L'Inferno di Giuseppe Berardi (1911) Ispirato all'Inferno di Dante Con Giuseppe Berardi (Dante), Armando Novi (Virgilio) (15 min)
Solimano
Questo è il secondo post dedicato al film "L'Inferno" (1911) di Giuseppe Berardi. Appare evidente la povertà dei mezzi che Berardi aveva a disposizione, perché questa fu una iniziativa di una piccola casa, la Helios di Viterbo, che non si sognava di competere con la Milano Films, voleva soltanto raccogliere qualche frutto dalla curiosità che aveva destato l'iniziativa di realizzare un film sull'Inferno. Il vantaggio ci fu per tutti e due i film, sia in Italia che all'estero. Proprio per il tipo di argomento, entrambi i film dettero un contributo alla realizzazione di novità in quelli che oggi chiamiamo effetti speciali. Paradossalmente, fu avvantaggiato il film di Berardi perché doveva riuscire a far molto con poco. Uno stimolo alla curiosità che dette i suoi frutti: la bolgia dei simoniaci, i lussuriosi travolti dalla bufera, la pioggia di fuoco sui bestemmiatori, il ghiaccio dei traditori, la bolgia dei seminatori di discordia sono degli esempi sorprendenti. I riferimenti figurativi sono naturalmente quasi tutti rivolti alle famose illustrazioni di Gustave Doré, che molti conoscevano e che costituirono, di per sé, un'ottima pubblicità per i film.
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde;
per ch'ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingeva mentre ch'era solo;
tale scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s 'accendea, com'esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
delle misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l'arsura fresca.
Canto XIV, 28-42
dell'acqua che cadea nell'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d'una torma che passava
sotto la pioggia dell'aspro martiro.
Venían ver noi, e ciascuna gridava:
«Sostati tu ch'all'abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava».
Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri,
ricenti e vecchie, dalle fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.
Alle lor grida il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver me, e disse: «Aspetta:
a costor si vuol essere cortese.
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta».
Ricominciar, come noi restammo, ei
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei,
qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti;
e sí rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sí che 'ntra loro il collo
faceva e i piè continüo vïaggio.
Canto XVI, 1-27
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo erano ignudi i peccatori:
dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l'essercito molto,
l'anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo còlto,
che dall'un lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro;
dall'altra sponda vanno verso il monte.
Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.
Ahi come facean lor levar le berze
alle prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.
Canto XVIII, 20-39
piena la pietra livida di fori,
d'un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que' che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per luogo di battezzatori;
l'un delli quali, ancor non è molt'anni,
rupp'io per un che dentro v'annegava:
e questo sia suggel ch'ogn'uomo sganni.
Fuor della bocca a ciascun soperchiava
d'un peccator li piedi e delle gambe
infino al grosso, e l'altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averíen ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar delle cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lí dai calcagni alle punte.
Canto XIX, 13-36
parlar» diss'io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che il priego vaglia mille,
che non mi facci dell'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna:
vedi che del disio ver lei mi piego!»
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch'i' ho concetto
ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,
perché fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove per lui perduto a morir gissi».
Canto XXVI, 64-84
e tronco il naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch'una orecchia sola,
ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi alli altri aprí la canna,
ch'era di fuor d'ogni parte vermiglia,
e disse: «O tu cui colpa non condanna
e cu' io vidi in su terra latina,
se troppa simiglianza non m'inganna,
rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.
Canto XXVIII, 64-75
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela il vapor che l'aere stipa,
cosí forando l'aura grossa e scura,
piú e piú appressando ver la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;
però che come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
cosí ['n] la proda che 'l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tona.
Canto XXXI, 34-45
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
sí che l'un capo all'altro era cappello;
e come 'l pan per fame si manduca,
cosí 'l sovran li denti all'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l'altre cose.
«O tu che mostri per sí bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perché» diss'io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch'io parlo non si secca».
Canto XXXII, 124-139
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'i' 'l fessi per voglia
di manicar, di subito levorsi
e disser: 'Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia'.
Queta'mi allor per non farli piú tristi;
lo dí e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?
Poscia che fummo al quarto dí venuti,
Gaddo mi si gettò disteso a' piedi,
dicendo: 'Padre mio, ché non m'aiuti?'
«Quivi morí; e come tu mi vedi,
vid'io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dí e 'l sesto; ond'io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dí li chiamai, poi che fur morti:
poscia, piú che 'l dolor, poté 'l digiuno».
Canto XXXIII, 55-75
da mezzo il petto uscía fuor della ghiaccia;
e piú con un gigante io mi convegno,
che giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant'esser dee quel tutto
ch'a cosí fatta parte si confaccia.
S'el fu sí bello com'elli è or brutto,
e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogni lutto.
...
Da ogni bocca dirompea co' denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sí che tre ne facea cosí dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso 'l graffiar, che tal volta la schiena
rimanea della pelle tutta brulla.
«Quell'anima là su c'ha maggior pena»
disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
Canto XXXIV, 28-36 e 55-63
Di bene in meglio! Avevo pensato anche io alle immagini di Doré che mi riepirono di deliziosa paura nell'infanzia quando riuscivo a prendere la grossa e pesante Divina Commedia che avevamo a casa. Una festa per gli occhi e per la mente: il tuo post, intendo :-p
RispondiEliminaP.S. avevo inserito il mio post prima di accorgermi del tuo. L'ho tolto e rimesso in bozza per un altro giorno.
Salutissimi, Annarita
Annarita, sì Dorè. Ci ha condizionati tutti.
RispondiEliminaMe lo immagino, il regista Giuseppe Berardi, anche lui col suo librone sul set mentre girava il film nel 1911: "Allora, guardate come dovete disporvi...", diceva alle comparse facendogli vedere le illustrazioni del Dorè. Ti confesso che mi sono molto divertito, con questi due post.
Ci sono altri illustratori della Divina Commedia, prima o poi sarà il caso di parlarne, da qualche parte.
Ho sdocchiato in bacheca il tuo film, non ho resistito alla tentazione... pubblica quando vuoi!
grazie Annarita, saludos e bentornata
Solimano
Ti riferisci a Botticelli, vero? Ci sono altri illustratori della DC? Un rapido giro in rete mi ha portata a un collegamento con Salvator Dalì, ma la notizia mi giunge nuova.
RispondiEliminaGrazie per il tuo placet.
Vado, posto e torno ;-)
Salutissimi, Annarita
Annarita, ci sono almeno altri due grandi illustratori della Divina Commedia (in particolare dell'Inferno) ma per il momento non li dico, perché vorrei scrivere un post intitolato "A proposito dell'Inferno di Dante" come ho fatto a suo tempo un post "A proposito dell'Odissea".
RispondiEliminaIl fatto che ci siano qui nel blog i signori Omero, Dante e Shakespeare è per me una goduria massima, se non altro perché ognuno di noi, leggendo appena due righe dei suddetti, ridimensiona un po' le discussioni sull'ultimo Premio Strega e su chi vincerà il Campiello.
grazie Annarita e saludos
Solimano