sabato 23 febbraio 2008

Alberto Arbasino al cinema (1)

Vittorio De Sica: Ladri di biciclette (1948)

Solimano

Alberto Arbasino
Conversazione con Gabriele Pedullà (1)
Trovata sul sito Marcos y Marcos

«L’ultima generazione che sul serio a vent’anni aveva lu tous les livres: uno al giorno, e magari due o tre. Interamente normalmente, anche divertendosi. Facendolo pesare, mai» (Fratelli d’Italia, p. 1270). Se la storia di come Alberto Arbasino ha letto tutti i libri in fondo è nota, quando si leggono i tuoi scritti si ha in qualche modo l’impressione che tu abbia visto anche tutti i film… Comincerei proprio da qui. La tua educazione cinematografica come è stata fatta?
Assai normalmente. Da ragazzino, andando al cinema spesso, alle visioni pomeridiane, con i compagni di scuola e qualche volta la sera con la famiglia. Crescendo, poi, ci sono stati anni in cui si andava al cinema tutte le sere. Adesso molto meno. C’è così poco da vedere! La qualità è diventata bassissima. I registi si rivolgono sempre più a un pubblico ideale di adolescenti. Tutti quei film con i serial killers vanno bene per i ragazzini, ma per uno come me, che ne ha viste tante… Diciamo pure che mi ci diverto molto meno. E io al cinema ci sono sempre andato solo per divertirmi, come d’altronde è successo anche per i libri. La poesia l’ho letta perché mi piaceva, mica per dare degli esami alla facoltà di Lettere!
Tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta l’Italia è stata la seconda industria cinematografica del mondo occidentale. Sono gli anni di Rossellini, De Sica, Visconti, Antonioni, Fellini, Pasolini, Rosi, Ferreri, Bertolucci, Bellocchio, Risi, Germi, Monicelli, Pietrangeli…: una stagione irripetibile. Ma soprattutto lo scambio tra scrittori e registi (tra letteratura e cinema) era straordinariamente intenso. Che memorie hai di quegli anni?
Sia come scrittori che come cineasti c’erano personaggi di un notevole interesse ed è evidente che avessero delle cose da dirsi, delle idee da scambiarsi e per molti romanzieri si trattava anche di un’ottima occasione di lavoro (oltretutto ben retribuito). Però eviterei le rievocazioni settoriali. Bisogna invece cercare di guardare questa fioritura eccezionale con gli occhi dello spettatore o del lettore dell’epoca. Non erano anni straordinari soltanto al cinema, quelli. La Scala faceva dai venticinque ai trenta spettacoli nuovi all’anno con dei direttori, dei cantanti, degli scenografi e dei registi che rispondevano ai nomi di Visconti, Strehler, Karajan, Furtwängler, De Sabata e Maria Callas; ai pomeriggi musicali del Nuovo si poteva ascoltare dal vecchio Cortot al giovane Benedetti Michelangeli e si alternavano tutte le star del concertismo mondiale.

Roberto Rossellini: Stromboli (1950)

Ecco, e tu con questo mondo del cinema come ci sei entrato in contatto?
Io non ne ho mai fatto veramente parte. Ero uno spettatore che conosceva e frequentava abbastanza una certa società divertente: quel giro di persone che andava la sera a via Veneto e d’estate a Spoleto. E quindi, o a via Veneto, o a Spoleto, o a Milano in posti allora alla moda si aveva l’occasione di incontrare gli attori, ma soprattutto i registi. E poi non dimentichiamoci l’amicizia con Flaiano: era un po’ lui che teneva certi contatti. Erano tutti a via Veneto: Fellini, Flaiano, Sandro De Feo, Ercolino Patti. Spoleto – Venezia (con i suoi festival di teatro e di cinema) – via Veneto – «Il Mondo»: era un gruppo piacevole e divertente.
Un quadrilatero magico… In Parigi o cara dici una cosa molto divertente a proposito di quel mondo, che cioè ne La dolce vita si vedono «i generici e le comparse che facevano noi» (p. 182), ovvero quelli che nella realtà erano lì.
La frase ha un senso molto più preciso e specifico di quello con cui la si può leggere oggi. Fellini a quell’epoca si recava tutte le sere a via Veneto con Flaiano (siamo prima de La dolce vita) e non saprei dire se ci veniva già con l’idea di girare un film o se poi, frequentando quell’ambiente, ci si sia ispirato per una storia. Certo se ci fosse andato anche soltanto alla metà degli anni Cinquanta non avrebbe potuto progettare nessun film: perché la «dolce vita» non c’era ancora. A via Veneto, all’epoca, vigevano orari spagnoli, nel senso che dopo il cinema o il teatro si andava a cena, e da lì ci si muoveva per via Veneto, il che significa che arrivavamo per l’una e mezzo o le due, e i caffè chiudevano all’alba. Quando Fellini ha cominciato a girare il film, la prima cosa che ha fatto è stato di mandare i suoi assistenti dagli amici de «Il Mondo» o di proporre lui stesso agli habitués di via Veneto: «Vorreste venire domani sera o stanotte a Cinecittà a partecipare alle riprese? Non dovete far niente, dovete solo stare lì ai tavolini e fare quello che fate di solito». Ma siccome si prevedeva che ci sarebbero state delle angolazioni più o meno satiriche e che ci avrebbe fatti passare tutti per dei buffoni ridicoli, noi ci guardavamo bene dal prestarci al gioco. A parte il fatto che stare su tutta la notte con i tempi morti del cinema in attesa che qualcuno regoli le luci è uno dei modi più stupidi per passare la notte. Si fanno le quattro, le cinque, le sei, l’alba… E tutto questo per che cosa? Per poi fare la figura dei pagliacci… Per cui non ci voleva andare mai nessuno e dicevamo: «No, no grazie, poi verremo a vedere il film quando è finito».
E infatti poi Fellini ci invitò ad assistere a diverse proiezioni private che nel mio ricordo erano molto più belle del film finito perché c’era ancora la colonna sonora di base con le vere voci degli attori (che poi, come sempre in Italia, sarebbero state doppiate), le indicazioni di regia di Fellini («Vieni avanti… Ora muovi il naso») e, come musica, non i pezzi di Nino Rota, ma delle splendide canzoni di Kurt Weill che non potevano essere eseguite nel film per motivi di diritti d’autore (per inciso, a riprese ultimate, Nino Rota compose la colonna sonora proprio sulla falsa riga di Kurt Weill). Era tutto molto più affascinante del prodotto finito. «Quelli lì fanno noi» era una delle tante battute che circolavano, perché eravamo stati invitati a non far niente, cioè a fare solo noi stessi… La nostra risposta? Gesti di irrisione e «Buon lavoro, ci vediamo a film finito».

