Questo è un blog sul cinema, ma non è un blog di critica cinematografica. E' il cinema visto da spettatori che nei film che amano sono entrati a piè pari perché quei film, in quei giorni particolari in cui li hanno visti per la prima volta, hanno detto loro qualcosa che volevano sentirsi dire, magari senza saperlo. Non sono più film, sono amici, per questo non si stancano di rivederli, proprio come si fa con gli amici veri - e con le amiche, ça va sans dire.
martedì 18 maggio 2010
I libri nel cinema: Il partigiano Johnny
Il partigiano Johnny, di Guido Chiesa (2000), dal romanza di Beppe Fenoglio. Sceneggiatura di Guido Chiesa e Antonio Leotti. Con Andrea Prodan (Pierre), Stefano Dionisi (Johnny), Claudio Amendola (Nord), Alberto Gimignani (Il biondo), Fabrizio Gifuni (Ettore),Giuseppe Cederna (Nemega), Umberto Orsini, Chiara Muti, Barbara Lerici. Rating IMDb 6,6.
Aurelio Tagliabue
A trent’anni dalla sua pubblicazione "Il partigiano Johnny" di Beppe Fenoglio diventò nel 2000 un film per la regia di Guido Chiesa, che con Antonio Leotti ne firmò anche la sceneggiatura. Per la prima volta un romanzo dello scrittore piemontese veniva trasportato sullo schermo; in precedenza c’erano state solo due riduzioni per la televisione: “La paga del sabato” di Sandro Bolchi e “Una questione privata” di Alberto Negrin. Tra i motivi che contribuirono a ritardare questo esordio c’è stata anche la resistenza di Margherita, la figlia dello scrittore, che fino ad allora non aveva acconsentito ad una trasposizione filmica de “Il partigiano Johnny”; ma Guido Chiesa, che per Raitre aveva realizzato nel 1998 il documentario su Fenoglio “Una questione privata”, riuscì nell’impresa di strapparle un consenso. La delicatezza dell’argomento e l’originalità con cui veniva affrontato ponevano un altro ipotetico ostacolo. Sappiamo come la resistenza sia una tematica capace di suscitare dibattiti viziati da schematismi ed ideologismi, ma finalmente si è riusciti a dare il giusto risalto ad un'opera, che della guerra partigiana dà un'immagine decisamente antiretorica e disincantata. In questo senso possiamo subito affermare che il film di Chiesa si dimostra qualitativamente al di sopra delle prove che in quegli anni il cinema italiano aveva fornito su questa tematica, sia perché la vicenda narrata, pur nella sua dimensione quasi autobiografica, diventa
emblematica di un momento storico e civile determinante per più di una generazione; sia perché l'avventura personale del protagonista non ci impedisce mai di allargare lo sguardo all'ambiente, alla gente, al mondo che lo circonda e che questa guerra stava coinvolgendo in una condizione di estrema sofferenza. Quanto di ciò sia merito di Fenoglio e quanto degli sceneggiatori non ci interessa stabilirlo: sarebbe un arido esercizio retorico, visto il rispetto che il film mostra nei confronti dell'opera letteraria. Lo stile anticonvenzionale del romanzo e la sua dimensione quasi autobiografica non hanno impedito di realizzare una trasposizione che si rivela convincente: "All'inizio qualche soggezione è stata inevitabile, ma il fatto
che "Il partigiano Johnny" sia in realtà un romanzo incompiuto, nato dall'arbitraria unione di due diverse stesure e pubblicato da Einaudi dopo la morte dell'autore, ha aiutato lo sceneggiatore Antonio Leotti e me a considerarlo non un testo chiuso e immodificabile, bensì una traccia narrativa su cui lavorare liberamente. La fase di scrittura si è rivelata assai semplice ed anche la struttura narrativa, una volta scalettata, si è immediatamente mostrata chiarissima". Sui titoli di testa scorrono immagini di cinegiornali d’epoca, accompagnate da contemporanei messaggi radiofonici, ma sia la visione che l’ascolto vengono bruscamente interrotti: i documenti ufficiali sono ridotti a frammenti, per lasciare spazio ad un altro tipo di testimonianza, tanto meno ufficiale quanto più carica di umanità. Forse con un po’ di orgoglio e certo per omaggiare lo scrittore, la pellicola inizia e termina palesando la volontà di mantenersi fedele al romanzo. La frase d'apertura "Johnny stava osservando la sua città dalla finestra della villetta collinare" diventa un primo piano del protagonista che sbircia da dietro una persiana l'arrivo del padre (subito mostrato in soggettiva tra i filari della collina), quella di chiusura "Due mesi dopo la guerra era finita" addirittura una didascalia.
