venerdì 30 maggio 2008

Lolita (2)

Lolita di Stanley Kubrick (1962) Romanzo di Vladimir Nabokov, Sceneggiatura di Vladimir Nabokov, Stanley Kubrick
Con James Mason, Shelley Winters, Sue Lyon, Peter Sellers, Gary Cockrell, Jerry Stovin, Diana Decker, Lois Maxwell, Shirley Douglas Musica: Nelson Riddle Fotografia: Oswald Morris (152 minuti) Rating IMDb: 7.7

Gabrilu sul suo blog NonSoloProust

Sono sempre restia a paragonare un film con il libro dal quale quel film è stato tratto. Si tratta di due modalità espressive che utilizzano codici completamente diversi. Tranne casi macroscopici -- che esistono, purtroppo -- di plateale violenza del testo originario, può accadere che un film che contenga aggiunte o tagli rispetto al testo e che dunque apparentemente lo tradisca, giunga in realtà a coglierne lo spirito meglio di un film pedissequamente fedele che segua gli eventi pagina per pagina.

Il caso della Lolita di Kubrick è particolare perchè bisogna tener conto, nel giudicarlo, di alcune cose importanti.

Il film venne realizzato nei primi anni Sessanta, quando i vincoli della censura erano strettissimi e un tema come quello affrontato dal romanzo di Nabokov era considerato quasi un tabu. Si pensi solo al fatto che Laurence Olivier, che aveva accettato subito e con entusiasmo il ruolo di Humbert propostogli da Kubrick era stato costretto a rifiutare dai suoi agenti, che ritenevano la tematica troppo scottante e che temevano che interpretare questo ruolo avrebbe pesato negativamente sull' immagine e sulla carriera del grande attore.

Già il fatto stesso di essere riuscito a realizzare il film rappresentò per Kubrick un successo, anche se per farlo fu costretto ad andare a girarlo in Gran Bretagna. D'altra parte, lo stesso Nabokov aveva collezionato a Parigi parecchi rifiuti, prima di riuscire a trovare un editore disposto a pubblicargli il libro.

Chi conosce bene il romanzo di Nabokov si accorge che il film, anche se molto buono, è comunque molto più soft del libro, e non poteva che essere così.

Gli attori principali sono tutti eccellenti nell'interpretare parti che sono davvero ingrate (non esiste un personaggio decisamente positivo o anche solo semplicemente simpatico): da James Mason a Shelley Winters a Peter Sellers non saprei davvero fare una graduatoria di bravura.



Un discorso a parte, ed importante, sento però di farlo per Sue Lyon (Lolita).

Era difficilissimo trovare un'interprete che dimostrasse dodici anni all'inizio della storia e diciassette alla fine del film. A quell'età, due o tre anni incidono molto, nella crescita di una bambina. Cambia il fisico, cambia il modo di muoversi, cambia il comportamento, cambia il modo di guardare.


Venne scelta Sue Lyon, che incarna molto bene il personaggio di Lolita ed è bravissima nella recitazione però... non c'è dubbio che (non certo per colpa sua) non trasmette l'impressione di essere una bambina dodicenne ma di essere già sin dall'inizio un'adolescente. Questo è un punto di fondamentale importanza, perchè noi lettori sappiamo che se Lolita appare un'adolescente e non una bambina vuol dire che ha già varcato quella soglia oltre la quale Humbert non trova più interessanti e attraenti le cosiddette "ninfette". Ricordate quando, nel romanzo, Humbert dice di Lolita, quando questa compie tredici annni "la mia amante che invecchia"?

Sempre a proposito di Sue Lyon, una curiosità: nonostante fosse la co-protagonista del film, quando questo venne proiettato al Festival di Venezia non le fu consentito di assistervi; Sue aveva sedici anni ed ai minorenni era vietato l'ingresso in sala.

La sceneggiatura del film è firmata da Nabokov, che vi lavorò per più di sei mesi. Non tutto ciò che scrisse venne utilizzato da Kubrick, e dopo alcuni anni Nabokov pubblicò il testo integrale della sceneggiatura (tradotta e pubblicata anche in italiano da Bompiani).

Ma a questo punto propongo di leggere due stralci tratti da interviste in cui Nabokov e Kubrick dicono le loro impressioni.

Vladimir NABOKOV

La prima ebbe luogo il 13 giugno (Loew's State, Broadway e Quarantacinquesima, E 2 + 4 platea, "posti orribili" dice senza peli sulla lingua la mia agenda). La folla dava la posta alle limousine che approdavano una a una, e dentro una di quelle c'ero anch'io, entusiasta e innocente come i fans che ne sbirciavano l'interno sperando di intravedere James Mason ma trovandoci solo il placido profilo di una controfigura di Hitchcock. Qualche giorno prima, a una proiezione privata, avevo scoperto che Kubrick era un grande regista, che Lolita era un film di prima qualità con attori magnifici, e che della mia sceneggiatura erano stati usati solo brandelli sparsi. Le modifiche, il travisamento delle mie trovate migliori, l'omissione di intere scene, l'aggiunta di altre, e ogni genere di cambiamenti ulteriori, non erano forse sufficienti a far cancellare il mio nome dai titoli di testa ma di certo rendevano il film tanto infedele alla sceneggiatura originale quanto lo sono certe traduzioni di Rimbaud e Pasternak fatte da un poeta americano.

