lunedì 30 giugno 2008

Tutti a casa

Tutti a casa, di Luigi Comencini (1960) Sceneggiatura di Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Luigi Comencini, Marcello Fondato Con Alberto Sordi, Eduardo De Filippo, Serge Reggiani, Martin Balsam, Alex Nicol, Carla Gravina, Didi Perego, Claudio Gora, Mario Feliciani, Jole Mauro, Mac Ronay, Nino Castelnuovo, Mino Doro, Silla Bettini, Mario Frera, Vincenzo Musolino Musica: Angelo Francesco Lavagnino Fotografia: Carlo Carlini (120 minuti) Rating IMDb: 7.4
Solimano
Di fronte ad un film come Tutti a casa non so se prevale la contentezza o il dispiacere.
Contentezza per l'importanza del tema, che inutilmente si cercava -e si cerca- di rimuovere, l'8 settembre.
Dispiacere perché il film non la dice tutta, procede un po' con il freno a mano tirato.
Nel rapporto con certe date c'è tutta la storia civile -e incivile- del nostro paese. Faccio alcuni esempi.
Primo maggio. Alcuni non sanno che la festa del primo maggio è nata negli Stati Uniti nel 1886 e credono che sia un residuo paleocomunista. Durante il fascismo, il primo maggio non si festeggiava e si cercò di sostituirlo con il 21 aprile, il Natale di Roma, chiamandola Festa del lavoro italiano. Ci fu successivamente un'altra operazione più sottile, ma che sento molto fastidiosa: nel 1955 il papa Pio XII istitui la Festa di San Giuseppe Artigiano e ne fissò la data al primo maggio. Si badi: artigiano, non lavoratore, non operaio. Ci trovo ipocrisia e indebita invasione di campo, una mancanza di rispetto verso chi la festa del primo maggio se l'era costruita nelle lotte, nelle tragedie, nelle difficoltà.
Venticinque aprile. E' la festa della Liberazione, quindi anche la festa della Resistenza, non viceversa. Anche qui ci vedo una appropriazione di tipo diverso.

Due giugno. Festa della Repubblica, ottenuta dopo un drammatico referendum fra Repubblica e Monarchia. E' diventata una festa in cui bisogna fare delle sfilate militari in via dei Fori Imperiali, una festa di cui si vantano proprio quelli che il 2 giugno dovrebbero andarsi a nascondere.
Venti settembre. La breccia di Porta Pia. E' una festa che non esiste, esistono soltanto ancora in molte città delle vie XX settembre, ma di nomi del genere probabilmente non se ne danno più. State boni, ragazzi. Cercate di non ricordare che per più di cinquant'anni, dopo il venti settembre, il Vaticano proibì ai cattolici qualsiasi attività politica, con il famoso non expedit. Di questo non parla nessuno. Ogni tanto si parla di Galileo e Giordano Bruno dicendo che sì, sono stati commessi degli errori, ma tutto sommato quei due se l'erano andata a cercare.
Quattro novembre. Per fortuna, questa festa è vicina alla festa dei morti. Così si evita di festeggiare e magari si pensa alla inutile strage della prima guerra mondiale, che si poteva evitare e che è stata la prima grande tragedia del novecento, da cui tutte le altre tragedie sono scaturite quasi matematicamente. In compenso, l'Italia è piena di monumenti alla Vittoria ed ai Caduti, in genere contadini che la guerra non la volevano proprio e che furono mandati a morire a centinaia di migliaia contro le mitragliatrici.
Di date ce ne sarebbero altre ma mi fermo qui. Istituirei il giorno di riflessione fissandolo all'8 settembre, perché in quel giorno vennero in chiaro tutti i secolari mali italiani, solo verniciati dalla retorica del ventennio. Ma la retorica è l'eterna scappatoia, e dell'8 settembre si cerca accuratamente di non parlare, per evitare di farci i conti nel qui e ora.

Che poteva fare, Luigi Comencini nel 1960? Aveva un produttore come De Laurentis, molto sensibile a quello che si voleva nei palazzi del potere democristiano e vaticano. Un protagonista come Alberto Sordi che ottenne che la seconda parte non fosse affidata a Nino Manfredi ma a Serge Reggiani perché voleva essere l'unico commediante in primo piano. Un ministro come Andreotti, che vietò il prestito di due carri armati (così li fecero di compensato).
Beh, Comencini riuscì a fare un bel film, proprio la presenza di Serge Reggiani aggiunse serietà. Me li vedo, come sarebbero stati i siparietti fra Sordi e Manfredi.


