mercoledì 27 giugno 2007

Il mestiere delle armi

Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi (2001) Con Christo Jivkov, Delislava Tenekedjeva, Sandra Ceccarelli, Sasa Vulicevic, Sergio Grammatico, Dimitar Ratchov, Aldo Toscano, Fabio Giubbani Musica: Fabio Vacchi Fotografia: Fabio Olmi (100 minuti) Rating IMDb: 7.0
Solimano
L'Orlando Furioso fu scritto non molti anni prima del fatale 1526 in cui Joanni de' Medici perse la vita per un colpo di falconetto, un'arma da fuoco che era stata fabbricata proprio a Ferrara.
Nel Canto nono del Furioso, Orlando sconfigge ed uccide Cimosco, benché questi fosse dotato di un'arma da fuoco. A cose fatte, così procede il Paladino:
...
Non volse porre ad altra cosa mano,
fra tante e tante guadagnate spoglie,
se non a quel tormento che abbiàn detto
che al fulmine assimiglia in ogni effetto.

L'intenzion non già, perché lo tolle,
fu per voglia d'usarlo in sua difesa;
che sempre atto stimò d'animo molle
gir con vantaggio in qualsivoglia impresa:
ma per gittarlo in parte, onde non volle
che mai potesse ad uom più fare offesa:
e la polve e le palle e tutto il resto
seco portò, che apparteneva a questo.

E così, poi che fuor de la marea
nel più profondo mar si vide uscito,
sì che segno lontan non si vedea
del destro più né del sinistro lito;
lo tolse, e disse: - Acciò più non istea
mai cavallier per te d'esser ardito,
né quanto il buono val, mai più si vanti
il rio per te valer, qui giù rimanti.

O maladetto, o abominoso ordigno,
che fabricato nel tartareo fondo
fosti per man di Belzebù maligno
che ruinar per te disegnò il mondo,
all'inferno, onde uscisti, ti rasigno.
-Così dicendo, lo gittò in profondo.
Il vento intanto le gonfiate vele
spinge alla via de l'isola crudele.
(Orlando Furioso, Canto IX 88-91)

C'è stato un recensore - poveretto - che ha tacciato Ermanno Olmi di arrogante per aver fatto - e in quel modo - Il mestiere delle armi. Ma seguiamolo pure, l'incauto, che trasuda invidia e fastidio, giustificatissimi, visto che in Italia una serietà così coerente si è vista di rado, anche nei più grandi registi. Il fastidio parte dal titolo, che è fiero, non riduttivo: per secoli e secoli è stato un gran mestiere, che fecero Eschilo, Sofocle, Cervantes, Ignazio de Loyola e tanti altri fino ad arrivare ai più recenti Choderlos de Laclos, Lermontov, Tolstoij e poi ancora Slataper, Saint-Exupery (sì, proprio quello de Le Petit Prince!), Charles de Foucault (sì, quello dei Piccoli Fratelli!). Il figlio maggiore riceveva la proprietà, fra i minori, quello sveglio faceva il soldato, quello smorto il prete. Poi c'erano i figli naturali, che chiamavano tranquillamente bastardi: Giovanni d'Austria, Bastardo di Carlo V, che comandò a Lepanto e, in Shakespeare, il Bastardo Faulconbridge, grandioso personaggio del Re Giovanni, una storia inglese poco letta.
Quando l'Ariosto scrive così, esprime il dramma di chi aveva fatto del coraggio e del valore personale un sistema di vita, e che si trovava esposto alla palla di un archibugio o di un falconetto inviata da un signor nessuno, non come titoli, ma come virtù. Drammatica, in Guerra e Pace, la pagina in cui il reparto del principe Andrea è fermo fuori dal campo di battaglia. Sono tutti a cavallo, e ogni tanto arriva un proietto e qualcuno stramazza. In Barry Lyndon di Kubrick, i soldati vestiti di rosso sgargiante avanzano affiancati, scavalcando i corpi dei compagni colpiti e stando stretti l'uno all'altro per reggere la paura, compresi i tamburini.
Olmi parte anche di qui, e sceglie come suo eroe un violento naturale come Joanni de Medici (aveva dodici anni quando uccise per la prima volta) che percorse, ben guidato, un suo itinerario di conversione della violenza in forza - la forza serve nella vita anche oggi, e servirà domani. Il suo personaggio assume così una dignità analoga a quella che avrebbe assunto da frate (Joanni lo dice nel film), ma il coraggio personale, l'autorità autorevole che ha con i suoi sono esposte al falconetto che, mentre lui guerreggia abilmente, stanno costruendo a Ferrara e poi trasporteranno sul Po: gli Estensi e i Gonzaga hanno scelto di dare una mano al Frunsberg, sostenendo solo di facciata le ragioni del Papa. Joanni vive con pienezza la sua vita - breve - in cui c'è posto anche per la moglie e per l'amante mantovana. Il mondo non l'ha fatto lui, si è trovato ad essere scelto, più che scegliere. Nulla di agiografico in Olmi, anche se il suo Joanni somiglia al Cristo di Pasolini e si chiama Christo Jivkov. Molto rispetto ammirato invece, per uno che fino all'ultimo giorno (sono lunghi, i cinque giorni di agonia!) sta attaccato al coraggio del suo mestiere di vivere e di morire. Nell'Arena di Villa Ghirlanda, affollata in quella sera estiva, c'era un silenzio affaticato - è un film impegnativo - ma anche il più incolto, il più ragazzaccio, il più TV dipendente avvertiva la grandezza di quel film, ancora di più la grandezza di chi aveva avuto il coraggio di fare un film così, con le musiche contemporanee di Fabio Vacchi e le parole antiche delle lettere del Cinquecento. Arroganza? Forse sì, avercene di arroganti come Ermanno Olmi. Staremmo meglio tutti.