Mi affretto ad aggiungere che queste ultime osservazioni non vanno assolutamente interpretate quale riflesso di un tardivo rancore, di uno stridulo biasimo nei confronti dell'approccio creativo di Kubrick. Nel travasare Lolita su schermo sonoro, lui vedeva il mio romanzo in un modo, io in un altro: tutto qui, né si può negare che un'assoluta fedeltà può anche essere l'ideale per un autore, ma per il produttore può risultare rovinosa.

La mia prima reazione al film fu un misto di irritazione, rammarico, e restio godimento. Più d'un'intrusione (quale la macabra sequenza del ping-pong o l'estatica sorsata di scotch nella vasca da bagno) mi parve azzeccata e spiritosa.



Penose, però, altre (quali il crollo della brandina pieghevole o i fronzoli dell'arzigogolata camicia da notte della signorina Lyon).



Le sequenze, per lo più, non erano certo migliori di quelle da me pensate con tanta cura per Kubrick, e mi pentii amaramente del tempo perso, pur ammirando la saldezza di Kubrick, nel sopportare per sei mesi l'evoluzione e la somministrazione di un prodotto inutile.

Ma mi sbagliavo. Rammarico e irritazione si placarono presto al ricordo dell'ispirazione tra le colline, la sedia a sdraio sotto la jacaranda, la spinta interiore, la luce, senza le quali non avrei portato a termine il compito. Mi dissi che dopotutto nulla era andato perso, che la mia sceneggiatura restava intatta nella sua custodia e che un giorno l'avrei potuta pubblicare: non come meschina confutazione di un film dovizioso ma semplicemente come vivace variante di un vecchio romanzo.

Montreux, Dicembre 1973
(Dalla Prefazione di Vladimir Nabokov a Lolita: Una Sceneggiatura, Bompiani, 1997)

Stanley KUBRICK

Nel libro si poteva pensare che lui la volesse soltanto... che non pensava ad altro. Ma siccome tutte queste cose non potevano passare nel film, l'interesse che lo spingeva verso Lolita veniva immediatamente percepito come una certa forma di amore e non solo di desiderio carnale. In questo senso, credo, il film ne ha perso il valore: a causa dell'impossibilità di mostrare la parte erotica. E' la sola parte che mi abbia deluso. La pellicola sarebbe stata migliore, se fosse stato costantemente presente un potente elemento erotico. [...] La pellicola rispettava fedelmente i personaggi, la loro psicologia del romanzo, ma non aveva affatto tutto il violento aspetto sessuale che avrebbe dovuto possedere. [...] Se Lolita è un fallimento, è imputabile solo alla mancanza di erotismo.

(Da un'intervista di Renaud Walter a Stanley Kubrick)

Gli argonauti (1)

Jason and the Argonauts, di Don Chaffey (1963) Da "Le Argonautiche" di Apollonio Rodio, Sceneggiatura di Jan Read, Beverly Cross Con Todd Armstrong, Nancy Kovack, Gary Raymond, Laurence Naismith, Nial MacGinnis, Michael Gwynn, Douglas Wilmer, Jack Gwillim, Honor Blackman, John Cairney, Patrick Troughton, Andrew Faulds, Nigel Green, Ferdinando Poggi, Davina Taylor Musica: Bernard Herrmann Fotografia Wilkie Cooper Trucchi: Ray Harryhausen (104 minuti) Rating IMDb: 7.3
Solimano
Ogni settimana vado alla Biblioteca Civica di Lissone a restituire i cinque DVD della settimana precedente e a prendere altri cinque DVD. Il divertimento è nel curiosare senza programma fra le scansie contenenti i DVD, scansie che intelligentemente sono lasciate a disposizione dei visitatori.
La mia scelta dipende quindi dal mio stato d'animo: pedante, curioso, serioso, italianista, cosmopolita, erotico, moralista, libresco, fumettaro e poche centinaia di altre possibilità. A cose fatte -cioè a DVD scelti- il meglio è quando c'è stata un'alternanza di stati d'animo, perché vedersi cinque Bresson di fila non va bene, come non va bene vedersi cinque Polanski o Comencini che dir si voglia (solo con Rohmer riuscirei a guardarmene venti uno dietro l'altro, ma si sa, à chacun son amour).
Così sono zompato su Gli argonauti (1963) un film che non avevo mai visto: ne ignoravo addirittura l'esistenza. E' stata una scelta felicissima, è un film che consiglio a tutti, specie a chi, a forza di prendersi troppo sul serio, è a rischio di tristezza cronica. Ci ha giocato la mia passione di bambino-ragazzo-adolescente per la mitologia greca, un argomento sconfinato. Provate ad andare in Wikipedia alla voce "Argonauti", vi troverete di fronte non un articolo, ma una serie di articoli con tutte le versioni ed i nomi diversi, perché la mitologia greca ha soprattutto una cosa bella: che di versioni ce ne sono tantissime, ognuno può farsi la mitologia sua, e sono tutte vere, verissime! Vengo al dunque.


Siamo nella città di Iolco. La giovane Briseide (Davina Taylor), di famiglia reale, è inginocchiata davanti alla statua della dea Hera, e qui i realizzatori del film la mettono subito dura, per far vedere che le cose le sanno: le statue greche erano veramente colorate, non è che hanno colorato la statua della dea per sfruttare il Technicolor.
Però arriva un guerriero. E' Pelia (Douglas Wilmer), quello che sta vincendo, e che è cattivissimo, come si vede dallo sguardo. Con una spadata uccide Briseide e festa finita. Un vero peccato visto che a una bella giovane come Briseide mi ero subito affezionato. Ma tant'è, nella mitologia non sono tutte rose e fiori. Però il bambino Giasone, di stirpe reale pure lui, si salva. Riapparirà fra vent'anni.

