sabato 8 marzo 2008

Il segreto di Esma

Grbavica, di Jasmila Zbanic (2006) Sceneggiatura di Jasmila Zbenic Con Mirjana Karanovic, Luna Mijovic, Leon Lucev, Kenan Catic, Jasna Beri, Dejan Acimovic, Bogdan Diclic Musica: Enes Slatar Fotografia: Christine A. Meier (90 minuti) Rating IMDb: 7.4

Giulia sul suo blog Pensare in un'altra luce
“Insomma hai idea di chi sia mio padre? Non lo sai, non sai chi ti ha scopato... Dove è morto? Dove è morto? Tu menti! E’ tutta la vita che menti!” Nel parapiglia che segue però è la madre che urla la sua rabbia: “[...]Vuoi la verità? Mi hanno stuprato, ti ho concepita in campo di concentramento! Sei figlia di un etnico, sei carne di un cetnico!”

Una figlia, dopo essere vissuta per tanti anni nella menzogna, incalza la madre per sapere la verità: una verità che fa male alla mamma, un ferita aperta e mai richiusa, coperta da bugie, sotterfugi per proteggere la figlia, ma anche se stessa dal ricordo di una realtà troppo dolorosa da diventare indicibile.

Una guerra, quella nella ex Jugoslavia, finisce e cala il sipario della scena internazionale. Cosa succede dopo in un paese martoriato e distrutto da tanti anni di conflitto nessuno ne sa più nulla. C’è lo racconta un film “Grbavica”, un durissimo film bosniaco Orso d'oro al festival di Berlino 2006, che riporta al centro del dibattito pubblico nei Balcani la questione degli stupri etnici. Nel far riemergere questo rimosso “Grbavica”, in italiano "Il segreto di Esma" rompe un silenzio durato anni, segnato dalla incapacità di raccontare sia da parte delle vittime che dei media.

Grbavica è il nome di un quartiere di Sarajevo che dà il titolo originale al film. Un territorio, che durante la guerra nella ex Jugoslavia, era controllato dai serbi-montenegrini e usato come luogo di violenze e torture. Ma Grbavica significa anche «una donna che porta un peso»; un peso che Esma, la protagonista del film, fa di tutto per nascondere alla figlia e al mondo.
Non si può giudicare, né quantificare la sofferenza umana in base ai semplici numeri eppure sono state le donne musulmane ad essere state vittima per la maggior parte degli stupri etnici. Una scelta di violenza che è servita a fare in modo che per queste persone la guerra non finisse mai davvero: tante donne sono state ripudiate dai mariti, si sono suicidate o hanno abortito i figli di quelle violenze.

Lo stupro dice la regista è la peggiore violenza che si possa subire. “Ricordo che quando eravamo sotto l'assedio a Sarajevo oltre ai cecchini, la fame, la mancanza di acqua, elettricità e riscaldamento, noi donne soffrivamo in più la paura di essere stuprate. Il calare delle tenebre portava sempre con sé questo terrore. Lo stupro è uno dei crimini più terribili nei confronti di un altro essere umano. Era la cosa che ci faceva più paura: lo stupro distrugge la dignità delle donne e ne mina perennemente la psiche e la salute. Le conseguenze di quegli atti sono ancora qui”.

Il film inizia e si conclude con le riprese di un Centro Assistenza per donne stuprate durante la guerra a Sarajevo. La prima inquadratura scorre lentamente sui volti di alcune di queste donne riunite per una terapia di gruppo. La panoramica si conclude sul viso di Esma.
Esma è tra loro, ma non parla mai, non racconta a nessuno la sua storia. Va al centro solo per ricevere l'esiguo assegno di assistenza del governo. Perché Esma, da sola, deve mantenere lei e Sara, deve affrontare i problemi della quotidianità più immediata, arrivare a fine mese, pagare la gita della figlia. La figlia l'aiuta ad andare avanti in un mondo che le appare senza prospettive.
Lavora duramente come cameriera in una spoglia e chiassosa discoteca gestita dalla mala. Ha una figlia di tredici anni, Sara, e il suo unico obiettivo è quello di accudirla, starle vicino, non farle mancare niente. In una città dai palazzi ancora distrutti, in cui si costruiscono nuove moschee e spuntano come funghi tanti negozi di abbigliamento, madre e figlia conducono una vita difficile tentando di sopravvivere a tanta violenza.
L'esperienza dello stupro (mai mostrato) riaffiora continuamente sulla superficie della quotidianità: è la paura che la raggela quando per gioco la figlia le blocca i polsi, è il disgusto per un uomo sull'autobus, è l'ossessione di riconoscere i suoi violentatori nella gente che incontra. Il complice, impunito, sta tranquillamente gomito a gomito con la sua vittima. E questa è forse la più grande tragedia di Esma, quella dolorosa constatazione di impotenza che la costringe all'invisibilità.