Quella di Johnny è una presenza inevitabilmente costante in tutto il film, lo sguardo dello spettatore si identifica con il suo, anche quando non coincidono i punti di vista, cioè quando non ci sono inquadrature in soggettiva. La coscienza di Johnny filtra la visione degli accadimenti, materializzandosi talvolta in una voce fuori campo, oppure, in una sola sequenza, in una serie di rumori assordanti di arma da fuoco, che lo portano ad un momento di abbandono. Anche alcuni altri personaggi ci sono presentati secondo la prospettiva di Johnny: l'ammirazione per il tenente Biondo è espressa dalla voce off, quella per il comandante Nord dalla imponenza fisica esaltata nella prima messa in inquadratura in soggettiva parziale. Il romanzo è però narrato in terza persona ed anche nel film a tratti si realizza uno scarto minimo, tra ciò che mostra la macchina da presa e ciò che può vedere il protagonista; si tratta comunque di immagini brevissime, che, ad esempio, consentono allo spettatore di vedere una colonna di repubblichini o di tedeschi immediatamente prima che anche Johnny la possa scorgere. Il risultato è un accrescimento della tensione nello spettatore, che non riesce comunque ad assumere una consapevolezza superiore a quella del personaggio. In una sola sequenza registriamo l’assenza di Johhny e del suo sguardo: quella in cui da una colonna di renitenti catturati dai tedeschi, fugge un ragazzo che viene ucciso da una raffica di mitra. Scopriremo poi che si tratta di una compagno di scuola del protagonista. Nel romanzo, nel quale il punto di vista del narratore coincide con quello del protagonista, questo episodio non poteva esserci. Il regista ha parlato di questa sequenza come di un piccolo tradimento, necessario per spiegare la condizione in cui si trovavano i coetanei di Johnny e di come a loro si imponeva una scelta.
Ma come si è detto in precedenza, ambienti e personaggi secondari sono una presenza importante e mai superficiale. Il film è stato volutamente girato nei luoghi reali in cui la vicenda è ambientata, paesaggi campestri e sfondi cittadini assumono un forte rilievo come scenari di lotta, gli elementi naturali possono nascondere insidie o dare protezione fino a salvare la vita, i partigiani vivono a contatto fisico di torrenti, colline, boschi, sempre più lontani dalle comodità cittadine, compiacendosi per l'agiatezza che può offrire una cascina o una stalla. Sono nettamente separati dal vivere civile, sprofondati in una dimensione atemporale: non ci sono feste, ricorrenze o scadenze settimanali, il trascorrere del tempo è segnato dal passaggio delle stagioni, evidenziato da didascalie o dalla alternata presenza di foglie secche, neve, colori primaverili. La lotta partigiana è stata anche gelo, fame, noia; alcune immagini dai colori freddi e dalla fotografia sgranata riescono a farci percepire questo disagio. Così come è facile percepire la sofferenza dei contadini, vittime dignitose della guerra, ma anche delle requisizioni dei partigiani comunisti. Li vediamo chiusi in buie ma ospitali cascine, o colti nelle loro antiche occupazioni, divisi tra la volontà di aiutare i partigiani, non per ideologia ma per umanità, ed il timore delle rappresaglie. Significativa a questo proposito è la sequenza in cui uno di loro denuncia a Johnny, verso il quale prova soggezione (Johnny è un cittadino istruito) la presenza di una spia che si finge commerciante di pellami. Chiesa ha scelto i loro volti con l'atteggiamento di chi non sottovaluta i dettagli ed ha operato la giusta scelta di farli parlare per lo più nel dialetto locale.
Eppure siamo lontani da un'impostazione neorealista: a tratti si impone la coscienza di Johnny, con la voce fuori campo che parla in inglese, restituendoci così l'aspetto più originale del romanzo. Poche frasi, ma significative, sopra tutte le altre "I'm in the wrong sector of the right side". Il protagonista si sente sempre più distante dal suo passato: il libro che stava traducendo è diventato un insieme di fogli stropicciati e la sua scelta non consente il ritorno. La macchina da presa indugia su volti e paesaggi, o si agita, portata a spalla, nelle sequenze di battaglia, ricordandoci che "Fare il partigiano era tutto qui: sedere, per lo più su terra o pietra, fumare (ad averne), poi vedere uno o fascisti, alzarsi senza spazzolarsi il dietro, e muovere a uccidere o essere uccisi, a infliggere o ricevere una tomba mezzostimata, mezzoamata".
Resta da dire che il film alla sua uscita fu fortemente penalizzato da un'assurda distribuzione, che ne rese difficoltosa la visione. Non sappiamo perché ciò sia avvenuto e perché il buon cinema italiano debba spesso subire questo trattamento, ma forse Guido Chiesa qualche sospetto l'aveva: "Ma sono consapevole che ormai i pericoli maggiori per i film italiani si vivono dopo le riprese, al momento dell'uscita. Mi pare che non esistano più regole, che il successo o l'insuccesso di un film sia determinato dalla fortuna del momento. Per questo ritengo essenziale trovare una distribuzione motivata, disposta a difendere il film, a consentire la realizzazione di quel passaparola indispensabile a lanciare i prodotti culturalmente e spettacolarmente più impegnativi".
mercoledì 12 maggio 2010
Se passi di qui, fermati un istante e leggi
Tu che passi su questo blog, ti chiederai forse come mai si sia interrotto il 4 marzo 2010. O forse non te lo stai chiedendo: la rete è piena di blog che di punto in bianco s'interrompono, senza avviso alcuno. In genere sono stati abbandonati per stanchezza, delusione o demotivazione. Non è il caso di questo blog che, finché è durato, è stato energico e costante come il suo fondatore, nonché principale redattore.
Il fatto è che Primo Casalini, nick Solimano, è stato male, è stato ricoverato ed è morto. Questo è il motivo per cui il blog s'interrompe senza spegnersi, nel pieno del suo svolgersi, con uno strappo simile a quello che s'è portato via Primo.
