lunedì 2 novembre 2009

Capitalism: A Love Story


Capitalism: A Love Story (2009) Regia e sceneggiatura di Michael Moore Nel film-documentario compaiono, o direttamente o da archivi filmici e fotografici, le seguenti persone: William Black, Jimmy Carter, Elijah Cummings, Baron Hill, Marcy Kaptur, John McCain, Michael Moore, Sarah Palin, Ronald Reagan, Franklin Delano Roosevelt, Arnold Schwarzenegger, Wallace Shawn, Elizabeth Warren, George W. Bush, Nancy Davis, Martin Luther King, Helmut Kohl, Bela Lugosi, Barack Obama, Robert Powell, Joseph Stalin Musica: Jeff Gibbs Fotografia: Daniel Marracino, Jayme Roy (127 minuti) Rating IMDb: 6.9

Massimo

127 minuti per una visita guidata nel capitalismo carnivoro degli Usa.

E' quella di Michael Moore col suo Capitalism: A love story. Che in un paio d'orette smonta la famosa tesi smithiana alla base del capitalismo moderno, che vedrebbe la motivazione individuale al guadagno, come la maggiore garanzia del bene comune.
E' quello che più tardi, i pragmatici consiglieri economici di Bush hanno trasformato nel "trickle down". Ovvero, dare sempre più ai ricchi, perché poi il benessere da loro "gocciola giù" anche a beneficio dei poveri.

Ma mentre le gocce tardano ad arrivare, Moore ci fa vedere l'arrivo dei famelici e velocissimi esecutori dei pignoramenti immobiliari, mandati delle banche americane per buttare fuori dalle case intere famiglie, dopo aver stipulato con loro i vellutati mutui scorsoi, che le hanno strangolate in pochi mesi.

Moore infila la sua telcamera come il muso di un segugio nelle auto dove lavoratori, donne e bambini si trovano dall'oggi al domani a dormire, perché non hanno più la loro casa. Colpisce la dignità di persone curate, pettinate, composte, che stanno imparando da poco tempo ad essere povere.


La tragedia è di tali proporzione che persino la Chiesa prende posizione contro questa epidemia di povertà. Il vecchio prete, come il vescovo denunciano la bestemmia dell'egoismo sfrenato.
E qui Moore tocca (per me) la punta più alta del suo sarcasmo abrasivo, quando rimanda alcuni spezzoni di Jesus Christ Superstar doppiando le risposte di Cristo con le parole d'ordine del nuovo vangelo del capitalismo.

Non c'è l'happy end, ma la nota di speranza sì.
Che - seppure a fatica - nasce come al solito dalla lotta per i propri diritti.

Moore piazza le sue telecamere nel bel mezzo di un quartiere che si ribella all'ennesimo sfratto per pignoramento: donne che rinfacciano al rappresentate delle banche, che proprio le banche sono state salvate con soldi pubblici, per poi essere spietate con chi paga la crisi da loro innestata.
Ne escono dialoghi presi dal vivo che valgono mille comizi.

Poi la resistenza dei lavoratori di una fabbrica in crisi. La occupano per reclamare il pagamento dei loro arretrati. Prima sono isolati e presi per stravaganti; poi vengono sostenuti dalla popolazione, che porta cibo e solidarietà a qui pazzi che si sono messi contro i ricchi; finché la grande azienda cede e paga. Solo quando la vittoria è conclamata, arriva il supporto dei media.

Capitalism è un film commovente, ironico, politico. Che ce l'ha pure con te.
"Io mi sono stufato di fare questi film - dice Moore alla fine sui titoli di coda - a meno che tu, proprio tu seduto su quella poltrona, non decida di darti da fare".


3 commenti:

  1. Hai presente, Massimo, la vecchia storia del leone e della gazzella usata per giustificare la durezza del rapporto capitalistico? Aveva un senso, ma oggi la storiella vera è un'altra; quella dei due lucci messi in uno stagno che prima divorano tutti gli altri pesci, poi si sbranano fra loro e quello che rimane in vita muore di fame. Non ci si è ancora resi conto della gravità epocale della crisi. I disoccupati cresceranno sempre di più e gli occupati dimunuiranno, un processo ireversibile legato allo spostamento degli uomini e dei beni ed alla tecnologia. Quindi la regola non può più essere la repubblica fondata sul lavoro, ma la repubblica fondata sul diritto all'esistenza. La sinistra non se n'è ancora resa conto, presa dalla difesa di posizioni acquisite. Siamo appena agli inzi.

    grazie Massimo e saluti
    Solimano

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  2. E' così, Solimano.
    Tant'è che si parla ormai da tempo di "decrescita felice" per indicare la sobrietà che potrà farci sopravvivere.
    Ma poi penso, sicuro che tutti vogliono sopravvivere?
    Essere vitali significa avere un progetto. Mentre vedo troppi vagabondi in Suv che non sanno cosa farne della loro vita. Figuriamoci di quella del pianeta.
    Ho chiesto a Latuche - uno dei teorici della decrescita - quando è venuto a Roma: contano più i grandi trattati o i micro comportamenti? Ci ha pensato su, poi mi ha detto "Per educarsi a micro comportamenti responsabil, ci vuole un grande trattato. Ma con sé stessi".

    A presto, Slimano
    Massimo

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  3. Stranamente la frase di Latouche richiama un concetto diverso (ma con delle analogie), che era caro a Richard Normann, il grande teorico della società dei servizi: "Small is beautiful in a large scale", che ancora stranamente richiama un vecchia canzone: "Jai deux amours, mon pays et Paris". E' il momento di avere la testa per aria ma i piedi ben piantati in terra. Una situazione paradossale in cui c'è la possibilità tecnologica per cui tutti gli abitanti del pianeta possano vivere una vita decorosa. Per questo dico che occorre parlare di diritto all'esistenza, prima di diritto al lavoro, che è un eventuale di cui. Lo zoccolo duro per tutti è indispensabile e possibile, oggi.

    ciao Massimo, a presto
    Solimano

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