venerdì 6 giugno 2008

Lo scafandro e la farfalla

Le scaphrandre et le papillon, di Julian Schnabel (2007) Racconto di Jean-Dominique Bauby, Sceneggiatura di Ronal Harwood Con Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Marie-Josée Croze, Anne Consigny, Patrick Chesnais, Niels Arestrup, Jean-Pierre Cassel, Marina Hands, Max von Sydow, Isaac De Bankolé, Emma de Caunes, Anne Alvaro Musica: Paul Cantelon , Charles Trenet (La mer), Tom Waits (All The World Is Green), U2 (Ultraviolet) etc Fotografia: Janusz Kaminski (112 minuti) Rating IMDb: 8.1

Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce

Buio, poi una luce bianca accecante, sprazzi di colore, tutto sfocato. Lentamente, il contorno di figure umane, l'eco di voci lontane e poi vicine, voci e figure che sembrano giganti e mostruose, così come il grandangolo di un occhio offeso le percepisce.

I volti sono quelli di medici intorno ad un paziente che si è appena risvegliato dal coma. Apprendiamo insieme a lui, un'informazione alla volta, il suo stato di salute: è paralizzato; è affetto da una sindrome rara e incurabile: “Inutile girarci intorno: lei è paralizzato dalla testa ai piedi” gli dicono alla fine.

Sentiamo una voce chiara di qualcuno che sta vedendo e ascoltando, e interagisce con chi gli parla: quello che crede di dire, realizza presto che gli altri non arrivano a sentirlo. Non può parlare. Immobilizzato su un letto, vivo e vitale solo attraverso l'occhio sinistro con cui osserva tutto e tutti, guidato da una mente lucida e attenta.
Partecipiamo al suo sgomento, alla sua paura, al suo disorientamento… Guardiamo attraverso i suoi occhi, ascoltiamo attraverso le sue orecchie. L’immedesimazione è totale.

Il film racconta la dolorosa e incredibile storia vera di Jean-Domique Bauby irrequieto caporedattore di Elle, vittima della cosiddetta sindrome di lock-in che lo paralizzò nel 1995, a 43 anni.

Eppure Jean-Dominique Bauby, grazie a un metodo ingegnoso messo a punto da una logopedista, riesce a comunicare quello che sente, che prova e vuole.

L'impresa narrativa è decisamente difficile, ma il regista Schnabel, però, ha vinto la sfida seguendo, l'immaginazione del protagonista che col pensiero torna al passato, rivede il suo vecchio padre, la moglie che ha lasciato e i figli, l'amante che lo aveva subito abbandonato, incapace di affrontare la sua malattia, ma riprende con maestria la sua condizione presente attraverso il suo occhio sinistro: ci fa vivere con lui il suo modo di reagire al suo stato, i suoi rapporti con amici e parenti venuti a trovarlo e quelli con le infermiere che gli si fanno attorno: una ortofonista, una fisioterapista e la ragazza, che lo aiuterà con pazienza e amore a scrivere il suo libro dettandoglielo parola per parola.

Nel suo letto prima, e poi su una sedia, Jean-Dominique è prigioniero dei suoi muscoli inerti. Il suo corpo è diventato una sorta di orrido scafandro che lo tiene in un mare e lo esclude da quello che sempre più desidera: la leggerezza, il volo lieve di una farfalla.

Non è un santo, Jean-Dominique, e ancor meno è perfetto. Ma è vivo. Gli sono piaciute le donne, e ancora si stupisce di non poter volar via dalla sua prigione per tornare a sentirle, a toccarle, a goderle.
Insomma, non fugge dal mondo e dalla sua bella carnalità, per quanto niente più gliene sia concessa.

Accetta la fatica della scrittura. Battito di palpebra dopo battito di palpebra, nasce il suo libro. In questo modo si rimpossessa del suo tempo, e suoi tornano a essere gli affetti che lo abitano: le donne, la sua Inès i suoi figli, e la madre dei suoi figli, gli amici.

E poi il suo vecchio padre, una bella figura di vecchio che ama e da cui è amato, di cui si era preso cura e che inutilmente tenta di consolare.
Senza miracoli, torna alla vita. E così lo vede chi gli si avvicina: non come un goffo, inutile corpo immobile, ma come un padre, un figlio, un amante, un amico. Anche il cinema si lascia convincere dal suo coraggio, e accenna ad abbandonare il punto di vista soggettivo. Ogni tanto, appunto, la macchina da presa lo osserva dall'esterno, vivo tra i vivi: mentre "parla" alla sua Inès, per esempio, o mentre lo baciano i figli.