Ma tutta la parte con Eduardo De Filippo, lodatissima, sa di posticcio. Eduardo De Filippo fa il padre di Alberto Sordi, che è il sottotenente Alberto Innocenzi. Di fronte al figlio che torna a casa in una situazione di sfascio generale, sembra che l'unica soluzione per il figlio sia quella di arruolarsi nella RSI. Il figlio se ne va nella notte sussurrando un capoccione interiore che riguarda il padre. Ma quando mai. Era un tema drammatico da affrontare drammaticamente, nel contrasto, nella separatezza, ma prevalse l'idea di un cameo in cui per definizione Eduardo De Filippo doveva fare una parte simpatica.
I tedeschi compaiono come il male assoluto. Anche su questo non sono d'accordo. Il problema dell'8 settembre non fu che i tedeschi reagissero (non ci si poteva aspettare altro), ma che si trovassero di fronte allo sbandamento generale, ad un paese che collassò su se stesso, soprattutto l'esercito. Dopo la Liberazione ci sarebbe dovuta essere la corte marziale per il Re e per Badoglio, altro che referendum fra repubblica e monarchia.


Anche l'episodio della ragazza ebrea (Carla Gravina) che il contadino veneto Codegato (Nino Castelnuovo) cerca di salvare rimettendoci la vita sa un po' di santino edificante, ma la presenza benvenuta di Carla Gravina è mirabile.



Come sono mirabili tante rappresentazioni di una Italia distrutta dai bombardamenti e distrutta nell'animo delle persone, per cui privilegio le immagini dure, che furono girate soprattutto in posti di Livorno ancora completamente degradati nel 1960, più di quindici anni dopo gli eventi.


Molto credibile l'episodio con Didi Perego, ottima attrice che fa la borsara nera col camion pieno di sacchi di farina, abbandonando il marito nel letto con una gamba rotta e fuggendo con il sottotenente Innocenzi, ormai in borghese e che tocca il punto personale di massimo degrado. Il camion con la farina viene saccheggiato dalla gente, imbestiata dalla fame.
Naturalmente, i preti fanno bella figura: proteggono i fuggiaschi durante una funzione religiosa, occasione del siparietto di Alberto Sordi nascosto in un confessionale, a cui una vecchietta confessa i peccati attraverso la grata.

E' un film da vedere e rivedere, perché Comencini ha una sensibilità quasi unica nell'individuazione dei sentimenti e nel coglierli nei gesti più ancora che nelle parole. Quindi ammirazione, e tanta, perché non c'è un attimo di noia. Ma anche un giusto fastidio per il politicamente corretto in troppe direzioni: il Vaticano, l'inizio della Resistenza visto troppo moralisticamente, ma soprattutto un perdonismo verso i vizi italici che nell'8 settembre trovarono la prova del nove.
C'è sì, nel Capitano Passerini di Mario Feliciani la lucidità di chi per scampare ha dovuto subire l'onta di mettersi in borghese con vestiti d'accatto, ma che dall'esperienza trae la lucidità del capire che cosa si può fare (andare in montagna). Ma in Alberto Sordi, che recita in modo tecnicamente straordinario, vedi proprio lo stato d'animo, la coscienza morale che cambia a seconda del vestito che porta. A raccontare i nostri vizi, le nostre meschinità, riuscirono (anche se non sempre) Petri e Rosi, oltre al caso di Pontecorvo che fu una felice anomalia.
Più recentemente ci provò Bertolucci con risultati alterni ma indimenticabili (La strategia del ragno, Il conformista, Novecento) e di fronte alla verità dura di Bertolucci i giochi si scompigliarono: non erano film che fosse possibile farsi piacere se non si era d'accordo.

Comencini e Monicelli fecero ottimi film, come questo e La Grande Guerra, ma volevano forse più piacere che dispiacere: Totò e Carolina uscì due anni dopo essere stato realizzato ed indegnamente scorciato. Il sistema, con Andreotti in testa, era attentissimo a cosa succedesse, sapeva come muoversi, alternando lusinghe a censure, lavorando più sui produttori che sui registi. Così, a livello sceneggiatori e registi, divenne usuale una autocensura di tipo a volte inconscio: buttarla sull'episodietto ben condotto, sull'attrice vezzosa e scoperta, sul caratterista più che sul carattere, ma nella sostanza stando bene attenti a non affondare i colpi. Se almeno ogni cinque minuti non ci fosse stata una scena che facesse più ridere che sorridere non andava bene. I registi francesi ed americani si trovavano di fronte a società civili in cui il contrasto era il sale della crescita, in Italia non è mai stato così, e si vede ancora.

7 commenti:

  1. Mi sono letto tutto con attenzione e ne ho concluso:
    Questo è un testo da incorniciare.
    C'è poco da aggiungere.

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  2. Ce ne sarebbero, eccome se ce ne sarebbero, di cose da dire/aggiungere/discutere.
    Sull'interpretazione del senso di alcune "date storiche", per esempio?
    Oppure sul film, per esempio (che sarebbe altro discorso da quello dell'interpretazione della storia)?
    Ed eventualmente, se si decidesse di planare/puntare dritti e a muso duro sul film.... su quale parte del film?
    Magari discettare sul come e qualmente la concordanza/dissonanza che l'interpretazione di certi eventi forniti da Comenicini nel suo film appatta oppure non appatta (terminologia terronica) con la nostra personale interpretazione di quelle date e quegli eventi?