Se non conoscevi Primo, ti consiglio di fare una passeggiata in questo suo orto di scrittura, quello a cui forse teneva di più, tra i tanti a cui partecipava. O forse, quello che meglio lo rappresenta, perché lo rappresenta involontariamente. Sarà una passeggiata piacevole e interessante, a tratti allegra, a tratti meditabonda. Primo era un uomo completo e questo si riflette anche nelle sue recensioni di film, come del resto in tutte le cose che faceva e diceva.
Primo aveva chiamato altri a partecipare; aveva tirato su una squadra di collaboratori forse irregolare, ma affiatata (posso dirlo, perché le mie collaborazioni erano così rade, che posso giudicare le cose dall'esterno, obiettivamente). Alla fine, però, era lui quello che teneva in piedi il blog, e che scriveva più di tutti.
Primo lascia una moglie e un figlio.
Sono infiniti i temi su cui Primo rifletteva. Tra tutti isolerei:
l'amore, il dovere di agire, la vita di ogni comunità umana, l'arte e il suo rapporto con la realtà delle persone. Tra i film che sia lui che io amavamo ci sono quelli di Bresson, uno in particolare:
Un condannato a morte è fuggito. E' quello che mi viene in mente adesso, chissà perché (ma non importa: stiamo parlando di Primo, non di me). Qui sotto riporto alcune foto che Primo aveva messo nella sua recensione e alcune frasi di quella recensione, che puoi comunque leggere completa al link che ti ho dato.
In quelle frasi Primo descrive la tenacia con cui Fontaine prepara la sua fuga dal carcere, senza mai perdere di vista l'obiettivo, qualsiasi cosa stia accadendo. Parlava del personaggio di un film, ma anche del modella di vita a cui cercava di conformarsi.
"Fontaine è determinato, ha una forza interiore che lo sostiene, perché altrimenti sarebbe facile lasciarsi andare. Lui lo sa benissimo, ma è costretto ad esitare prima di decidere, perché i problemi sono due. Può fidarsi, delle persone con cui viene in contatto? E le azioni che vuole intraprendere, hanno possibilità di riuscita? Nelle immagini si vede il foglio su cui scrive Fontaine e il modo che trova per comunicare col vecchio prigioniero, che ha una figlia che ogni tanto lo viene a trovare. In questo caso Fontaine ha deciso di fidarsi: gli va bene, ma non aveva nessuna altra alternativa."
"Fontaine è determinato, ma non è che inventi fantasiosamente un nuovo metodo per evadere. Con lucidità procede verso quello che dentro di sé sente di volere: evadere, salvare la sua vita. Quindi cerca di utilizzare le opportunità, specie un cucchiaio che diventa un coltello. E' molto di più il tempo che impiega a far sparire i residui del suo lavorìo che il vero e proprio lavoro sulla porta di legno della cella. Quindi, si potrebbe dire che il film è realistico, ed è del tutto vero. Solo che la quotidianità che usa Bresson ha in sé qualcosa che attraverso la quotidianità si esprime, ma non è la quotidianità. Non sto dicendo che la quotidianità è un mezzo, senza la quotidianità non c'è neppure il resto. Ma cos'è il resto? Con parola ormai oggi del tutto disusata, il resto è la Grazia. "Tutto è Grazia!" sono le ultime parole del curato di campagna di Georges Bernanos, che Bresson riprende nei suoi film. Non è un discorso di atei o credenti: l'esperienza della Grazia è trasversale alle religioni ed alle credenze. Credo che in qualche modo la sperimentiamo tutti, nella nostra vita. Nel film interviene -senza apparire, se no non sarebbe Grazia- almeno quattro volte."
"Quando, proprio alla vigilia del tentativo di evasione, mettono in cella con lui Jost (Charles Le Clainche) un ragazzo di sedici anni che indossa una giubba da tedesco. A Fontaine sembra crollare il mondo. Pensa che Jost sia una spia, ma infine si decide a coinvolgerlo nell'evasione. E si accorgerà che se non erano in due, l'evasione non sarebbe riuscita. Da solo era impossibile riuscirci. Inserisco ora delle immagini in sequenza cronologica sull'evasione, a partire dalla preparazione delle corde in cui si vedono sia le mani di Fontaine che quelle di Jost."
giovedì 4 marzo 2010
I libri nel cinema: La donna della domenica (1)
La donna della domenica (1975) di Luigi Comencini Dal romanzo di Carlo Fruttero e Franco Lucentini Sceneggiatura di Agenore Incrocci e Furio Scarpelli Con Marcello Mastroianni (Commissario Santamaria), Jacqueline Bisset (Anna Carla Dosio), Jean-Louis Trintignant (Massimo Campi), Aldo Reggiani (Lello Riviera), Maria Teresa Albani (Virginia Tabusso), Omero Antonutti (Benito), Gigi Ballista (Vollero), Claudio Gora (Garrone), Franco Nebbia (Bonetto), Lina Volonghi (Ines Tabusso), Pino Caruso (De Palma) Fotografia: Luciano Tovoli Musica: Ennio Morricone (105 minuti) Rating IMDb: 6.7
Solimano
Il romanzo giallo "La donna della domenica" di Carlo Fruttero e Franco Lucentini fu pubblicato nel 1972 ed ottenne un grande successo (a mio avviso meritato, è tutt'altro che un libro di genere). Nel 1975, appena tre anni dopo, Luigi Comencini girò il film, naturalmente ambientato a Torino. Scriverò due post per la vista logica I libri nel cinema, cercando le corrispondenze fra le immagini del film ed il testo letterario.
