Riso amaro, di Giuseppe De Santis (1949) Testo e sceneggiatura di Corrado Alvaro, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Franco Monicelli, Carlo Musso, Ivo Perilli, Gianni Puccini Con Vittorio Gassman, Doris Dowling, Silvana Mangano, Raf Vallone, Checco Rissone, Nico Pepe, Adriana Sivieri, Lia Corelli, Maria Grazia Francia, Dedi Ristori, Anna Maestri, Maria Capuzzo, Isabella Zennaro, Carlo Mazzarella, Lidia Simoneschi doppia Silvana Mangano, Andreina Pagnani doppia Doris Dowling Musica: Goffredo Petrassi, Armando Trovajoli Fotografia: Otello Nartelli (108 minuti) Rating IMDb: 7.7
Solimano
Generalmente, oltre a guardarmi il film leggo alcune critiche, ma lo faccio dopo averlo visto, rivedendo magari -se il film è su DVD- le scene a cui non avevo prestato la giusta attenzione.
Faccio così per non lasciarmi influenzare nella presa di contatto con il film, conservandomi un grado di libertà che la lettura preventiva delle critiche mi toglierebbe. E' un sistema come un altro, ha i suoi pro' ed i suoi contro. in questo caso l'ho trovato molto vantaggioso, fra l'altro mi ha consentito di riabilitare le brevi critiche di Walter Veltroni su cui facemmo un po' di amorevole ironia quando ne portai tre qui nel blog. Il fatto è che critici e letterati molto noti questo film lo azzannarono, con le loro critiche a caldo, faccio anche alcuni nomi: Gianluigi Rondi, Pietro Bianchi, Ennio Flaiano. Non sono riuscito a trovare il testo, ma mi risulta che anche "L'Unità" ne parlò male. Il tono schiettamente laudativo di Walter Veltroni significa che il tempo sta facendo giustizia, perché questo è un grande film, piuttosto unico nel suo genere, all'interno della cinematografia italiana.
Dell'aspetto politico e del mondo del lavoro scriverò in un altro post, qui faccio un discorso più generale.
Perché furono così riduttivi con questo splendido melodramma italiano per giunta così attento alle conquiste dei grandi registi americani, francesi e russi? I motivi sono diversi e cercherò di individuarli perché non è poi tanto vero che le cose sono del tutto cambiate, ma ne esplicito subito uno: questo è un film che non poteva piacere né ai vaticani né ai democristiani. Un po' per ragioni politiche, ma soprattutto perché è un film a forte valenza erotica, del tutto inconsueta in generale, figuriamoci in Italia in cui un ottimo regista come Augusto Genina stava facendo nello stesso anno il film Cielo sopra la palude, voluto, finanziato, protetto dalla gerarchia ecclesiastica in generale e da Pio XII in particolare. Il film era sulla vita e la morte di Maria Goretti, poi fatta santa nel 1950 (Anno Santo, per giunta).
Si potrebbe dire: "Sì, vabbè la chiesa, ma gli altri?". Lasciamo stare i crociani, parliamo dei gramsciani, anzi, parliamo del PCI, Partito Comunista Italiano, che era l'altra chiesa.
La guerra era totale, ma le due chiese, quella vaticana e quella del PCI, avevano molte somiglianze. Togliatti, il leader incontrastato, doveva vivere nascostamente con Nilde Iotti in un appartamento all'ultimo piano di Botteghe Oscure (lo sapevano tutti, ma non stava bene dirlo, che era come accettarlo). Oltre al quotidiano L'Unità, che aveva tirature oggi inimmaginabili, ed oltre alla rivista culturale, Rinascita, c'erano Noi Donne per le donne e Il Pioniere per i bambini. Somiglianze evidenti, i preti facevano lo stesso. Naturalmente il PCI doveva prendere atto della cultura diffusa e delle ipocrisie elevate a sistema, l'Italia era un paese ufficialmente senza adulteri ma pieno di bordelli.
La carica erotica, che non è solo di Silvana Mangano, ma è di tutta la rappresentazione femminile ( ma anche di quella maschile) disturbava più di quello che disturbò il comune sentire molti anni dopo Ultimo Tango a Parigi, un caso in cui un giudice parruccone ordinò la distruzione della pellicola, ma il giudice fu sbeffeggiato dalla maggioranza delle persone, a tutti i livelli sociali.