Facciamo per intanto un salto non indietro, ma in alto, molto in alto. Perché ci sono gli dei e le dee. In particolare Zeus (Nial MacGinnis) ed Hera (Honor Blackman) che vediamo seduti ad un tavolo che è una specie di scacchiera. La scacchiera è il mondo e i pezzi diversi sono i vari eroi ed eroine che gli dei e le dee (soprattutto) spostano a secondo delle simpatie, degli sgarbi e degli strusci che ci sono stati in passato e così via. Zeus ha un po' l'aria rintronata (ma forse la colpa è dell'attore), comunque è abbastanza super partes -tranne quando di mezzo ci sono certe eroine- mentre Hera è tifosissima per Giasone (Tedd Armstrong), che è cresciuto fuori mano e che adesso ricomparirà alla corte del cattivissimo Pelia.



Questi interventi degli dei nelle cose umane richiedono un po' di organizzazione. Ci pensa soprattutto Ermes (Michael Gwynn) che non è un lavativo, è un dio in perenne movimento, difatti sta portando in mano Giasone per metterlo sulla scacchiera.
Guardate Hera come si coccola il suo Giasone con lo sguardo. Cominciano a dargli le istruzioni, e intanto, arrivano tutti gli altri dei e dee, che hanno sentito che c'è un eroe nuovo. Quindi, l'immagine è un po' una foto di famiglia scattata all'Olimpo. Sono un po' malizioso e ho dedotto che l'Olimpo sarà senz'altro un bellissimo posto, ma c'è il rischio della noia, basta vedere come tutti questi sono incuriositi da un eroe nuovo, con tanti che ce ne sono in giro.


Con una serie di mosse politiche azzeccate (c'è dietro la longa manus di Hera), Giasone viene ricevuto cortesemente da Pelia, che organizza in suo onore una festicciola all'aperto, una cosa modesta ma fine nel suo genere: l'orchestrina dietro e tre danzatrici o sacerdotesse -distinzione non facile- che fanno una serie di mosse gradevoli.
Anche qui, si vede la competenza della troupe del film: le ho viste con i miei occhi le statue delle Korai al Museo dell'Acropoli di Atene, tutte brave giovani e tutte con la gonna corta corta, specie dietro. Sul colore viola non so dire, probabilmente allora non portava sfortuna alla gente di teatro.
Quando due come Pelia e Giasone hanno in piedi un contenzioso su argomenti di piccolo conto come la sottrazione del regno e lo sterminio della famiglia, c'è solo un modo per superare le reciproche antipatie: mettersi d'accordo per prendersela con qualcun altro.
Così nasce la storia del Vello d'Oro che sta nella Colchide: l'idea vincente è di organizzare una spedizione comandata da Giasone per impossessarsi del Vello d'Oro. Pelia è contento perché si toglie di torno Giasone per una missione a rischio, e Giasone sa -glielo ha detto Hera- che impossessarsi del Vello d'Oro è il prerequisito per recuperare poi il regno avito.
Tutta alta politica, infatti il figlio di Pelia, Acasto (Gary Raymond), prima insiste col padre perché faccia fuori Giasone, poi si arruola anche lui nella spedizione. Fossi in Giasone, non mi fiderei, di uno come Acasto.


E' facile dire: "Bene, bene, partiam partiamo!" Occorrono due cose fondamentali, se si vuole giocare bene la partita.
La prima è la squadra, e qui Giasone fa tutto molto bene: una pubblicità martellante in tutte le città della Grecia, questa della Colchide è una impresa che attira -anche perché nessuno c'è mai stato, e i greci sono curiosi di natura. Soprattutto, Giasone punta sui vincitori dei giochi olimpici. Così si trova una masnada di arcieri, pugili, lanciatori del disco, corridori, tutti eroi quasi sempre seminudi che si danno pacche non solo sulle spalle. Mbah!
Ci si aggiunge la ciliegia sulla torta. Macché ciliegia, una ciliegiona: Ercole (Nigel Green). E' un po' stagionato, ha la barba lievemente brizzolata, ha già svolto molte Fatiche -infatti la pelle del leone di Nemea ce l'ha sempre addosso.
Che farci, Ercole è uno che alla popolarità ci tiene, è un po' presenzialista ma i meriti ci stanno tutti, non ci metteremo mica a discutere sulla classe cristallina di Ercole, che è pure un semidio: sua mamma Alcmena ha fatto l'outing, con Zeus c'è stata per pura ingenuità. Cose passate, comunque.
Ercole si atteggia a padre nobile con gli altri eroi più giovani, tipo Castore, Piritoo, Telamone e altri cento di cui Wikipedia riporta scrupolosamente i nomi.
Però Ercole ha preso in simpatia soprattutto un giovane senza pedigree, un certo Ila (John Carney) che gli sta sempre appresso. Secondo me è una simpatia eccessiva, ma i Greci erano larghi di manica, e la troupe del film ancora una volta conferma la sua autorevolezza. Anche se, va detto, nel film non c'è una persona che Apollonio Rodio aveva scritturato: Atalanta di Calidone, cacciatrice e vergine (vorrei sapere perché tutte le cacciatrici erano vergini, chissà le pescatrici). E' il momento di fare chiarezza: nella spedizione c'era anche Meleagro, è allora che si sono conosciuti, anche se sono riusciti a non farlo sapere.