    Preferisco arrendermi, innalzare Bandiera Bianca e a scrivere la fatale frase:

    "Bel post!"

    Ciao, Solimano che se tu non ci fossi, qualcuno dovrebbe affrettarsi ad inventarti (smile)
    (Già solo il fatto che mi sopporti ti rende d'ufficio meritevole di Oscar)

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  3. Vorrei che a questo post fosse lasciato spazio, che non venisse immediatamente sommerso da altre cose. Certo, poi Google recupera, altri (tanti altri) certamente lo leggeranno. Ma intanto io lo avrò perso di vista, e mi dispiace...
    H.

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  4. Un bellissimo post "civile", senza dubbio, di stampo -posso dirlo?- piu' anglosassone, che mediterraneo; piu' giansenista, che romano-cattolico (piu' Bresson, che Comencini).
    La commedia all'italiana ha del resto questa ambiguita' di fondo (che e' anche la ragione della sua popolarita' all'estero): che il difetto diviene innocuo (quindi simpatico), che il giudizio viene emesso, ma poi sospeso. Quello che poi si dice sempre: "l'italiano e' buono, in fondo", e via stereotipando.
    Ma questa ambiguita' rispecchia fedelmente una parte del nostro modo di sentire e rappresentare (non siamo un paese di giansenisti, si sa). La commedia all'italiana, pero', riesce a rovesciarne un poco gli esiti.
    Per far passare altri contenuti ci vogliono altre forme: la tragedia o il dramma, non la commedia. Quest'ultima, pero', ha il pregio di essere un genere popolare (perche' basso). Opere piu' alte e severe (e spesso piu' velocemente invecchiate!) hanno forse dato di piu' al loro pubblico; che pero' era un pubblico che gia' tanto aveva, e abbastanza ristretto, in verita'.
    Mz

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  5. Nicola, dopo più di trent'anni di multinazionale (e che multinazionale!), la mia cultura -non parlo del libresco - è anglosassone, quindi non perdonista, ad esempio. Quando dettero l'Oscar per la carriera a Elia Kazan (comunque un grande), più di metà della sala non si alzò in piedi e non applaudì, più di trent'anni dopo la delazione al tempo di McCarthy. Te li vedi, i nostri, che litigano di brutto e dopo una settimana si fanno una magnata assieme. Non sono giansenista, fra di noi sappiamo chi è il giansenista (Giuliano): amo più Rubens e Hals di Rembrandt e Vermeer. E fra la triplice del potere culturale in Italia (crociani, gramsciani e vaticani) sono proprio gli ultimi, quelli verso cui sono più indulgente: il grande mito cristiano è stato fecondissimo, e non solo culturalmente ed esteticamente, vai in Santa Maria dei Mendicanti a Bologna, con le cappelle di tutti i mestieri. Ammiro molto la lucidità di Odifreddi che fa benissimo a picchiare duro, ma su questo aspetto non lo seguo, anche se va detto che negli ultimi due secoli la fecondità si è quasi del tutto esaurita, e i motivi si sanno.

    grazie e saludos
    Solimano

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  6. Anche a me piace di più Rubens (e Tiziano). Ma su di lui non si faranno film.

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  7. Caro Solimano, io sui giansenisti no so nulla, non so nemmeno se mi hai fatto complimento o un insulto... L'unica cosa che so è che l'inventore del giansenismo si chiamava Jansen (olandese, danese, fiammingo, tedesco...?).

    Però posso dirti che ho molto rispetto per gli autori, come dicevo all'inizio del blog citando Manzoni. Riassumendo: quando si parla di un libro, o di un film, bisognerebbe sempre chiedersi:
    - quale era l'intento dell'autore;
    - se questo intento è ragionevole;
    - se l'intento è stato raggiunto.
    Questo secondo Manzoni. Naturalmente, perché il ragionamento sia valido serve un Autore, e Comencini lo è.

    Comencini ha scelto la commedia, prende un tema serio e lo tratta in modo semplice e divertente. Vuole divertire dando quando qualche informazione, portando ricordi, sfiorando il drammatico, magari far sì che le nuove generazioni ricordino e capiscano: da questo punto di vista, Comencini è stato molto bravo, quasi perfetto.

    Poi ci sono i difetti, e li hai esposti benissimo. Però non penso che Comencini potesse fare molto di più, così come non potevano fare molto di più Moliere e Shakespeare e Goldoni...
    Li si legge e si prende spesso rabbia, perché i difetti che hanno descritto ci sono ancora tutti.

    Io, per me, rimango a quella vignetta di Bucchi: "Pulisci pulisci, ma l'Italia si riforma sempre".
    Che è una riflessione amarissima, sulla quale moralmente sono in completo disaccordo, ma dopo le ultime elezioni, che altro dire?

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