Allora non era così, e molto giustamente c'è chi negli ultimi anni dice che sul piano dell'erotismo è ben presente in Riso amaro l'inconscio collettivo, con le relative pulsioni a cui è ben difficile sottrarsi.
La presenza di una comunità di donne, per tutto il film, non a fare la calza o a cucinare, ma a lavorare nell'acqua fianco a fianco era un ulteriore elemento di disagio. Ho notato, anni dopo, che le donne, quando sono in tante insieme, si comportano in modo analogo a come si comportano gli uomini, con una specie di identico effetto massa od effetto branco, chiamiamolo come ci pare, nel bene e nel male. Non era semplice visitare un cotonificio o una grande sala di perforazione schede: bastava che una facesse una battuta audace sui visitatori, tutte dietro a rafforzarla, tale e quale come succede se la massa è di uomini. Ciò è del tutto naturale, ma non viene così tranquillamente ammesso, anche oggi, figuriamoci allora. Il personaggio che dava veramente fastidio era quello di Silvana (Silvana Mangano) e non parlo dell'aspetto erotico, proprio come personaggio.
Gli altri potevano andar bene: il mascalzone totale Walter (Vittorio Gassman), il positivo (anche come maschio...) sergente Marco (Raf Vallone), persino la peccatrice che si pente, Francesca (Doris Dowling) ci stava benissimo, come nei film di Matarazzo, ma Silvana no, che modello è? Questo a livello del grande pubblico del cinema, in letteratura i ragionamenti erano del tutto diversi. Silvana è al tempo stesso mondina come le altre però non vuole accettarlo, perché ha l'ambizione di essere diversa. La cosa veramente buffa è che per quasi tutte era così, erano come Silvana, ma non andava bene ai cattolici e non andava bene neppure ai comunisti. L'erotismo passi, ma l'appartenenza, quella era la cosa che contava, come se tutte fossero operaiette tipo Lucia Mondella, sia quelle che andavano in chiesa sia quelle che in chiesa non andavano. Che Silvana leggesse Grand Hotel dava fastidio, mentre Grand Hotel lo leggevano tutte, però non stava bene dare una immagine del genere. Si parlò di melodramma, di debolezza verso il mascalzone, ma quando mai. Giustamente tutti e tutte aspiravano a stare meglio e si era attenti a tutto, in primis al matrimonio. Sembrano ovvietà, per me non lo sono, ancora oggi questo tipo di pulsioni ambiziose vengono negate a voce e praticate nei fatti. E' quindi Silvana il punto di riferimento del film, il personaggio veramente drammatico, perché è incerto il suo divenire, mentre gli altri hanno una parte segnata, anche Francesca, che cambia il tiro solo quando Walter non la vuole più.
Inserisco l'inizio dal mio articolo "Cavalieri erranti e accoppiamenti giudiziosi", che riepiloga qual era la situazione corrente: l'ambiente di cui scrivo era fra borghese e piccolo borghese, ma in ambito proletario succedeva più o meno lo stesso. Tutti quelli che l'hanno letto sono stati d'accordo: "Andava proprio proprio così!" Guai a dirlo, però.
A quel dì, tutti dicevano di sposarsi per amore, ma non era vero. Dopo i venti anni, nel giro di amiche ed amici si innescava una frenesia che trovava il suo acme verso i venticinque: a quel punto i giochi dovevano essere fatti, chi è dentro è dentro chi è fuori è fuori, salvo qualche saldo di fine stagione verso i trenta anni, poca roba però. La laurea ed il matrimonio erano gli obiettivi da non mancare; il primo dichiarato, il secondo molto meno, ma ancor più sentito, e sentito ambosessi. Il giorno in cui mi laureai, un mio collega di laurea fu accolto all'uscita della Aula Magna da un tonante ed ultimativo "E adesso mi sposi!" proferito dalla morosa, ragazza molto schietta. Questa era la sostanza, la forma era un innamoramento ben temperato di facile innesco e di facile estinzione, se del caso. Infatti, se non si destava la corrispondenza di amorosi sensi nel giro di quindici giorni, zac si cambiava l'obiettivo, naturalmente innamorandosi, perché no, del nuovo, con rapida damnatio memoriae del precedente. Non si perdeva tempo: fra il primo ed il secondo appello la cosa doveva definirsi: la cosa era la "matrimoniabilità". Esisteva anche una specie di tacita Borsa Valori: "Val più un ingegnere di famiglia povera o un professore di famiglia abbiente?" Ah, saperlo! I medici valevano più di tutti, col rischio però degli investimenti a lunga scadenza. Le madri delle ragazze avevano cominciato a ben seminare già molto prima, prima anche dei quindici anni, e le figlie avevano assai bene appreso e fatto proprio il concetto, giudizioso come dice il titolo. Ma anche i ragazzi, a loro modo, più da bietole, c'erano dentro fino al collo.