LA GALLERIA VOLLERO
-Io, a Garrone,-disse duramente il signor Vollero,-non avevo affatto mandato l'invito; non so nemmeno dove abita. Ma una volta venuto, non potevo mica farlo buttare fuori da un gorilla? Questa è una galleria d'arte antica,-disse sottolineando antica,-non un night.
Dal gruppo di persone con le quali stava conversando accanto al cavalletto che reggeva un "Ratto d'Europa", il suo sguardo andò alle altre due sale della galleria, dove gli ultimi invitati (tutte persone civili e distinte) mormoravano educatamente le loro osservazioni sui quadri in mostra.
-Non esageriamo,-disse il critico d'arte.-A me Garrone in fondo è simpatico. Mi diverte.
-Ed è tutt'altro che uno stupido,-disse l'americanista Bonetto.- Ha una notevole apertura, per uno che non c'è mai mosso da Torino. L'anno scorso, qundo ho presentato al Teatro Tu quel gruppo californiano Plasticità e linfe...-fece una pausa, ma nessuno disse niente; alla galleria Vollero ci veniva notoriamente la Torino più sorda e retriva,-be', dopo lo spettacolo ci siamo ritrovati tutti a cena; Garrone era seduto vicino a me, e devo dire che mi ha fatto delle domande piuttosto pertinenti, piuttosto acute. Era realmente interessato.
-Non ne dubito,-disse il signor Vollero. Aveva soltanto una vaga nozione di che cosa fossero il Teatro Tu e i gruppi californiani, ma gli bastava il nome per associarli alla rivoluzione, alla pornografia e all'arte moderna in generale, che detestava prima come uomo e poi come mercante di quadri d'alta epoca. Guardò laggiù, nell'ultima sala, la "Leda col cigno" tardo-cinquecentesca, e si sentì ancora una volta ribollire al ricordo delle rivoltanti osservazioni che poco prima Garrone s'era permesso di fare sul soggetto. E per di più in presenza di due ottimi clienti con i quali le trattative per la tela erano già praticamente concluse. Si voltò all'ingegner Piacenza e signora (ma era lei che contava) con un sorriso di apprensione e di scusa.
Due immagini di episodi raccontati nel libro. Garrone (Claudio Gora) ha appena fatto un versaccio con la lingua fuori ad Anna Carla (Jacqueline Bisset), versaccio che ripete ogni volta che l'incontra (Anna Carla, per questo motivo, riterrà Garrone l'oscentità fatta persona). Garrone a passeggio per le strade di Torino non perde occasione per guardare ogni donna giovane che incontra.
GARRONE AL RISTORO MARIA VITTORIA
Duecentosettanta lire.
Da quando il Ristoro Maria Vittoria-all'angolo della via omonima con Via Bogino-esisteva, non era mai accaduto che l'architetto Garrone lasciasse una mancia così alta. Ma le mille e cinque erano lì, vicino al conto di 1.230, e la sedia era vuota.
-Avrà ereditato,-dicce la cameriera di Altopascio alla sua collega di Colle Val d'Elsa.
-O aveva fretta. Vedrai che quest'altra volta te li richiede.
-O mi chiede qualche altra cosa. Per duecentosettanta lire, è capace.
Dalla cassa all'estremità del bancone la padrona la richiamò con severità
-Non sono discorsi!-disse.
Per quanto economo e saltuario, l'architetto era pur sempre un cliente.
-Oh, e allora quelli che mi fa lui? Sono discorsi?-ribattè piccata Altopascio.
Colle Val d'Elsa ghignò:-Stasera però devi avergli dato spago. Rideva come una scimmia.
-Stasera rideva per fatti suoi. E' stata l'altra volta, invece, che stavo per sbattergli la fruttiera in testa. Aveva preso una banana e voleva sapere se al mio fidanzato...
-Ah!-gridò ridendo Colle Val d'Elsa.-La cosa della banana l'ha detta anche a me.
BOSTON O BAAAST'N?
-Anna Carla, non cambiare le carte in tavola.
-Non cambio niente. Ho ragione io. Mi hai messo in crisi per due giorni, ma adesso sono sicurissima. La pronuncia giusta è Baaast'n, e quindi ho fatto benissimo a dire Baaast'n, e lo dirò ancora ogni volta che si parlerà di Baaast'n, perché è corretto, logico e soprattutto mi viene naturale dire Baaast'n.
-Non far finta di non aver capito. Qualsiasi commesso d'abbigliamento, qualsiasi annunciatore della RAI, sa che si dice Baaast'n, è fiero di saperlo, e lo sfoggia tutte le volte che può. Ma tu.
MASSIMO E LELLO
-Ah, eri tu,-disse Lello aprendo.