4 commenti:

  1. Un film notevole, non per tutti ma solo per chi ha voglia e pazienza (poi si è ripagati). Mi ricorda molto il Rossellini storico, quello del Cartesio, ma Olmi è un narratore migliore.

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  2. Giuliano>, siccome sono malizioso e invido, ho cercato di prendere in castagna Olmi e credevo di esserci riuscito. Nell'ultima parte del film, quella dell'agonia, appaiono gli affreschi sovrastanti la branda dove è disteso Joanni: sono affreschi del palazzo del Te di Mantova, e sono opera di Giulio Romano verso il 1540, quindi dopo la morte di Joanni. Non solo, Giulio Romano, con tutti quelli che erano stati allievi di Raffaello ed anche altri (Parmigianino ad esempio) emigrò da Roma proprio dopo il Sacco del 1527, prima del quale morì Joanni. Quindi sembrerebbe uno svarione di Olmi. Ma credo che lui abbia pensato che quegli affreschi, che esprimono l'esplodere della crisi manieristica, per ciò stesso erano strettamente collegati alla crisi italiana ed alla crisi personale di Joanni, in una specie di sincronicità: se avesse mostrato affreschi fatti attorno al 1526 non ci sarebbe stata corrispondenza, la crisi era ancora latente, anche se ce n'erano già tutti i prerequisiti.
    Un felice svarione del genere lo fa Kubrick in Barry Lyndon. Inserisce infatti musiche contemporanee agli accadimenti del film, ma fa una eccezione inserendo il tempo iniziale di uno dei due grandi trii di Schubert (musica di diversi decenni dopo). Il senso lì è legato al tipo di rappresentazione: il duello fra Barry e il figliastro, episodio del tutto preromantico, e Schubert ci sta benissimo.
    Riguardo a Rossellini, le sue mi sono sembrate lodevoli operazioni di tipo culturale (la migliore è la presa del potere di Luigi XIV) ma di un genere completamente diverso da quello di Olmi, un genere illustrativo più che narrativo.

    saludos
    Solimano

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  3. Io vidi il film durante la rassegna estiva alla rocca di Imola (in piazza Giovanni delle Bande Nere!): un pesante manufatto coevo, nella sua forma attuale, alle vicende del film. Era una sera di tempesta, con raffiche di vento che facevano ondeggiare il telone e lampi dentro le nuvole, che le facevano sembrare fornaci di un mastro ferraio.

    Mi piace ricordare la circostanza, ma il film s'imponeva da solo, per la ricostruzione rigorosa del contesto: di quello visivo, come di quello culturale, politico e umano. A tenere insieme il tutto mi sembrava che ci fosse la domanda: un'etica tutta interna al mestiere (a ciò che si fa) è moralmente bastante? Una domanda a cui Olmi dà la risposta positiva di Giovanni (e di Machiavelli), ma fecendo intuire, modestamente e in sottotraccia (altro che arroganza!) anche la sua. Che l'etica del fare è necessaria e che, di per sè, possiede una sua tutta umana grandezza. Che senza di essa la morale è vuota. Che non è però sufficiente (e al posto di un capitano di ventura avrebbe potuto esserci una madre, uno scienziato, un imprenditore): l'etica senza morale non riesce a uscire dalla dimensione individuale. Che solo vivendo nella dimensione dell'agire, comunque, siamo in grado di liberarci dal fardello di io che ci appesantisce l'anima.
    (E chissà se veramente questo era il discorso sottotraccia, o se ho voluto scavarelo io in una vicenda oggettiva e asciuttamente narrata).

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  4. Nicola, mi sembra che siamo d'accordo su un punto dirimente: ci si poteva aspettare da Olmi un discorso genericamente antimilitaristico, mentre lui fa un altro tipo di discorso, partendo dalla dignitas del mestiere di Joanni. Credo che questa scelta di Olmi, che io ritengo giustissima, abbia messo in difficoltà molti, che hanno faticato ad accettare un discorso del genere, condizionati da una mancata comprensione di come si svolge la Storia. Non solo, condizionati da una altra cosa ancora più grave: la mancata conoscenza dei moventi dell'essere umano. La frescaccia del buon selvaggio roussoiano ha colpito ancora.

    saludos
    Solimano

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