venerdì 13 luglio 2007

Anthony Burgess, l'arancia e il cinema (2)

Malcolm McDowell

"Perché mi tagliarono l'arancia"
Anthony Burgess, Corriere della Sera, 3 maggio 1987

(continuazione e fine)
Il ventunesimo capitolo dà alla novella il carattere della narrativa autentica, un'arte fondata sul principio che gli esseri umani cambiano. Non ha infatti un grande scopo scrivere una novella se non si può dimostrare la possibilità di trasformazione morale, o di aumento della consapevolezza, che si produce nel personaggio o nei personaggi principali. Persino i bestseller della peggior specie mostrano che le persone cambiano. Quando un'opera di narrativa non rivela il cambiamento, quando indica puramente che il carattere dell'uomo è prestabilito, duro, non rigenerabile, allora si è fuori dal campo del romanzo e dentro a quello della favola o dell'allegoria. L'arancia americana, o di Kubrick, è una favola; quella britannica e mondiale è un romanzo.
Ma il mio editore newyorchese era convinto che il ventunesimo capitolo fosse un compromesso. Era così tanto britannico, sapete. Era blando, e rivelava una pelagiana riluttanza ad accettare che un essere umano potesse essere un esempio di male non rigenerabile. Gli americani, ha detto infatti, sono più duri degli inglesi e sanno guardare in faccia la realtà. Presto avrebbero guardato in faccia il Vietnam. Il mio libro era kennediano e accettava la nozione di progresso morale. Ciò che si voleva realmente era un libro nixoniano, che non contenesse alcun brandello di ottimismo. Lasciamo che il male si impenni sulla pagina e se la rida, fino all'ultima riga, alla faccia di tutte le fedi ereditate ‑ ebraica, cristiana, musulmana e sette varie ‑ sul fatto che le persone siano in grado di migliorare se stesse. Un libro del genere sarebbe sensazionale, e lo è. Ma non credo sia un ritratto imparziale della vita umana.
Non lo credo perché un essere umano, per definizione, è dotato del libero arbitrio. Lo può usare per scegliere tra il bene e il male. Se può compiere soltanto il bene o soltanto il male, allora è un'arancia a orologeria: nel senso che ha l'aspetto di un organismo dal bel colore e dal buon succo, ma in realtà è soltanto un gioco meccanico cui il Bene o il Male o, visto che si sta sempre più sostituendo a entrambi, lo Stato Onnipotente danno la carica. Essere totalmente buoni è altrettanto inumano che essere totalmente cattivi.
La cosa importante è la scelta morale. Il male deve esistere insieme al bene, in modo che la scelta morale possa operare. La vita è sostenuta dall'opposizione stridente di entità morali. Basta vedere le notizie dei telegiornali. Purtroppo c'è tanto peccato originale in noi che troviamo il male piuttosto attraente. Devastare è più facile e più spettacolare che creare. Ci piace farci terrorizzare dalle immagini di distruzione cosmica. Il fatto di sedersi in una stanza e comporre la Missa Solemnis o la Anatomy of Melancholy non fa notizia. Purtroppo il mio caricaturale libriccino è stato trovato attraente soprattutto perché, come un cestello pieno di uova marce, profumava del miasma del peccato originale.
Sembra presuntuoso o troppo otti­mistico negare che scrivendolo avevo intenzione di stuzzicare le inclinazioni più disgustose dei miei lettori. La mia sana eredità di peccato originale viene fuori nel libro e mi sono divertito a violentare e a squartare per procura. E' l'innata codardìa del romanziere a fargli delegare a personaggi immagina­ri i peccati che è troppo prudente per commettere da sè. Ma il libro possiede anche una lezione morale, ed è quella stancamente classica dell'importanza fondamentale della scelta morale. E siccome questa lezione sporge come un pollice fasciato, tendo a disprezzare Un'arancia a orologeria come troppo didattica per essere artistica.
Non è compito del romanziere predicare, è suo dovere mostrare. Ho mostrato abbastanza, anche se si è messa di mezzo la cortina di un linguaggio inventato, un altro aspetto della mia codardia. La nadsat, una versione russificata dell'inglese, servi­va a smorzare la cruda risposta che ci attendiamo dalla pornografia. Trasfor­ma il libro in un'avventura linguistica. La gente preferiva il film perché impaurita, giustamente, dal linguaggio.Non credo di dover ricordare ai lettori il significato del titolo. Le arance a orologeria non esistono, salvo che nei discorsi dei vecchi londinesi. Era un'immagine bizzarra, usata sempre per una cosa bizzarra. «He's as queer as a clockwork orange», significava che uno era strambo al limite della stramberia. Non indicava omosessualità in origine, anche se queer, prima dell'introduzione di una legislazione restrittiva, era il termine usato per un appartenente alla confraternita degli invertiti. Gli europei che hanno tradotto il titolo con Un'arancia a orologeria o Orange Méchanique non potevano cogliere la sua valenza cockney, e hanno pensato che volesse significare una bomba a mano, più a buon mercato del tipo ananas. Per me significa l'applicazione di una moralità meccanicistica a un organismo vivente che gronda di succo e di dolcezza.
I lettori del ventunesimo capitolo devono decidere da soli se esso rafforza il libro che presumibilmente conoscono, o se davvero è un'emanazione trascurabile. Volevo che il libro finisse in questo modo, ma il mio giudizio estetico può esser stato imperfetto. Raramente gli scrittori sono i migliori critici di se stessi, né sono critici. Quod scripsi scripsi, disse Ponzio Pilato quando dichiarò Gesù Cristo Re degli Ebrei: «Quel che ho scritto ho scritto». Possiamo distruggere quel che abbiamo scritto, ma non possiamo de-scriverlo. Lascio ciò che ho scritto con quella che il dottor Johnson ha chiamato frigida indifferenza, al giudizio dello 0,0000001 % di popolazione americana che si preoccupa di cose del genere. Mangiatevi questo pezzo dolciastro, o sputatelo fuori. Siete liberi.
(traduzione di Monica Levy)

1 commento:

  1. Non so quando lo metteremo on line, ma in un altro articolo Burgess ricorda un'altra origine di "Arancia a orologeria": Burgess insegnava in Malesia, e in malese uomo si dice "orang" (e orang-utan è infatti "l'uomo dei boschi"). I giovani malesi che imparavano l'inglese da Burgess scambiavano spesso orang con orange.

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