Non si baciavano mai, quando lui arrivava o se ne andava. Fin dalle prime volte Lello gli aveva detto di no, che questo faceva troppo marito e meglie; e dato che loro due, per forza di cose, non lo erano, che senso aveva sottostare alla schiavitù di quelle piccole cerimonie? L'indipendenza, la libertà era anche fatta di piccole banalità evitate, di affettuose convenzioni prudentemente respinte. E adesso, nell'anticamera di quello che per Lello era "il mio studio", il contrappeso al grigio ufficio del Comune dove passava le sue giornate ("il mio lavoro"), adesso lui capiva quanto fosse stato saggio. Poteva stare tranquillo: un ragazzo così avrebbe preso bene qualsiasi cosa gli avesse detto.
DAL PARRUCCHIERE
-Ecco,-disse Gianni Tasso. Le diede un ultimo, leggerissimo colpetto ai capelli, poi tirò indietro le mani come da un formicaio.-Grazie,disse piano e senza calore.
Voce, pensò Anna Carla, voce. Poteva ben dirlo più forte, a chi gli pagava il viaggetto a Tahiti.
-E parte presto?-disse alzandosi.
-No,no ci vediamo ancora,-la rassicurò il parrucchiere.
-Ah, allora...
Diradare, pensò, diradare.
Pagò insieme alla signora Tabusso, e non potà evitare di scendere le scale insieme alla signora Tabusso e al suo cane. Una brutta giornata.
-Sono cose dell'altro mondo,-disse subito la signora Tabusso.
Era una di quelle donne che "dicono quello che pensano", cioè in pratica capace di raccontare a chiunque, in qualsiasi posto e a voce altissima, quel genere di cose che una preferirebbe non sapere: dalle varizioni stagionale dei suoi calli, alle abitudini sessuali del suo defunto marito, che appena fatto l'amore, gli veniva una fame tremenda e bisognava preparargli già prima sul tavolino un piatto di prosciutto cotto. Una donna spaventosa, anche da vedere.
PENSIERI DI ANNA CARLA
Non delizioso. Non favoloso. Non adorabile. E nemmeno affascinante. No. Mentre guardava il commissario Santamaria, che adesso stava parlando con Massimo, Anna Carla si rese conto che tutta quella maledetta aggettivazione iperbolica non serviva, con un uomo così, non c'entrava niente, stonava. Delicato, questo sì; perché poco prima, mentre Massimo, camminando su e giù per il terrazzo, le raccontava con effettacci gigioneschi e inutilissime pause alla Hitchcock, tutta la storia del Garrone, della lettera appallottolata, del fallo, della misteriosa bionda col borsone, lui, il Santamaria, era stato impeccabile: né occhiate intensamente scrutatrici (per vedere come lei reagiva) né arie di finta indifferenza (per farle credere che lei non era sospettata). Era rimasto sulla sua sedia di vimini a sentire con pazienza, ecco, con pazienza, le cavatine di Masimo, la traduzione in lingua cretina, diciamolo pure, di un fatto che per lui rappresentava evidentemente solo lavoro, fatica, dovere. Delicato e paziente. Aveva sorriso quando c'era da sorridere (e anche quando non c'era; pieno di tatto, dunque). Aveva chiarito e precisato qua e là; dunque aveva carattere, fermezza, non si lasciava portare a spasso da uno come Massimo, che per portare a spasso la gente... E alla fine le aveva detto una frase stupenda, assolutamente da nodo alla gola. Le aveva detto, allargando un po' le mani:-Ha visto, i casi della vita?
(continua)
lunedì 1 marzo 2010
Visitatori di febbraio 2010
Solimano
I numeri del blog sono buoni, come negli ultimi mesi, ma questo post sui Visitatori di febbraio 2010 è diverso da quelli precedenti. Tratta una realtà che toccano con mano tutti i blog con tanti post in archivio: la classe degli asini. In questo blog, ad oggi, ci sono 1239 post, e come ci sono quelli molto visitati, così ci sono quelli visitati poco, pochissimo. E' bene che il blogghiere lo sappia (e che un po' ci patisca). Gli asini certamente non sono i film, magari sono i post e chi li scrive. Quindi, esco da considerazioni asinine: non spiegano tutto e forse ci vado di mezzo io. Però, oltre a guardare le gratificanti prime pagine delle statistiche, continuerò a guardare anche le ultime, a volte desolanti. In questo modo ho trovato questi dodici post che nel mese di febbraio hanno avuto solo una richiesta per pagina in tutto il mese. Ce ne sono più di dodici, ma ho preferito scegliere post tutti scritti da me: mea culpa mea culpa mea maxima culpa.
Questo è un grazioso film quasi sconosciuto, e le immagini in rete sono pochissime. Inoltre, come per quasi tutti i film della classe degli asini, il post è stato scritto nei primi tempi del blog, quando avevo meno esperienza nella ricerca delle immagini e - soprattutto - quando Google non dava ad AEP (Abbracci e pop corn) la visibilità odierna, perché il numero delle visite non era elevato.
Un film importante, ma poco conosciuto. Forse la migliore interpretazione della coppia Elizabeth Taylor - Richard Burton. Conta più il testo teatrale di Albee che la regia di Nichols.
Un film giallo per modo di dire: è più un film umoristico, ambientato in una spendida campagna inglese. Una delle primissime interpretazioni di Shirley MacLaine.
Uno strano caso. Su "Le invasioni barbariche" ho scritto due post, l'altro è molto visitato. Ma ho capito i motivi, collegati alle immagini ed agli argomenti.