Manca ancora la cosa più importante: una nave fatta apposta per andare nella Colchide. Alla nave ci pensa Argo (Laurence Naismith), che si imbarcherà fra l'equipaggio. La nave ha una bellissima polena che riproduce le fattezze di Hera. La polena è installata a poppa, non a prua, e ogni tanto gli occhi dellla polena diventano vivi: è Hera che durante il viaggio darà consigli a Giasone. I consigli saranno cinque, non uno di più, così ha stabilito Zeus che ogni tanto deve far sentire la sua autorità, se no c'è il rischio che non lo prendano più sul serio. Qui vediamo la nave Argo in fase di allestimento e poi in mare aperto. Il viaggio verso la Colchide è iniziato...
(continua)

giovedì 29 maggio 2008

Quattro minuti

Vier Minuten, di Chris Kraus (2006) Sceneggiatura di Chris Kraus Con Monica Bleibtreu, Hannah Herzsprung, Sven Pippig, Richy Müller, Jasmin Tabatabai, Stefan Kurt, Vadim Glowna, Nadja Uhl, Peter Davor, Edita Malovcic, Kathrin Kestler, Christian Koerner, Amber Bongard, Dieter Moor Musica: Annette Focks Fotografia: Judith Kaufmann (112 minuti) Rating IMDb: 7.4

Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce

“Un carcere. Due donne. Tre esami. Quattro minuti, per suonare finalmente la musica della propria anima”. Questo in sintesi il contenuto del film.
Quattro minuti si apre con la scena di uno stormo di rondini che vola libero nel cielo sorvolando le mura del carcere femminile di Luckau. In mezzo alle alte mura di cemento e ai cancelli di questo austero luogo fa ingresso un pianoforte insieme all’ottantenne signorina Traude Kruger.

La signorina Kruger dalla fine della guerra, da circa cinquanta anni, ogni mattina arriva puntuale nel carcere femminile di questa piccola città tedesca per insegnare pianoforte alle poche detenute interessate. Il corso rischia di essere chiuso per mancanza di adesioni, ma la determinazione della donna con l'appoggio solidale dell'agente Mutze (Sven Pippig) convincono il direttore del carcere ad una revoca.

Il film si muove intorno alla storia di due personaggi: Una è Traude Krüger (Monica Bleibtreu), insegnante di piano con gli occhi e il cuore al periodo della Germania nazista dove ha seppellito ricordi traumatici che hanno segnato tuta la sua vita; l’altra è Jenny von Loeben (Hannah Herzsprung), giovane condannata per omicidio e ritenuta estremamente pericolosa, una bambina prodigio che si esibiva in grandi sale da concerto.


Traude è una donna all'antica, autoritaria, severa, taciturna, chiusa in un rigore ottocentesco. Jenny è una ragazza di vent'anni ribelle, insofferente verso ogni regola, spesso aggressiva e violenta.
Nonostante il temperamento aggressivo di Jenny, l'insegnante ottiene il permesso di istruirla per farla partecipare al concorso per giovani talenti "Gioventù musicale", con la scusa di rafforzare la reputazione pubblica del carcere e, soprattutto, di migliorare l'immagine del direttore Meyerbeer.

Le due donne sono due personaggi apparentemente incapaci di sentimenti e di rapporti veri con gli altri. “Non mi interessa lei come persona, ma come musicista" ripete più volte Traude all’allieva Jenny, quasi a sottolineare qualsiasi mancanza di interesse umano nei confronti della ragazza.

Chris Kraus, aiutato in questo dalla straordinaria prova delle due attrici (la misurata e intensissima Bleibtreu e la brava Hertzsprung), smonta pian piano la distanza tra le due, che si svelano e si incontrano fino a trovare un’intesa profonda e commovente: poche le azioni e tanti gli sguardi, profondamente carichi di significato... una relazione sempre precaria, tesa su un filo sottile sempre in pericolo di spezzarsi.

La costruzione di questo sottilissimo gioco psicologico dapprima alimenta la complicità tra le due, fino alla riuscitissima scena delle fuga (Hannah che scompare improvvisamente dietro il pianoforte), si trasforma poi nel finale ad effetto in una pura reciproca immedesimazione.

Unite da un comune tormento interiore per il dolore di ferite profonde inferte da un passato violento, entrambe si esprimono con la musica: la signorina Traude attraverso l'inflessibile classicismo di Schumann, Jenny attraverso l'irrequietezza sonora dell'hip hop che ha assimilato dalla cultura "urbana".

I poetici quattro minuti dell'esibizione di Jenny sono l'incontro di questi mondi. La ragazza rielabora la musica dei classici con la musica hip hop, usando il pianoforte a modo suo, battendo i tasti a mani aperte, usando con rabbia e sentimento le corde e il legno, muovendosi con una furia creativa e trascinante che provoca nel pubblico una entusiastica ovazione.
Un'esibizione siglata da un commovente inchino in perfetto stile ottocentesco in omaggio alla donna che le ha offerto l'occasione di un riscatto.
Intensa e straordinaria la colonna sonora (Annette Focks) che contribuisce a dare spessore drammatico sia nei momenti di cruda violenza che nei momenti più struggenti e lirici.