Un film estremo, insomma, così com'è estremo il caso di Bauby che, agitando la palpebra è riuscito a dettare lettera per lettera, adottando un alfabeto particolare, un intero volume, concluso pochi giorni prima del suo decesso e divenuto un bestseller:

Un calvario di 16 mesi (Bauby si spense il 9 marzo 1997, dieci giorni dopo la pubblicazione del volume), ma anche un incredibile inno alla vita, vista e vissuta attraverso quell'occhio capace di esprimere tutta la profonda essenza di un uomo così umiliato e imprigionato, ma libero come una farfalla, nei battiti di quelle palpebre. Un uomo che guarda alla vita in modo diverso e ne scopre pur nella sua terribile invalidità tutto il suo valore.

Ma c'è anche profonda disperazione. Nei suoi monologhi interiori si chiede se quella si possa chiamare vita, che rimpiange cose mai dette, gesti mai compiuti, amore mai dato, la gioia perduta senza però mai perdere, persino, un innato senso dell’umorismo.Un film che non cade mai nel retorico e nel sentimentalismo.

Ho pensato vedendolo al mio amico Roberto che vive seduto sulla carrozzella perché affetto da tatraparesi spastica, a ciò che mi ha raccontato della sua vita. Prima chiuso in istituto, poi, grazie alla sua forza di volontà, libero tra tutti e con tutti.

Lui mi ha fatto capire come sia la società che stabilisce i criteri per dividere in categorie gli uomini.
E tra queste passa una lunga barriera invisibile ma molto solida che divide i “normali” dai cosiddetti “handicappati”; questi in quanto “mancanti di qualcosa” non sono considerati proprio uomini. Essi nella nostra mente vengono così declassati da “persona completa” a persona “segnata, screditata” da quello che Goffman chiama “stigma”.

Partendo da queste premesse si mettono in opera discriminazioni che di fatto riducono le possibilità di vita di chi è considerato “diverso”.

Alla parola «handicap» siamo abituati ad associare altri concetti che relegano ai margini individui di cui pochi hanno voluto scoprire le potenzialità. Queste sono le sbarre, i rigidi confini che non ci permettono di percorrere strade nuove. «II fatto che le persone normali - dice Goffman - sono in grado di muoversi, di vedere, di udire, non vuol dire che vedano o ascoltino». Può capitare però, a volte, che delle sbarre siano spezzate e che i percorsi mentali che prima di allora credevamo obbligati subiscano dei cambiamenti. È questo il momento in cui delle certezze si aprono al dubbio e lasciano intravedere orizzonti diversi.

«Si può vedere - dice Sacks - una stessa persona come irrimediabilmente menomata o così ricca di promesse e di potenziale»

Ed è quello che fa Schnabel, entrando nella storia di ci aiuta a capire che anche se il corpo è paralizzato, l’individuo non è solo corpo: è intelligenza, spirito, affettività, emozioni….è sempre comunque un uomo con cui si può avere scambi e relazioni vere.

Schnabel è al suo terzo film e prima di regista è un pittore.

4 commenti:

  1. Giulia, segnalami qualsiasi eventuale errore o lapsus.
    Nella scelta delle immagini, a quelle che avevi scelto tu, ne ho volutamente affiancate anche altre che danno una lettura complementare del film.

    grazie Giulia e saludos
    Solimano

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  2. Mamma mia che cast! Mi sembrava di riconoscere le facce.
    C'è anche Max von Sydow, un inchino rispettoso.
    Marie Josè Croze viene da "Le invasioni barbariche", sono contento di rivederla in un film importante: alle volte ci si chiede come mai certi attori e certe attrici non siano diventate delle star...

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  3. Tutto molto bene Solimano, sei sempre un mago nlla scelta e nell'accostameneot del testo e delle immagini, Giulia

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  4. sono d'accordo con Giulia, un film rigoroso che non scade mai nel retorico o nel sentimentalismo. Nonostante ciò non lo si può definire un gran film, mi sembra, piuttosto,un film onesto.

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