Le soulier de satin di Manoel de Oliveira (1985) Testo di Paul Claudel, Adattamento di Manoel de Oliveira Con Luis Miguel Cintra, Patricia Barzyk, Anne Consigny, Anne Gautier, Bernard Alane Musica: Joao Paes Fotografia: Elso Roque (410 minuti) Rating IMDb: 7.6
Giuliano
«Ascoltate bene, non tossite, e cercate di capire un po’. Ciò che non capite è il più bello. Ciò che è più lungo è il più interessante, e ciò che non troverete divertente è il più arguto.»
Non so niente di Paul Claudel. Ho cercato di leggermi qualcosa di suo, dopo aver visto il film, ma senza grandi risultati: anzi, a dire il vero, ho abbandonato subito la lettura di “La scarpina di raso” e da allora non l’ho più ripreso in mano.
Perché la magia di questo film non sta nel soggetto (il Portogallo tra il ‘500 e il ‘600, la storia di Don Sebastiano e la conquista del Brasile attraverso la vicenda dei due amanti che non s’incontrano mai), ma nella magia del Teatro.
E’ dal Teatro che parte Manoel de Oliveira, in maniera buffa: c’è un attore che funge da Prologo, ci dice due parole, fa suonare le trombe; e subito dopo le porte della platea si aprono e gli spettatori entrano in sala. E’ una scena realizzata in un modo semplice e perfetto, che dà grande emozione a chi sa cos’è il Teatro, anche solo da spettatore. Subito dopo, la narrazione comincia; e, come nell’Enrico V di Laurence Olivier, è un continuo passare dal palcoscenico al film, senza soluzione di continuità, quasi in maniera magica: in mare, su una zattera alla deriva, un uomo che forse è un gesuita. E’ legato, ha le vesti stracciate: qualcuno lo ha abbandonato così; prega e declama il suo monologo confidando nella salvezza...
E’ un film molto lungo, in costume, con lunghi monologhi, che richiede pazienza anche perché la storia del Portogallo – diciamocelo – non è che in Italia la si conosca poi tanto. Ma io con questo film ho imparato chi era Oliveira, e da allora non mi sono più perso un suo film; o almeno, ho cercato di farlo perché questo benedett’uomo ha passato i novanta e continua implacabile a fare un film all’anno. E io mi metto in ascolto, mi preparo come se fossi in teatro, non tossisco, e so che ciò che non capisco è il più interessante, e che quello che mi sembra una perdita di tempo in realtà non lo è mai, quando ho a che fare con Manoel de Oliveira o con un altro dei grandi maestri del presente o del passato.
«Ascoltate bene, non tossite, e cercate di capire un po’. Ciò che non capite è il più bello. Ciò che è più lungo è il più interessante, e ciò che non troverete divertente è il più arguto.»
Non so niente di Paul Claudel. Ho cercato di leggermi qualcosa di suo, dopo aver visto il film, ma senza grandi risultati: anzi, a dire il vero, ho abbandonato subito la lettura di “La scarpina di raso” e da allora non l’ho più ripreso in mano.
Perché la magia di questo film non sta nel soggetto (il Portogallo tra il ‘500 e il ‘600, la storia di Don Sebastiano e la conquista del Brasile attraverso la vicenda dei due amanti che non s’incontrano mai), ma nella magia del Teatro.
E’ dal Teatro che parte Manoel de Oliveira, in maniera buffa: c’è un attore che funge da Prologo, ci dice due parole, fa suonare le trombe; e subito dopo le porte della platea si aprono e gli spettatori entrano in sala. E’ una scena realizzata in un modo semplice e perfetto, che dà grande emozione a chi sa cos’è il Teatro, anche solo da spettatore. Subito dopo, la narrazione comincia; e, come nell’Enrico V di Laurence Olivier, è un continuo passare dal palcoscenico al film, senza soluzione di continuità, quasi in maniera magica: in mare, su una zattera alla deriva, un uomo che forse è un gesuita. E’ legato, ha le vesti stracciate: qualcuno lo ha abbandonato così; prega e declama il suo monologo confidando nella salvezza...
E’ un film molto lungo, in costume, con lunghi monologhi, che richiede pazienza anche perché la storia del Portogallo – diciamocelo – non è che in Italia la si conosca poi tanto. Ma io con questo film ho imparato chi era Oliveira, e da allora non mi sono più perso un suo film; o almeno, ho cercato di farlo perché questo benedett’uomo ha passato i novanta e continua implacabile a fare un film all’anno. E io mi metto in ascolto, mi preparo come se fossi in teatro, non tossisco, e so che ciò che non capisco è il più interessante, e che quello che mi sembra una perdita di tempo in realtà non lo è mai, quando ho a che fare con Manoel de Oliveira o con un altro dei grandi maestri del presente o del passato.
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