Dopo il bellissimo “Le vite degli altri”, che ha vinto davvero meritatamente l’Oscar per il miglior film straniero, “Quattro minuti”, di Chris Kraus è un altro film tedesco intenso ed emozionante.

Il regista è un ex giornalista e per questo film si è ispirato alla storia vera di un'anziana signora che aveva insegnato per 60 anni in una prigione di Berlino. Kraus ha lavorato per più di otto anni, tra alti e bassi, per sviluppare la sceneggiatura prima di vedere proiettato il film all'anteprima mondiale allo Shanghai International Film Festival nel 2006. Il film ha ricevuto numerosi premi in Germania e si è imposto anche all'attenzione di vari festival internazionali.

mercoledì 28 maggio 2008

I quattrocento colpi

Les Quatre cents coups, di François Truffaut (1959) Sceneggiatura di François Truffaut, Marcel Moussy Con Jean-Pierre Léaud, Claire Maurier, Albert Rémy, Guy Decomble, Georges Flamant, Patrick Auffay, Daniel Couturier, Robert Beauvais e in piccole apparizioni: Jean-Claude Brialy, Jeanne Moreau, Philippe de Broca, Jacques Demy, François Truffaut Musica: Jean Constantin Fotografia: Henri Decaë (99 minuti) Rating IMDb: 8.1

Sabrina Manca sul suo blog C'era una volta un re

Les quatrecents coups (che corrisponde all'espressione italiana “diavolo a quattro”) di François Truffaut ci parla d'un ragazzino e del suo rapporto con vita.

Il mondo dell'infanzia e spesso dell'adolescenza è per definizione privo di sfumature. Un'ingiustizia subita comporta enormi sofferenze. Una birichinata scoperta da una figura di riferimento, sia esso genitore, insegnante o un adulto ammirato, e la conseguente negazione transitoria dell'affetto, gli faranno credere d'aver perso per sempre l'amore di quella figura e ciò gli appare insopportabile.

Il film si apre con Antoine, questo è il nome del piccolo eroe, che viene punito a scuola. Al suo ritorno lo accoglie una madre nervosa. E' solo l'arrivo del padre a conferire un clima disteso al quadro familiare. Il ragazzino oscilla tra il desiderio di essere amato dalla madre e la ribellione nei confronti di gesti che gli paiono insensati da parte delle figure di riferimento. Un giorno, insieme al compagno di classe e di marachelle, marina la scuola. Mentre è in giro a passeggiare vede la madre baciare uno sconosciuto. Anche lei lo riconosce ma non parleranno mai dell'episodio che farà tuttavia precipitare gli eventi. Il giorno successivo, a scuola, egli racconta agli insegnanti che si è assentato perché la madre è morta. I genitori, avvisati da un compagno di classe di Antoine, si recano a scuola e lo umiliano davanti alla classe. Antoine passa la notte fuori casa. L'indomani la madre va a prenderlo durante l'orario di scuola e trascorre la giornata con lui, mostrandosi amorevole e preoccupata della sua felicità.

La donna lo esorta a studiare e gli promette di ricompensarlo se andrà meglio a scuola. Durante la verifica trimestrale di lingua, Antoine, che è affascinato da Balzac, riscrive una pagina del suo eroe; viene così accusato di plagio ed allontanato dai corsi per alcuni mesi.

Questa volta Antoine, disperato scrive una lettera di commiato ai genitori, spiegando le ragioni del suo gesto e si rifugia in gran segreto dal suo amico René dove trascorre alcuni mesi. I due progettano di sottrarre una macchina da scrivere dall'ufficio del padre di Antoine. Il ragazzino riesce ad impossessarsene senza difficoltà ma dopo aver trascorso la giornata senza potersene disfare decide infine di renderla. Verrà colto in flagrante da un dipendente e denunciato per furto e vagabondaggio dal padre stesso.

Il ragazzino trascorre la notte in prigione e viene in seguito mandato in un istituto di correzione. A questo punto, con gli elementi in nostro possesso, ci attendiamo che i genitori, che volevano dargli una lezione, lo riprendano con loro. Truffaut infatti, non indugia certo nel melodramma. Mai vediamo la disperazione negli occhi di uno solo dei personaggi, mai ci viene suggerito un atteggiamento di compassione o comprensione per uno qualsiasi dei protagonisti.

La nostra sensazione sino a quel momento è che, se un difetto può essere individuato nel clima generale descritto, esso risieda in una sorta di disattenzione, di leggerezza mai caricata di un giudizio. Ebbene, nelle sequenze successive si ha una progressiva rivelazione di una parte della storia che non conoscevamo, la quale trasforma impietosamente la nostra indulgenza. La madre non vuole il figlio con sé e spiega al giudice che il marito, non essendo il vero padre del bambino, ha fatto anche troppo per lui. E ancora, in un incontro con una psicologa che ci viene presentata o piuttosto suggerita, visto che non viene mai inquadrata, come totalmente inconsapevole d'aver a che fare con un bambino, Antoine racconta con evidente serenità, come di un fatto oggettivo, che è la madre a non amarlo e desiderarlo con sé, apportando tutta una serie di elementi inconfutabili.

Il ragazzo, privato della libertà e allontanato dall'amico, alla prima occasione, scappa dall'istituto. La lunga sequenza che lo porta, in una corsa che sfinisce lo spettatore prima che Antoine, a raggiungere il mare, e lo sguardo con il quale il bambino per la prima e unica volta, ci interpella, è un film nel film o piuttosto, basterebbe a farne un capolavoro compiuto.