Ottimo film, interpretato da Miou-Miou e che si svolge nella splendida località di Arles. Ma allora avevo poche immagini e piccole, non come queste.
I due ruoli principali sono di Gérard Philipe e di Jeanne Moreau, ciò malgrado, il film è quasi dimenticato. Vent'anni dopo, i film di Forman e di Frears hanno attirato l'attenzione della critica e del pubblico. Però stanno arrivando al film di Vadim delle belle immagini in rete... Potrei decidere di scrivere un altro post. Choderlos de Laclos è fra gli scrittori che preferisco.
Il film di Francesca Archibugi è altalenante: ci sono anche mesi di buone visite. Potrei fare una evidenza per un periodo molto più lungo di un mese... allora dagli asini si passerebbe agli asinissimi... meglio non farla...
Questo non me lo aspettavo. Il film è tra i migliori di Fassbinder e Barbara Sukowa è perfetta nella parte di Lola. Può accadere che un post non venga visitato e poi, per qualche motivo, arrivino finalmente le visite. Succede di tutto, in rete.
Un film inflazionato di post. Tutti scrivono post su Lolita di Kubrick. La conseguenza è che i retaioli si trovano di fronte una scelta vastissima di siti e di blog. Mi è successo anche per altri film molto noti, su cui avevo delle aspettative. Ma siamo in tanti, troppi. Quando ho capito, ne ho tenuto conto nelle scelte.
Eppure, su questo film non mollerò. Vorrei scrivere un post o due per la vista logica "I libri nel cinema". Il film di Chabrol è scandito in modo tale che si presta molto, ad illustrare Flaubert.
Tanti, a visitare il Ritratto di signora di Gina Lollobrigida basato sul film "La provinciale" di Mario Soldati. Pochissimi, per ora, la cercano come Esmeralda.
Anche qui, può darsi che scriva un altro post o due, perché il film lo merita. Evidentemente, la presenza di Nastassja Kinski ha affollato la rete di post e i visitatori hanno larga scelta. In questi casi, o non si scrive, o si punta su un argomento specifico (il libro, il paesaggio etc).
di Alfred Hitchcock
sabato 27 febbraio 2010
Ritratti di signore: Elsa Martinelli
La risaia di Raffaello Matarazzo (1956) Sceneggiatura di Aldo De Benedetti, Ennio De Concini, Carlo Musso Con Elsa Martinelli (Elena), Folco Lulli (Pietro), Michel Auclair (Mario), Rik Battaglia (Gianni), Vivi Gioi (la madre di Elena), Lilla Brignone (la moglie di Pietro), Gianni Santuccio (l'avvocato), Susanne Lévesy, Liliana Gerace, Edith Jost, Bianca Maria Fabbri, Emilia Ristori Musica: Angelo Francesco Lavagnino, Fotografia: Luciano Trasatti (90 minuti) Rating IMDb: 5.9
Solimano
Avvertenza preliminare. E' sempre bene ampliare le immagini, per questo film è quasi essenziale, se si vogliono cogliere aspetti di personaggi, di gruppi, di lavori e paesaggi che altrimenti potrebbero sfuggire. Il film va guardato come se fosse un coinvolgente fotoromanzo, un meraviglioso fumetto.
Nel 1949 Giuseppe De Santis aveva girato "Riso amaro" nella Tenuta Veneria in provincia di Vercelli. Sette anni dopo, nel 1956, Raffaello Matarazzo, che ormai si avvia alla fine della sua carriera, gira "La risaia" nella Cascina Graziosa, fra Casalino e Cameriano, in provincia di Novara. Oggi il film di De Santis è universalmente noto, quello di Matarazzo pressoché ignorato. A questo film dedicherò alcuni post, perché lo merita per diversi motivi.
E' meglio guardare il film a sé stante, come se non ci fosse stato "Riso amaro". E' tutt'altro che un remake, per utilizzare la terminologia oggi abituale. "La risaia" non ottenne un successo paragonabile a quello di alcuni precedenti film di Matarazzo (Catene, Tormento, I figli di nessuno, Chi è senza peccato), ma ebbe comunque un buon pubblico. Un film a suo modo grandioso come paesaggi, come risonanti - quasi epiche - musiche di Lavagnino, come modalità di riprese tecniche, come masse (oltre cinquecento mondine!).
Ed Elsa Martinelli? Anche qui, il confronto con Silvana Mangano serve a poco e le caratteristiche del personaggio sono diverse: l'aspetto fisico aiuta, sia la Mangano che la Martinelli sembrano costruite apposta per i loro due personaggi. Sarebbe impensabile che se li scambiassero, ed è una lode per i registi e per le interpreti.
Le mondine arrivano. Hanno davanti quaranta giorni di duro lavoro. Scendono dal carro che le ha trasportate e fra di loro c'è Elena Forti (Elsa Martinelli), che ha un aspetto diverso dalle altre. Si scoprirà durante il film che ha studiato, prendendo il diploma di maestra. Prima di cominciare a lavorare c'è un controllo anagrafico. Le mondine si dispongono in fila e quando passano accanto al tavolo dicono il proprio nome e cognome ad alta voce e l'addetto fa la spunta sulla lista. Vicino all'addetto c'è il padrone della cascina, Pietro (Folco Lulli) che rimane impressionato nel sentire il nome e il cognome della ragazza, che sul momento non ci bada. Ma vedrà in seguito che Pietro è molto interessato a lei.
