione. L'ultimo lo avevo fatto venti anni fa con "La strategia del ragno". A quei tempi fare televisione mi sembrava qualcosa di meno che fare cinema e mi ero vendicato girando il film con una quantità di campi lunghissimi. Il risultato fu che sul piccolo schermo il film era inguardabile. Stavolta, invece, non ho preso l'occasione prospettatami come una perdita, ma come una possibilità di arrichimento. Volevo sperimentare dal vero un'idea che mi ossessiona.
Quale?
Il cinema si sta trasformando e non può ignorare i nuovi linguaggi e le nuove tecnologie. Era imbarazzante quando il cinema imitava la televisione e la televisone imitiva il cinema. Oggi ci sono giovani registi che riescono a parlare un linguaggio nuovo e tra questi Harmony Korine che ha fatto "Gummo" presentato a Venezia due anni fa, o Tsai Ming Liang. Il loro cinema è la "diretta" della realtà e lo sanno benissimo; mentre tra quelli della mia generazione, c'è ancora molta diffidenza per l'elettronica. "L'assedio" è quasi un musical in cui il ritmo è suggerito dai movimenti della macchina da presa. Nel film c'è anche una grande mescolanza di stili di ripresa: macchina a mano, carrelli e steady-cam. E' in un certo senso un film plurilinguista come avrebbe detto Pasolini. Prima non lo avrei mai fatto. Con grossi budget si è portati a seguire le convenzioni.
Cosa rimprovera alla fiction televisiva di oggi?
Mi sembra ferma agli anni Settanta/Ottanta, come se non ci fosse la voglia di esplorare il mezzo televisivo. Forse perché la committenza ti impone di volare rasoterra, oppure perché c'è questa rincorsa all'audience che rende i due poli televisivi identici. Non si pensa quindi ad investire sul futuro, sulle enormi potenzialità educative di questo mezzo che invece resta solo una vetrina di prodotti.
Teme che "L'assedio" possa non essere capito dal pubblico televisivo?
Non credo che sia più ostico o misterioso di altri miei film. Comunque vorrei che "L'assedio" avesse una vita in armonia con le sue dimensioni, uscendo dall'alternativa obbligata, grande successo oppure nulla. E poi, a parte le idee nascoste sottotraccia, c'è una storia d'amore comprensibilissima che ha emonzionato ovunque: a Toronto, a San Sebastian e anche in India.
E' una storia d'amore singolare, in cui un uomo occidentale si priva di ogni cosa per una donna africana che ama il marito incarcerato per motivi politici...
Kinsky capisce che per essere felice deve far felice Shandurai e sublima l'amore in questo grande sacrificio arrivando fino a rinunciare al suo pianoforte.
Una prospettiva evangelica?
Evangelicamente laica, direi.
E adesso che progetti ha?
Ho in mente un altro piccolo film in attesa di varare la biografia di Gesualdo da Venosa a cui sto lavorando, revisione dopo revisione, con Mark People, mio sceneggiatore abituale di quasi tutti i miei ultimi lavori.
Non mi ricordavo più che “L’assedio” fosse un film per la tv, e rivedendolo non ci ho nemmeno fatto caso. Non mi sembra così diverso dagli altri film di Bertolucci, intendo (ovviamente l’ho rivisto in tv, da una cassetta: sarà ben dura rivederlo al cinema, come ho fatto la prima volta...). Certamente è un film intimo, quasi da camera: soprattutto se paragonato a Novecento o a L’ultimo imperatore. Ma, se vi capita, guardate cosa riesce a fare Bertolucci della casa dove abitano i protagonisti, e cosa riesce a fare con delle inquadrature molto quotidiane delle strade di Roma, o dell’università e dell’ospedale...
RispondiEliminaContinuando poi a leggere l’intervista “d’epoca” che riporta qui Solimano, trovo il punto che mi spiega tante cose: quando Bertolucci dice che chi fa i film per la tv non ha nessuna voglia di cercare soluzioni originali, e che i film per la tv sono rimasti fermi ad epoche lontane. E’ una frase detta quasi dieci anni fa, ma le cose non sono cambiate molto, dal punto di vista della fiction tv; anzi, si direbbero peggiorate. La verità - triste – è che davanti a “L’assedio” il pubblico della tv cambierebbe canale. La verità – ancora più triste – è che Bertolucci si ostina a non considerare le pause per gli spot pubblicitari: lui va avanti per conto suo, costruisce il ritmo del film sulla musica e non sugli spot, che ingenuità. Forse nel 1998 un film così per la tv si poteva ancora fare, oggi di sicuro no. I Murdoch e i Berlusconi farebbero gentilmente accompagnare alla porta un regista di quelli di una volta, di quelli grandi che hanno fatto la storia del cinema e hanno tenuto alto il nome dell’Italia (ancora oggi, registi di successo di tutto il mondo citano Fellini e De Sica e Rossellini, ma Castellano & Pipolo e i Vanzina li conosciamo solo noi). Il pubblico del cinema era diverso, più disponibile; il pubblico tv ha in mano il telecomando, e lo usa. Cancella non solo i capolavori ma anche la pubblicità: però non andate a dirlo ai “creativi”, che se no si inventano qualcosa per obbligarci a mangiarla tutta.