Ci sono un'infinità di elementi che fanno del film di Truffaut un capolavoro del cinema di tutti i tempi. Ciò che mi ha colpito alla prima visione è il ribaltamento di situazione, il quale, sebbene preparato minuziosamente in ogni sequenza che lo precede, e questo è ben evidente a una seconda visione, si produce davanti ai nostri occhi senza l'evidenza di un segno premonitore. Non è certo un colpo di scena alla moda dei thriller e tuttavia l'effetto che produce nello spettatore è ugualmente intenso e inatteso.

432 giorni a rischio di hybris

Solimano
Con il termine di hybris "i Greci intesero una qualsiasi violazione della norma della misura cioè dei limiti che l'uomo deve incontrare nei suoi rapporti con gli altri uomini, con la divinità e con l'ordine delle cose". Così Nicola Abbagnano.

Due giorni fa, quando Roby era in pista di lancio per pubblicare il post numero 1000 di questo blog, ho fatto un piccolo conto per verificare quanti giorni fossero passati dalla data di apertura del blog, il 21 marzo 2007. Ho constatato che erano passati 432 giorni, fin qui, nulla di strano, a parte che ho dovuto contare un giorno in più perché il 2008 è un anno bisestile.
Ma sapevo che c'era una singolarità, che alcuni dei nostri visitatori conoscono: non è passato un giorno di questi 432 in cui nel blog non sia stato pubblicato almeno un post. Senza fare truschini, a parte un minimo di attenzione sul flusso dei post in bacheca. Ho riflettuto un po', poi ho scritto a Roby e Giuliano proponendo di prenderci un giorno sabbatico. Sono stati d'accordo, e il 27 maggio 2008, cioè ieri, non abbiamo pubblicato nessun post.
Il fatto del giorno sabbatico -a cui presumibilmente ne seguiranno altri- mi ha poi condotto alla scelta delle immagini di questo post: sono tratte dal film "Les vacances di Monsieur Hulot" di Jacques Tati. Il film è del 1953.

Adesso non rischiamo più di commettere atti di hybris, parola singolare di cui non c'è una precisa traduzione un una lingua moderna: superbia, arroganza, prevaricazione e simili, hanno significati più limitati o comunque diversi.
Mentre cosa sia la hybris lo sappiamo bene, basta pensare ad Agamennone nell'Iliade (il comportamento con il sacerdote Crise) ed a quello che scrive Erodoto di Cambise e di Policrate di Samo.

In questi 432 giorni di cose ne sono successe tante, ne racconto alcune prendendo a prestito, come mio atteggiamento, il titolo di un libro di Federico Zeri: "Confesso che ho sbagliato". Eh, sì! Perché si sbaglia, nel fare le cose, l'importante è accorgersene e porvi rimedio. Non dirò tutto, non credo alla schiettezza totale, credo alla schiettezza col discernimento di sapere cosa dire e cosa no. Quello che dico comunque è successo.

La prima idea mi venne nel blog di Claudio Sabelli Fioretti, dove ogni tanto scrivevo. Qualcuno aveva lanciato l'idea di fare un blogbook all'interno del blog: in dieci righe o poco più, raccontare un libro che si era letto e dare agli altri un buon motivo per leggerlo. Eravamo solo dieci o quindici a profittarne, a me sembravano pochi. Fu allora che mi venne l'idea: e se si applicasse l'idea ai film? Forse desterebbe più interesse...

Risparmio una serie di dettagli, dico solo che in quel momento ebbi una potente alleata: la mia ignoranza. Non ignoranza intesa come mancanza di competenza sui film (qualcosa so qualcosa non so), ignoranza su come fosse la situazione numerica dei blog sul cinema. Tre mesi fa, quando ho trovato un sito in cui c'era la situazione dettagliata, ho visto che di blog sul cinema in Italia ce ne sono diverse centinaia, probabilmente più di mille. Se l'avessi saputo allora mi sarei scoraggiato e non sarei partito, ecco perché l'ignoranza mi ha aiutato.

Sulla scelta del nome del blog, ebbi un'altra potente alleata: la fortuna.
Perché il nome scelto può piacere o meno, ma il razionale è chiaro, è il cinema dal punto di vista degli spettatori, non dei critici, ma 'sto nome, Abbracci e pop corn, ha una caratteristica che lo mette quasi sempre in cima alle liste in ordine alfabetico. Non ci avevo proprio pensato, ed è una cosa che conta e faccio un esempio (ma nessuno lo vada a dire a Clelia, mi raccomando). Attualmente sono ben contento di leggermi ogni giorno il blog Akatalepsia, ma la prima volta che lo lessi non sapevo quasi nulla del mondo dei blog, e ci capitai sopra perché era in cima ad una lista in ordine alfabetico.