Comincia il lavoro. Si fatica, si canta, si ride e si litiga. Da una frasetta di Elena nasce una rissa fra mondine a cui Elena non partecipa. Sedata la rissa, tutte di fronte a Pietro, che è un padrone duro e deciso. Quando si accorge che c'è ancora acredine fra i due gruppi di mondine, chiede chi ha dato l'innesco, ed Elena si accusa come colpevole, disposta ad andarsene.
Ma accade una cosa inaspettata. Mentre Elena sta uscendo per andare a prendere la sua roba e partire, Pietro dice che per questa volta ci si può passare sopra, quindi Elena può restare. Succesivamente, Pietro continua a parlare con Elena, cercando di sapere da dove viene e com'è la sua vita. Tutti lo notano, e pensano che ci sia dell'attrazione fisica. Invece Elena capisce che c'è dell'altro, non è quello il punto, ma è disturbata dalle domande che le fa Pietro. Elena non parla volentieri di sé.
Arriva alla cascina Mario (Michel Auclair), che è il nipote della moglie di Pietro (Lilla Brignone). Litiga con Pietro, che l'accusa di aver falsificato la sua firma su una cambiale. Viene a sapere dello strano comportamento di Pietro con Elena e naturalmente lo interpreta a suo modo, come una tentata seduzione. Si offre di dare un passaggio per Novara sulla sua macchina rossa a tre mondine. Una trappola per estendere l'invito anche ad Elena che non può sottrarsi e che è interessata ad andare a Novara per ragioni sue. Mario scarica le tre mondine con una scusa, quindi Elena è sola con lui che la aggredisce. Elena, con una spallina strappata riesce a scendere dalla macchina.
Sta passando un automezzo da lavoro. Alla guida c'è Gianni (Rick Battaglia), un meccanico auto che ha visto la scena e l'ha male interpretata. Pensa che sia stato Mario a far scendere Elena dall'auto rossa per scaricarla. Mario dà un passaggio ad Elena, ma fa capire quello che pensa. Elena scoppia a piangere (ma intanto si è sistemata la spallina). Gianni ed Elena si salutano, entrambi speranzosi di rivedersi.
Però Mario - il nipote perverso - non molla. Durante una festa locale occhieggia dietro il gruppo delle mondine al tiro a segno, poi, mentre le mondine ballano fra di loro, si fa sotto di nuovo con Elena, che sarebbe in difficoltà se non intervenisse Gianni, che arriva in quel momento ed affronta risolutamente Mario.
Gianni ed Elena escono insieme. Prima prendono un gelato, poi lui le mostra l'officina meccanica di cui è molto fiero. Ha un socio , ma pensa di farcela ad andare avanti da solo, fra un po' di tempo.
Pietro fa un viaggio a Milano. Cerca una donna con cui era stato vent'anni prima e che aveva lo stesso cognome di Elena. Finalmente la trova: è la madre di Elena (Vivi Gioi) e Pietro viene a sapere che il padre è lui. Elena racconta i suoi anni di sofferenza, i mestieri duri (anche adesso fa la serva), però è riuscita ad allevare la figlia e a farla studiare. Non vuole che Pietro si intrometta, dopo essere stato assente per vent'anni.
Nel dormitorio delle mondine scoppia un incendio. Pietro riesce a salvare Elena, a costo di ferirsi. La ragazza lo sa, capisce che le è veramente affezionato, ma continua a non capire il motivo.
Gianni ed Elena sono felici, perché reciprocamente innamorati . Pietro ha capito la situazione fra i due e vuole aiutarli a farsi una vita insieme. Cerca nascostamente di aiutare Gianni, facendogli ottenere una concessione da una ditta nel ramo petroli. Gianni - che non è stupido - scopre chi c'è dietro quella offerta generosa, ma capisce a rovescio e litiga con la sua ragazza. Elena non sa che dire: ha capito che Pietro non le sta dietro per ragioni sessuali, che le vuole veramente bene, le ha persino salvato la vita. Ma a questo punto, non può fare altro che dire risentita a Pietro di non intromettersi nella sua vita, di lasciarla stare.
I quaranta giorni di lavoro sono passati, c'è la festa finale. Elena è disperata, perché Gianni non l'ha più cercata. Le compagne la fanno bere, forse un po' troppo, ed Elena si mette a ballare da sola in mezzo alla pista. Tuti la guardano ammirati. Ma a un certo punto, Elena non ce la fa più, abbandona la pista e si mette a piangere da sola. Poi va nel dormitorio, sempre da sola.
Alla festa era presente anche Mario, che segue Elena, ed entra nel dormitorio per violentarla. Intanto è è successa una cosa che poteva risolvere la situazione: Pietro ha parlato con Gianni e gli ha detto la verità, cioè che lui è il padre di Elena. Gianni si precipita alla festa, arriva tardi, sente una voce di donna che grida "Aiuto!", capisce cosa sta succedendo ed affronta Mario nel dormitorio (giungendo appena in tempo prima dello stupro). I due uomini si battono sotto lo sguardo atterrito di Elena e Mario muore accidentalmente andando a finire contro un grande rastrello con le punte acuminate. Che fare adesso? Compare Pietro, che ha deciso il da farsi: si autodenuncerà di aver ucciso Mario e andrà in prigione. Il suo modo di pagare il ventennale debito verso la figlia.