Federico Fellini: I vitelloni (1953)

Perché allora non mi parli del tuo rapporto con Flaiano e della sua collaborazione con Fellini? In fondo quelli sono stati forse gli ultimi anni di una vera, proficua collaborazione tra scrittori (sceneggiatori) e registi, prima che la Nouvelle Vague imponesse un po’ dappertutto il modello del cineasta-auteur che fa tutto lui…
L’auteur – anche se non si definiva in quel modo – c’era già allora, e si faceva sentire in maniera molto pesante. I francesi hanno solo teorizzato un dato di fatto: il dispotismo del regista. La figura del regista-padrone esisteva già: Fellini e Visconti non avrebbero mai riconosciuto ai loro collaboratori uno status alla pari, nemmeno a intellettuali di rango come Flaiano o Testori. E non solo perché Visconti (a prescindere da quello che faceva) aveva l’attitudine del signorotto abituato a trattare tutti come dei dipendenti, dei lacché, delle guardarobiere o delle servette; anche Fellini, che pure non si chiamava come i duchi di Milano, quando andava in America viaggiava in prima classe, mentre Flaiano veniva abbandonato in turistica. Gli sceneggiatori erano normalmente considerati dei dipendenti, dei subordinati. E anche da qui veniva la grande amarezza di Flaiano, che poi finalmente lo avrebbe condotto a una spaccatura insanabile con Fellini.
È la stessa cosa che capitò a De Sica e Zavattini, dopo che De Sica si era preso l’intero merito delle loro collaborazioni...
Dal mio punto di vista, c’era poi anche un altro motivo di grande perplessità (anche se di scrivere per il cinema me l’hanno proposto un po’ tutti, più che altro perché in quegli anni tutti chiedevano tutto a tutti. Me l’ha chiesto Visconti, me l’ha chiesto Fellini: erano perennemente in cerca di spunti e di nuove idee). Oltre al fatto che non mi andava per niente questo ruolo di subordinato, io ne facevo soprattutto una questione di perdita di tempo. Il mio ragionamento era semplicissimo: in quelle giornate futili in cui il signor regista chiacchierava svogliatamente con i suoi accompagnatori, come a volte, per mesi interi, facevano fior di romanzieri (perché poi magari da quella giornata passata insieme poteva venir fuori una battuta per il film: o forse no), quante cose più interessanti potevo fare io! «Andate, andate pure: nel frattempo mi scrivo i miei articoli, mi leggo i miei libri e intanto non faccio il dipendente di nessuno». Come vedi, era soprattutto una questione di impiego del tempo. Passare una giornata intera sulla spiaggia desolata di Fregene, di inverno, con Fellini che monologa o che sta zitto, o con Visconti, in giro per antiquari e alle prese con vasi, porcellane e comò… Ma neanche per sogno!
(continua)

Luchino Visconti: Ossessione (1943)

3 commenti:

  1. Caro Solimano, con la mia solita schiettezza ti dico come è andata. Stanotte, prima di spegnere il pc, sono passata di qui per leggere gli ultimi post ma questo l'ho saltato. Ero stanca ed il post mi sembrava, chissà perchè, troppo impegnativo. Ho letto invece con gran divertimento quello seguente "La moda nel cinema: C'era una volta" e sono andata a dormire. Ora però, tornando qui in un momento di relax, ho deciso che potevo affrontare anche Arbasino. Sorpresa piacevolissima, il post è tutt'altro che noioso e impegnativo; si legge invece molto volentieri ed è anche piuttosto divertente; ha molto più del gossip (ad alto livello) che dell'intervista seriosa ed il gossip piace a tutti, anche a quelli che non lo ammetterebbero neppure con se stessi. ;-))

    Ciao e grazie
    H.

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  2. Habanera, questa conversazione l'ho scoperta documentandomi su La bella di Lodi. L'ho trovata vivacissima, maliziosa, colta e divertente. Dice anche cose molto giuste che non sapevo. Difatti non finisce qui, almeno un altro post da questa conversazione lo inserisco senz'altro, e vedrai, dice cose ancora più sorprendenti e sfotte con molta eleganza sia Fellini che Visconti.

    grazie e saludos
    Solimano

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  3. Anche a me piace questo tipo di gossip proprio perché, come dice Habanera, è ad alto livello. Tende ad illuminare la parte in ombra di certi grandi personaggi, a rivelare la parte umana difetti e volgarità incluse. E così mettiamo qualcosa sul piatto vacante della bilancia del mito.
    Un caro saluto
    Laura

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