Una ambascia non da poco fu la scelta della Categoria da indicare nel contatore, e feci uno zompo sulla sedia quando vidi che il Cinema figurava come Intrattenimento. Non che abbia qualcosa contro al farmi quattro belle risate al cinema, ma suvvia, mi sentivo Uomo Colto! Che farci? Andai a scavare nella Categoria Cultura del contatore, e fra le tante culture, il Cinema non c'era manco pe' gnente.
E' finita che, pur di restare nella categoria Cultura, ho dovuto scegliere la sottocategoria Altro, mi pareva di entrare in un Orfanotrofio, peggio, come un film con Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari: I Figli di Nessuno. C'è di tutto, nella sottocategoria Altro, dalle ricette venete ai vini pugliesi, dai film dell'anima (una vista logica che non farò) ai tarantini sparsi per il mondo alle nuove religioni che ti avvolgono nelle loro spire, tipo boa constrictor che mentre ti strozza ti promette il paradiso, così te ne fai una ragione, dello strozzamento.
Ma soprattutto vi ho trovato alcuni blog o siti assai corposi su un tema importantissimo: l'Araldica. Non avete idea di quante persone sono alla ricerca del Cavalierato inesistente o della Baronìa rampicante. Se avete un cognome non così inequivocabilmente contadino come il mio, quelli sono i posti per insignirvi di un marchesato e per far chiamare damigelle le vostre figlie minori. Le visite sono cicciotte, anche più delle nostre, li frego solo durante i week end, ma si sa, gli aristocratici la domenica la passano organizzando cacce alla volpe (povera bestia!) o veleggiando fra Corsica e Maddalena.

Mi sono scelto un sito a cui riferirmi per confronti: la Galleria Borghese di Roma, posto bellissimo e bel sito, qualche giorno sono sopra loro, qualche giorno lo siamo noi. Sono contento se siamo sopra, ma non soffro se siamo sotto, faccio un po' il tifo, per la Galleria Borghese. Ma nella categoria Altro, ho scoperto una cosa che non sapevo, e che ho trovato interessante. Esistono siti o blog con centinaia di visite al giorno ubicati in piccoli centri, e che si rivolgono a chi vive in quei comuni, anche inferiori ai 5000 abitanti. Non è un gioco complicato, basta mettersi d'accordo in una decina di amici (e amiche) ben radicati in quel comune e il potenziale c'è tutto: se poi si fa del gossip sui rapporti fra la bionda del secondo piano e l'architetto dell'attico, intravedo un futuro radioso per i blog di condominio. E' essenziale però l'utilizzo di un nickname ben protetto.

Poi è cominciata la faccenda dello scambio di link. Avevo cominciato mettendo pochi consigliati, quasi tutti siti, pochissimi blog. Il blog cominciava ad avere un po' di visite, e mi arrivano nello scrivimi le richieste di scambio link. Voi sapete già tutto, io ero un pulcino nella stoppa, volevo solo tener corta la lista dei consigliati, e gli ho fatto una controproposta: lo scambio dei post: se tu piaci a me ed io piaccio a te, scriviamo dei post anche per il sito dell'altro mettendoci il proprio link. Sono convinto che fosse una proposta onesta e conveniente (difatti poi sono andato avanti per questa strada, in modo un po' diverso), ma non mi hanno neanche risposto. O si erano offesi o avevano pensato che io fossi proprio un pulcino nella stoppa. Solo che piccoli pulcini crescono.

Giuliano ed io -ma arrivò l'ausilio formidabile di Roby- sfornavamo post a tutta manetta, solo che, come sapete tutti, siamo piuttosto diversi. Giuliano è più organizzato, si porta avanti col lavoro, scrive venti film poi li centellina uno per uno col tocco finale delle immagini e delle note. Io riesco a scrivere un post solo se sono alla stanga, cioè se lo devo pubblicare entro un'ora. Prima, magari, sono organizzato anch'io, con le immagini e con la documentazione, ma tutti i miei testi sono usciti nel blog scritti un'ora o due prima della pubblicazione. Me li aggiusto anche quando sono pubblicati... E' molto bello essere diversi, anche Roby lo è, ci si capisce solo se ci si stima e ci si rispetta, altrimenti sarebbe dura. Però, se si è diversi, si leggono volentieri i testi degli altri, il che è essenziale per fare andare avanti il blog.

Un bel fatto successe col Profilo Utente, che bisognava avercelo se no quando commentavi in altri blog uscivi come anonimo. Cercai di farmi una idea, e vidi in questi Profili Utenti, al di là di una apparente disinvoltura, molta diplomazia, mi sembrava che i blogghieri fossero tutti imparentati con Metternich e Tayllerand.
Decisi di fare diverso, e di giocare schietto. Misi nel Profilo Utente che prima leggo quello che ho scritto io, poi quello che hanno scritto le mie amiche ed i miei amici, poi la Divina Commedia e via a scendere. Non l'avessi mai fatto, ci mancò poco che qualcuno proponesse per me un ricovero col benefit della camicia di forza. Poi si abituarono, ma avvertivo nell'aria un profumo di attenzione più preoccupata che curiosa.
Il bello è che è verissimo: se trovo qualcuno che mi dice che prima legge Dante e poi legge quello che scrive lui, non ci credo. Se fa così, è meglio che smetta di scrivere, perché non si vuole bene.

Intanto Habanera aveva smesso di scrivere film ed aveva aperto il Nonblog. Per farsi perdonare di non scrivere più film, ci aveva ordinato di scrivere post per il Nonblog, e le stiamo dando retta, conversando fra di noi, e i numeri ci sono. Ecco, a me, più che commentare piace conversare, ma ne parleremo un'altra volta.