Anche Sara condurrà le sue lotte interiori, ma senza il peso del passato. E’ una ragazza in conflitto, ma sana che vuole vivere ed amare, e proprio tra le macerie avrà il suo primo rapporto. La vita deve prevalere sulla morte, anche dall’orrore deve rinascere la speranza di un futuro

Esma troverà il coraggio della verità e potrà iniziare a pensare con meno angoscia al futuro, ritroverà un rapporto con la figlia basato oltre che sull'amore sull'aderenza alla realtà, una realtà che, anche se non si può dimenticare, può voltare finalmente pagina.

«Questo film parla di una tragedia che coinvolge tutti i popoli della ex Jugoslavia -ha dichiarato in conferenza stampa la regista- e del modo in cui si può tentare di sopravvivere dopo una guerra civile come quella». Le cifre ufficiali parlano di 20.000 donne fatte sparire da casa, internate in campi di concentramento. violentate e costrette a mettere al mondo figli di sangue serbo. Ma probabilmente sono molte di più, senza contare quelle rimaste uccise. “Queste donne semplicemente non sono riconosciute dalla società in cui vivono sotto nessun punto di vista, né politicamente, né economicamente. Non ricevono alcun aiuto, vivono con 30 marchi al mese di pensione in quanto madri sole e questo è tutto”.

Nel marzo 2003, a Sarajevo, un gruppo di donne ha fondato l'associazione “Zena Zrtva Rata” (Donne vittime della guerra), con lo scopo di riunire tutte le vittime di stupri e torture: “Abbiamo deciso di fondare l'associazione quando ci siamo rese conto che molti dei crimini che avevamo subito sarebbero rimasti impuniti, e che i responsabili sarebbero rimasti in libertà”, ci dice Bakira Hasecic, la presidente del gruppo. "Grbavica siamo noi. E' la nostra realtà. Sebbene quel film rappresenti una percentuale infinitesimale di quello che abbiamo subito. "

Il film “Grbavica” ha avuto un'importanza fondamentale in questa lotta. Durante le proiezioni, nel quadro dell'iniziativa “Campagna per la dignità delle sopravvissute”, sono state raccolte 50.000 firme per il progetto di legge. Dieci anni dopo, significa che le violenze non sono riuscite a ridurre tutto al silenzio. C'è un sorriso nella scena finale del film, nonostante quel lo che è successo la storia è ancora aperta.


Jasmila Zbanic premiata a Berlino
con l'Orso d'oro (2006)

3 commenti:

  1. Cara Giulia, leggendo questo post, visto l’argomento trattato, mi sono tornate alla mente due o tre frasi di nostri politici che definire infelici è davvero poco. Si tratta di interventi recenti o recentissimi: l’esultanza davanti all’indipendenza del Kosovo (con gli eserciti in armi, e la Russia di Putin dietro l’angolo): “adesso la strada è aperta per la Padania libera!”; le dichiarazioni del vicesindaco di Treviso sugli extracomunitari, con citazioni esplicite: “qui serve la pulizia etnica”; e un altro consigliere, regionale se non ricordo male: “Qui bisogna fare come le SS”.
    Non solo si rimuove o si ignora la storia passata, ma anche quella recente. Si sarà reso conto, quell’ignorante, del significato di una frase come “pulizia etnica”? Quando leggevo il resoconto di quello che succedeva nell’ex Jugoslavia, e si tratta solo di dieci-quindici anni fa, mi venivano i brividi: erano qui dietro l’angolo, vicinissimi a casa nostra, stupri, violenze, omicidi di massa.
    Mi consola una cosa: non è la mia parte politica. Ma non è una gran consolazione, sono anch’io della stessa “razza”, e non posso tirarmene fuori perchè so bene che dalle mie parti quei discorsi (“fare pulizia etnica, fare come le SS”) portano una caterva di voti.

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  2. Ho conosciuto bene quei posti, prima della esplosione della Jugoslavia. Per anni, mi piaceva andare al mare facendo il giro molto lungo: Karlovac, Banja Luka, Saraievo, Mostar, Pocitelj. Poteva capitare di tutto, posti bellissimi, ma si capiva che le etnie diverse erano insofferenti. A Serajevo, nel giro di duecento metri, c'era la chiesa cattolica, quella protestante, quella ortodossa e la moschea. Le ho visitate tutte, tutte semivuote. Le violenze sulle persone le abbiamo imparate dopo, quella sulle cose l'abbiamo vista per TV: non c'era nessun senso nell'abbattere il ponte si Mostar o nel bombardamento di Dubrovnick, se non lo stesso senso insensato del cannoneggiamento delle statue dei Buddha nell'Afghanistan. Il prendersela con la bellezza delle cose, con quello che hanno lasciato le civiltà, è strettamente collegato con la violenza alle persone, chi crede di separare i due aspetti non ha capito: sono due modi di manifestare lo stesso odio. Se c'è l'uno c'è anche l'altro.

    grazie, Giulia e saludos
    Solimano

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  3. Ho avuto un alunno che aveva la mamma bosniaca e il papà serbo, si chiamava Rashid ma a scuola si faceva chiamare Nino, la mamma mi ha spiegato che doveva chiamarlo Nino perchè se tronavano in Serbia dai nonni non poteva usare il nome Rashid. Un piccolo fatto che la dice lunga. Grazie a voi Giulia

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