Le mondine partono sul carro, a fianco del carro camminano Elena e Gianni. Passa la camionetta dei carabinieri con Pietro, che è stato appena arrestato. Guarda sua figlia Elena e sua figlia guarda lui. Poi continuerà a camminare con Gianni.
Elsa Martinelli (il nome vero è Elsa Tia) nasce a Grosseto il 30 gennaio 1935.
Nel 1953 a Roma, quando fa la commessa in un bar, viene scoperta dallo stilista Roberto Capucci e diventa rapidamente una indossatrice e modella internazionalmente famosa.
Nel cinema, quasi subito una piccola parte in un film importante, "Le rouge et le noir" (1954) di Claude Autant-Lara, poi il successo hollywoodiano in un film con Kirk Douglaa: "The Indian Fighter" (1955). Quindi, quando Raffaello Matarazzo le affida la parte di Elena ne "La risaia" (1956), Elsa Martinelli è giovanissima, ma non esordiente. Ha recitato in 61 film, ma gran parte di essi sono compresi fra il 1953 e il 1971. Dopo ha molto diradato le sue apparizioni, dedicandosi più alla TV che al cinema.
Inserisco parte di una intervista che le fece Laura Laurenzi il 26 aprile 2006 per la Repubblica:
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Seduta nel salotto di casa a un passo da Piazza del Popolo, in tuta grigia e rosa, rosa anche le scarpe da ginnastica, Elsa Martinelli appare più in forma che mai. Fa il punto, racconta, ricorda. Parla dei tempi d'oro di cui è stata testimone ironica, le tre copertine su "Life", le estati a Saint Tropez con Brigitte Bardot, le notti ruggenti a El Morocco di New York, e il discorso scivola inevitabilmente sull'io lo conoscevo bene. Nureyev e Truman Capote, Tennesse Williams e Salvador Dalì. E poi Marilyn, Ava Gardner, Grace Kelly che "ha avuto tantissimi amanti".
Le piace l'etichetta di diva controvoglia?
"Perfetta. Non me la sono mai tirata. Se ti crei attorno il mistero della diva, l'atmosfera dell'intoccabile, appena possono ti zompano addosso e ti massacrano. A me invece piace fare una vita normale, andare al cinema, andare al mercato a fare la spesa, cucinare".
In "Orgoglio" è una perfida duchessa. Perché queste parti da cattiva?
"Era 13 anni che non facevo una fiction. Ho accettato solo perché è una grande produzione: in genere le cose televisive fanno schifo e le attrici sono tutte intercambiabili, tutte rifatte. La parte da cattiva me l'hanno offerta perché ho il fisico del ruolo. Alta un metro e 76, altera, con i vestiti che mi stanno a pennello, cosa potevo fare, la suora? la nonnina con l'uncinetto in mano?".
Ma è vero che lei disse di no a Lelouch che la voleva in "Un uomo una donna" giudicando la storia troppo melensa?
"Perché, non è una storia melensa? Se gli levi la musica a quel film che gli resta? Mi venne a cercare questo regista semisconosciuto con la fronte bassa, piena di ricci, arcigno. Non aveva un copione scritto, una traccia, niente. Mi raccontò di questi due vedovi, o separati, che si incontrano a Deauville. No grazie! Perché non prende Anouk Aimée? gli dissi. Poi Anouk non ha più fatto molto...".
Un altro dei suoi no fu per Bettino Craxi, vero?
"Sì, quando era presidente del consiglio mi chiese di occuparmi del suo look. Premetto che sono molto amica della moglie Anna, che stimo tantissimo. Lui mi disse: Elsa, sei una donna internazionale, perché non mi aiuti? Ho rifiutato. Poteva chiederlo alla moglie, o a una professionista. Per me era imbarazzante l'idea di consigliargli il tipo di pantaloni giusti o ritrovarmelo in vestaglia".
Parliamo degli uomini famosi che ha avvicinato durante i suoi anni hollywoodiani. Gary Cooper.
"Ha bevuto champagne da una mia scarpa di raso per darmi il benvenuto. Ma davanti alla moglie. Io sono subito diventata amica di tutte le mogli, perché ho capito che potevano essere molto gelose".
Kirk Douglas.
"Il più sexy, il più pieno di charme. Molto più del figlio".
Humphrey Bogart.
"Non mi è mai piaciuto. Lo trovavo bruttino. Brutto il colore, così olivastro. E poi non parlava: biascicava".
Orson Welles.
"Grandioso senso dell'umorismo. Non si prendeva mai sul serio".
John Wayne.
"L'opposto che sullo schermo, il contrario del cowboy. Uno degli uomini più raffinati che abbia conosciuto, con una delle case più eleganti e più sobrie che abbia mai visto in vita mia".
E John Kennedy?
"L'ho conosciuto a Los Angeles a casa di amici, quando era già presidente. Ecco, con noi non si è mai comportato da presidente, ma sempre con semplicità, naturalezza, classe, da ragazzo nato ricco che si circonda di amici divertenti. Jacqueline è stata una first lady bravissima: credo fosse la donna più tradita d'America".
Inserisco immagini di undici film di Elsa Martinelli in ordine cronologico:
di Denys de La Patellière