Esistevano anche le eccezioni alla regola: l'amore sbocciato sui banchi della quarta ginnasiale, quello fra la figlia della maestra e l'allievo prediletto di detta maestra, l'amore nato in cortile, fra una palla prigioniera ed un nascondino, e così via. Eccezioni spesso naufragate a quarant'anni fra litigi inenarrabili: vedi cosa succede a non dare ascolto alla regola?! Nacquero così tanti matrimoni, tutti naturalmente "d'amore", ma se ci scrostavi la tenue vernice dell'innamoramento, appariva la sostanza della reciproca convenienza, sancita, ben prima degli sponsali, da un signor anello di fidanzamento, assai diverso dalla sobria fedina venuta di moda più tardi.
Una come Silvana era troppo vera, per ciò stesso andava punita, difatti muore alla fine del film, però è una come la gramigna, che cresce dappertutto ed è difficile da estirpare. Meglio quindi metterla sul sì, vabbè è una che legge i fotoromanzi. E oggi, che i fotoromanzi non li leggono, cosa guardano per TV? E che riviste leggono? Uomini e donne, naturalmente.
Per quello che riguarda i crociani, se ne stavano tranquilli a pensare che il cinema non era arte, era una specie di teatro della mutua. Se del caso davano una mano alle sceneggiature sempre con un ghignetto sdegnoso. Giustamente Federico Fellini inserì in Otto e mezzo un critico del genere a cui fece fare una brutta fine. Stavano alla larga dal cinema parlandone male, salvo quando venivano ben pagati per soggetti o sceneggiature, che allora si degnavano. Per non parlare degli attori di teatro, che hanno dato al cinema molto meno di quello che avrebbero potuto, ed anche quello che hanno dato è spesso inferiore alle loro possibilità: facevano cinema esclusivamente per ragioni alimentari, vergognandosene un po'.
Questo film mi ha anche reso curioso di vedere altri due film di De Santis: Caccia tragica e Non c'è pace tra gli ulivi. Non li ho mai visti, ma immagino siano di difficile reperimento. Che spreco di talento! Questa è la conclusione.
Su Riso amaro tornerò presto, con riferimento in particolare all'aspetto corale ed al mondo del lavoro e dei relativi conflitti. Anche i quattro personaggi principali sono profondamente coinvolti nella coralità degli accadimenti, si può anzi dire che il film perde la sua forza, che è grande, quando i protagonisti se ne stanno fra di loro, come nel finale, che dà l'impressione di un ottimo film noir americano.
Ma il viaggio in treno, poi sui camion, l'arrivo alla cascina, gli alloggiamenti, le scene di lavoro, la lotta fra le mondine,la pioggia, l'allagamento, la festa, il compianto su Silvana hanno un connotato quasi epico, in tutto degno di certi grandi film americani e russi. Sono tutte le scene banalmente definibili di massa, ma preferisco chiamarle corali, di un coro fatto di voci individue. Giuseppe De Santis aveva evidentemente una capacità nativa, non solo tecnica; viene aiutato anche da certe ingenuità giovanili, perché l'epica, per essere veritiera, è bene che abbia un suo modo di ingenuità.
Il gruppo di ragazze con l'acqua alle ginocchia è allegro, bello, ma mi fa anche malinconia. Non so. Non bisogna mai dare nulla per scontato: per questo mi è piaciuto il post, Solimano, perché fai di questo un principio che spesso scontato non è.
RispondiEliminaUn caro saluto
Laura
Laura, su questo film tornerò fra breve tempo, e vedrai che le mondine non ti faranno più malinconia. Erano lì per lavorare, ed era un lavoro duro, ma sapevano affrontarlo. Una storia vera che cerchiamo invano di rimuovere, situazioni del genere ce ne sono ancora e ce ne saranno in futuro.
RispondiEliminagrazie e saludos
Solimano