E il futuro? E chi lo sa, domani pubblicheremo dei post, dopodomani non lo so, anche se è probabile che lo faremo. Tanto chi arriva un po' di scelta ce l'ha: il frutto dei 432 giorni a rischio di hybris.

lunedì 26 maggio 2008

I soggetti nel cinema: Uomine e donni - 1 -

Roby
No, non ci sono errori di stampa nel titolo di questo post. Volevo proprio scrivere UominE e donnI -e così ho fatto- per inaugurare la prima di una serie di considerazioni sul travestitismo nel cinema (e in TV). Attenzione: ho detto travestitismo, non omosessualità o gay pride. E questo non perchè abbia niente contro i gay, ma solo perchè il tema che voglio trattare è un altro, e se c'è qualcosa di diverso, questo è soltanto l'angolo di visuale. Dunque, cominciamo con la

Parte I: Uomini vestiti da donna

Nel teatro greco -permettetemi una citazione lievemente pedante- tutti gli attori erano maschi, essendo proibito alle donne di calcare le tavole del palcoscenico. Le parti femminili, quindi, anche le più tragiche ed appassionate, erano recitate da uomini con una maschera muliebre sul volto, e nessuno spettatore si sognava di scoppiare a ridere di fronte ad un'Andromaca in gramaglie o ad un'Ifigenia prossima al sacrificio, pur sapendo che dietro il travestimento si celavano barba lunga e petto villoso.





Oggi, invece, c'è poco da fare: un uomo vestito da donna, 9 volte su 10, fa scompisciare dalle risate. Mia zia ricorda ancora con genuino divertimento quella volta che, a Carnevale, mio padre -già maturo giovanotto- si abbigliò con gli abiti di una delle sue numerose sorelle, e così ancheggiando entrò in salotto, tra le risate generali. Pare -sempre a sentire la zia- che non avesse nulla da invidiare alla coppia di signorine composta da Jack Lemmon e Tony Curtis nel celeberrimo A qualcuno piace caldo: peccato nessuno in famiglia possedesse, all'epoca, una macchina fotografica per immortalare la sua performance! Altrimenti, l'avrei senz'altro inserita fra le numerose immagini qui allegate.



Lo sfortunato attore disoccupato di Dustin Hoffman in Tootsie vede rialzare le proprie quotazioni solo quando si trasforma in attrice, grazie ad ore ed ore di sapienti trucchi e imbottiture nei punti cruciali.



Anzi, il Dustin-donna non manca di una certa avvenenza, tanto da suscitare il reale interesse di alcuni partners nella soap di cui è protagonista. E deve persino sottostare alle focose avances del più vecchio interprete della serie, famoso per essere riuscito a baciare veramente tutte le prime donne del telefilm.








I problemi, nella seconda parte di film del genere, arrivano tutti a causa dell'innamoramento dell'uoma per una donna vera, che naturalmente non sa della sua natura e lo considera un'amica, simpatica e disponibile, con cui parlare e fare di tutto, magari andare pure a letto insieme... per chiacchierare, mangiare cioccolatini e guardare la tv, ovviamente!!!! Ecco che allora l'equilibrio apparente si spezza, il giocattolo ben congegnato si rompe, e dalle ceneri dell'uoma rinasce il maschietto con tutti i suoi attributi. Il punto è: la ragazza lo accetterà, ora che si è tolto collant e tacchi a spillo?









Robin Williams in Mrs Doubtfire si tramuta addirittura in una matura governante ultrasessantenne, e tutto per stare accanto ai suoi figli, dopo che la moglie -di cui è ancora cotto- ha chiesto il divorzio per colpa della sua inaffidabilità. Ed ecco che l'anziana Mary Poppins da lui interpretata è invece una persona posata e assennatissima -a parte quando rischia di bruciare viva avvicinando troppo le... ehm... il décolleté ai fornelli; o quando si abbandona ad un rock scatenato facendo le pulizie di primavera. Forse questo non basterà a riconquistare l'esigente consorte, ma è certamente sufficiente a restituire all'uomo il rispetto di sè, oltre a garantirgli un nuovo e più gratificante lavoro.








Andando a zonzo in rete, ho scoperto che in quel di Bollywood hanno realizzato un remake di Mrs. Doubtfire, misteriosamente intitolato Chachi 420, di cui vi mostro in anteprima la locandina e alcune inquadrature. Dalle quali, pur non conoscendo i nomi degli interpreti e le differenze nel plot, si evince che neppure i truccatori indiani scherzano, quanto ad abilità e bravura: benchè -bisogna dirlo- il sari aiuti molto, con quel gioco di pieghe e panneggi, a mimetizzare le differenze fra i due sessi. (Tra parentesi, informo chi non lo sapesse che Bollywood è specializzata nei rifacimenti nostrani di successi made in USA: non si sono salvati nè Dirty dancing, nè Fight club , tanto per fare qualche esempio!)






Di tutte le uomine che ho finora citato, ce n'è solo una che davvero non fa ridere, anzi: è l'attore cinese che in Addio mia concubina interpreta Douzi, un artista del teatro kabuki, specializzato nel ruolo femminile di concubina dell'imperatore in una famosa piéce tragica. Sulle scene, infatti, l'amante del sovrano preferirà la morte alla separazione dal suo amato, così come Douzi, tradito dal compagno Shitou ai tempi del revisionismo maoista, alla fine si ucciderà per lui. Singolare affresco di un'epoca, dove muore -insieme a Douzi- un intero pezzo della vecchia Cina. E qui il gioco dei contrasti fra sesso forte e sesso debole passa in secondo piano, lasciando spazio all'immagine di un'umanità comunque dolente e appassionata, maschio o femmina che sia.




Mrs Doubtfire è qui per rivelarvi un segreto:



QUESTO E' IL POST N° 1000 !!!!!



Ma... sssst: non ditelo troppo in giro...